Pagina:Da Ponte, Lorenzo – Memorie, Vol. I, 1918 – BEIC 1797111.djvu/118

Vienna; non piacque a Rosemberg, che non amava quel genere di musica; ma sopra tutto non piacque a Casti, che dopo il Burbero non osava piú dire: — Il Da Ponte non sa far drammi. — e cominciava a sentire che non era impossibile ch’io alfine ne facessi uno che piacesse quanto il Teodoro.

Il conte frattanto, dopo aver tentato invano ogni mezzo surretticcio, osò chieder apertamente il posto di poeta cesareo pel suo novello Petronio. E, come la maniera è molto bizzarra, cosi m’imagino che fará piacere, a chi legge, l’udirla. Aveva l’imperadore data alle dame ^ii Vienna una bellissima festa nel palazzo di Schoenbrunn, nel cui teatrino il direttore degli spettacoli aveva fatto introdurre una comediola tedesca e un dramma italiano, le parole del quale erano, per suo consiglio, state fatte da Casti. Portava per titolo; Le parole dopo la musica. Per assicurarsi ch’era un vero pasticcio, senza sale, senza condotta, senza caratteri, basterá sapere che nessuno, tranne il conte, ebbe ardir di lodarlo. Per assicurar meglio la riuscita de’ loro intrighi, si pensò di far una galante satiretta dell’attuale poeta teatrale; e si può ben credere che il signor Casti non fu si galante con me come lo fu Apelle con Antigono. Ma, se si tragga il vestito mio e il modo con cui io portava i capelli, il rimanente era piú ritratto di Casti che mio. Parlava tra l’altre cose dei miei amori colle donne teatrali, e il bello si era che delle due donne che cantavano in quella farsa egli medesimo n’era il protettore ed il vagheggino. Il giorno dopo la festa, il conte, come gran ciambellano di Giuseppe, ebbe ordine da quel sovrano, nel presentargli la camicia, di segnare sopra un foglietto i nomi de’ cantanti e degli attori e di affissar a ogni nome, a misura del merito. un certo numero di zecchini, in segno dell’aggradimento sovrano. Mentre dunque l’imperadore vestivasi, il conte scriveva: finita che fu la ljsta, gliela presentò. Cesare le die’ un’occhiata, sorrise, e, pigliando in mano la penna, aggiunse un zero alle varie somme del conte, sicché un dieci diveniva cento, un quindici centocinquanta, e cosi in séguito. Restituendogli poi quella lista: — Non è il conte Rosemberg — disse — che die’ la festa: è l’imperadore. —