Memorie (Da Ponte)/Parte prima (1749-1777)
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PARTE PRIMA
(1749-1777)
Non iscrivendo io le memorie d’un uomo illustre per nascita, per talenti, per grado, in cui le minime cose giudicare si sogliono importantissime per la importanza del soggetto di cui si scrive, parlerò poco de’ miei parenti, della mia patria, de’ miei primi anni, come di cose affatto frivole per se stesse o di pochissimo rilievo pe’ leggitori. Parlerò di cose, se non del tutto grandi per lor natura e capaci da interessare ogni paese ed ogni lettore, pur tanto singolari per la lor bizzarria, da poterlo in qualche modo instruire o almeno intrattener senza noia. Il giorno decimo di marzo dell’anno 1749 nacqui a Ceneda, piccola ma non oscura cittá dello Stato veneto. All’etá di cinque anni perdei la madre. I padri prendono poco cura generalmente de’ primi anni de’ loro figli. Furono questi negletti interamente dal mio: all’etá d’undici anni leggere e scrivere era tutto quel eh’ io sapeva. Fu allora solamente che mio padre pensò a darmi qualche educazione <’); scelse per mia disgrazia un cattivo maestro. Era questo il figliuòlo d’un contadino, il quale, passato dall’aratro e da’ buoi alla ferula magistrale, ritenne anche nel ginnasio la durezza e rusticitá dei natali. Mi pose egli in mano la grammatica dell’Alvaro, e pretese insegnarmi il latino. Studiai qualche mese senza imparar nulla. Si credeva da tutti ch’io fossi dotato di una memoria e d’un ingegno poco comune, per la mia vivacitá nel parlare, per una certa prontezza nel rispondere, e sopra tutto per un’insaziabile curiositá di tutto sapere. Maravigliandosi perciò il padre mio ch’io profittassi si poco alle lezioni del contadino, si vòlse ad investigarne le cause. Non durò gran fatica a scoprirle. Venne un giorno per accidente nella camera dello studio, e misesi inosservato dietro alle spalle del pedagogo. Indispettito costui per certo errore da me commesso nel ripetere la lezione, serrò con rustica rabbia la destra mano, e colle incallite nocche delle ruvide dita si mise a battere la mia fronte, come Sterope e Bronte batton l’incudine. Divertiva ogni giorno in questa guisa costui la mia testa. Non so se piú la vergogna o il dolore mi trasse dagli occhi qualche tacita lagrima, che fu da mio padre veduta. Preselo allora improvvisamente per gli capelli, trascinollo fuor della camera, lo gettò giú della scala, gettògli dietro il calamaio, le penne e l’Alvaro, e per piú di tre anni non si parlò piú di latino. Credette mio padre, e forse era vero, che la mia avversione pel maestro cagion fosse stata del mio pochissimo profittare nello studio di quella lingua. L’effetto però di questa storiella fu per me assai fatale. Rimasi fino all’etá di quattordici anni del tutto ignorante in ogni genere di letteratura; e (1) Lo studio della lingua latina era il sine qua non de’miei tempi. mentre tutti gridavano: — Oh che spirito! Oh che talento! — 10 mi vergognavo internamente d’esscr il meno instruito di tutti i giovani di Ceneda, che mi chiamavano per ischerzo lo «spiritoso ignorante». Non è possibile dire quanto ciò mi pungesse e quanto voglioso rendessemi d’instruzione. Montato un di a caso nel soffitto della casa, dove mio padre era solito gettare le carte inutili, vi trovai alcuni libri, che formavano, creilo, la biblioteca della famiglia. V’era tra questi il Buovo d’Anton a, 11 Fuggi/ozio , il G aerino detto il meschino , la Storia di Bar tanni e di Giosaffat, la Cassandra , il Bertoldo e qualche volume ilei Metastasio. Li lessi tutti con un’incredibile aviditá, ma non rilessi che il poeta cesareo, i cui versi producevano nella mia anima la sensazione stessa che produce la musica. Pigliò Irattanto una seconda moglie mio padre, e dopo dieci anni di vedovanza ci die’ per matrigna una giovinetta, che non ne contava ancora diciassette. Egli avea passati i quaranta. Stimolato dunque da un canto dal desiderio d’ornare di qualche lume la mente, e prevedendo dall’altro le conseguenze di un matrimonio si disuguale, cercai d’ottenere dall’altrui beneficenza quel che non poteva sperare dalla paterna sollecitudine. Era in que’ tempi vescovo di Ceneda monsignor Lorenzo da Ponte, soggetto d’insigne pietá, di benefica religione e di tutte le virtú cristiane eminentemente dotato. Era egli, oltre a questo, e di mio padre e di tutta la mia famiglia amantissimo. Me gli presentai con coraggio, pregandolo di collocare me ed un altro fratello mio nel suo seminario. Piacque all’ottimo prelato il mio commendabile ardire, e, vedendo si in me che in questo fratello mio un vivo desiderio d’instituzione, unito a buone apparenze d’un pronto ingegno e d’una memoria felice, aderi non solo con giubilo all’onorata mia brama, ma suppli con rara bontá alla non piccola spesa del nostro intero mantenimento. I progressi fatti da noi nello studio risposero in qualche modo alle speranze concepite dal nostro benefattore. Imparammo in men di due anni a scrivere con qualche eleganza il latino, ch’era la lingua che con particolare cura insegnavasi da’ valentissimi professori di quel dotto seminario, come la piú necessaria ad alunni che aspiravano al sacerdozio, per cui soro principalmente stabiliti que’ lochi in Italia. Le lingue moderne, senza eccettuare l’italiana, quasi del tutto si negligevano. Mio padre, ingannandosi nella scelta del mio stato e lasciandosi consigliare piuttosto dalle sue circostanze che dal dovere di padre, pensava destinarmi all’altare, quantunque ciò fosse affatto contrario alla mia vocazione ed al mio carattere. Era dun que educato anch’io alla maniera de’ preti, sebbene inclinato per genio e quasi fatto dalla natura a studi diversi; di modo che all’etá di diciassette anni, mentre io era capace di comporre in mezza giornata una lunga orazione e forse cinquanta non ineleganti versi in latino, non sapeva, senza commettere dieci errori, scriver una lettera di poche linee nella mia propria lingua. Il primo a distruggere tal pregiudizio, a introdurre tra gli alunni di quel collegio il buon gusto, indi una nobile gara e predilezione per la toscana favella, fu il coltissimo abate Cagliari, giovane pieno di foco e di valore poetico, che, uscito di fresco da’ collegi di Padova, da’ quali non era escluso Dante e Pe trarca piú che Virgilio ed Orazio, cominciò a leggere, spiegare e far gustare a un buon numero di giovanetti, alla sua educa zione affidati, le prose, i versi e le bellezze de’ nostri.
Frequentavan le sue leggiadre lezioni due de’ piú colti e svegliati ingegni di Ceneda, Girolamo Perucchini e Michel Colombo. All’emulazione di questi deggio, piú che a tutt altro, la rapiditá de’ miei avanzamenti nella poesia. Narrerò qui un fatterello, che, sebben frivolo e di poco momento in se stesso, basterá nulla di meno a dar un’idea della forza c’hanno sugli animi giovanili gli esempi de’ buoni, il timore del biasimo e l’onesto desiderio di eccellere. Aveva fatto Michel Colombo i suoi primi studi, avanti d’entrare nel seminario di Ceneda, sotto la direzione di ottimi institutori. Scriveva bene in latino e componeva de’ versi italiani pieni di gentilezza e di grazia. Non isdegnava talvolta di leggerli a me, cui amava sinceramente, per incitarmi, diceva egli, a far un saggio della vena poetica. Un giorno, difatti, mi misi alla pruova. Occorrendomi una piccola somma di danaro pe’ soliti giovenili diporti, credei d’ottenerla piú facilmente da mio padre, domandandogliela in versi. Ecco dunque il primo quadernario, che schiccherai, di quattordici versi, ch’io osai chiamare «sonetto» :
Mandatemi, vi prego, o padre mio, quindici soldi o venti, se potete, e la cetera in man pigliar vogl’io, per le lodi cantar delle monete.
Aveva io appena finito quest’ultimo verso, quand’odo dietro alle spalle un grandissimo scroscio di riso, per lo quale volgendo il capo, veggomi a tergo l’amico Colombo, che mostrava aver letto i miei versi, che, sul tuono che gli orbi cantano per le strade d’Italia, modulava, sempre ridendo, l’ultimo di quelli, e che imitava col movimento delle dita lo strimpellamento del colascione. Piansi di vergogna e di rabbia ; e per piú di tre giorni non parlai né guardai in faccia Colombo, che tuttavia seguitava maliziosamente a cantar alla foggia de’ ciechi il mio verso e a mettersi in attitudine di strimpellare. Dopo avermi cosi tormentato per qualche tempo, fu il primo egli ad incoraggiarmi a novelle prove, e! io gli promisi di farle. Mi feci allora a leggere ed a studiare con tanto fervore i buoni autori di nostra lingua, che non pensava piu né a cibo né a sonno, non che a quegli ozi e trastulli, che sono naturalmente si cari a’ giovani, e per cui si spesso si perde il frutto de’ piú conspicui talenti. Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso furono i miei primi maestri : aveva imparato a memoria in meno di sei mesi quasi tutto P Inferno del primo, tutti i migliori sonetti del secondo, e non poche delle sue canzoni, e i piú be’ tratti degli altri due. Dopo questo esercizio e dopo aver composto segretamente e bruciati piú di duemila versi, ebbi speranza di poter cimentarmi co’ miei condiscepoli, e di scriver de’ versi non interamente da cantarsi sul colascione. Essendo stato eletto in quel tempo il rettore del nostro collegio ad altro onorevole grado, per cui doveva partire da quell’impiego, tra le varie composizioni, che da molti alunni in lode di quello si recitarono, recitai anch’ io un mio sonetto. Lo stampo in queste Memorie, non perché mi paia degno d’esser pubblicato, ma perché si giudichi de’ progressi fatti da me in soli sei mesi, e ciò diventi un eccitamento per quelli che, anc’ un po’ tardi, natura j’avente , agli studi poetici si rivolgono.
Quello spirto divin, che, con l’ardente e puro raggio del superno amore, la caligin dilegua a’ sensi e fuore d’ogni fallace error tragge la mente, fu quel, saggio signor, che dal possente trono di gloria al destinato onore t’elesse, onde con santo e vivo ardore per lo retto cammin guidi sua gente. Su vanne or dunque e il nuovo popol reggi, e ascendi il nuovo seggio, onde co’ tuoi fregi divenga piú lodato e adorno. Vanne, quivi per te le sante leggi vivati di Cristo, di Satino a scorno:
ma deh! signor, non ti scordar di noi (>). Come prima di questo sonetto io non aveva lasciato vedere ad alcuno i miei versi italiani, tranne i quattro da colascione, cosi nessuno voleva credere che questi quattordici fossero miei. (r) Il seguente sonetto fu composto in quella stessa occasione dal mio amico Colombo. Lo pubblico qui, sperando di fargli cosa grata, nel pruovargli che sessantacinque anni non bastarono a cancellar dalla mia memoria i versi d’un amico si caro.
Quanto è possente amor ! Padre avevamo, tenero amante padre, e insomma tale, che niun credo giammai n’ebbe l’uguale dal di che prima aperse gli occhi Adamo. Si caro padre or noi perduto abbiamo: ché divino volere, alto, immortale, con decreto a lui fausto, a noi fatale, lo trasse altrove; e noi pupilli or siamo. Ben conosciam quant’aspro e grave è il danno, ma non ci pesa, ché ne scema il duolo sua felice avventura, anzi ne ’1 toglie. E amor, fatto di noi dolce tiranno, nostra sciagura a pianger no, ma solo lieti ne tragge a secondar sue voglie 11 solo Colombo mostrò di crederlo, e lece giuramento solenne di non iscrivere piú in italiano; giuramento che poi gli fé’ rompere una leggiadra e bellissima giovanetta, di cui eravamo arabidue innamorati e per cui verseggiammo a vicenda. Questo non voler credersi generalmente che quel primo sonetto fosse composto da me, fu un nuovo genere di lode, che, senza solleticare soverchiamente il mio amor proprio, m’incoraggi a sforzi maggiori e mi fece risolvere fin d’allora a darmi interamente all’italiana poesia. In men di due anni ho letto piú d una volta e versato, diurna et noe turno, marni, tutti non solo i poeti classici, ma tutti quelli eziandio che vanno per le mani de’ piú come scrittori di un vero merito, eccettuando i soli secentisti, che non ho osato leggere prima di creder me stesso capace de’ lumi necessari per distinguere il buono dal cattivo ed il bello apparente dal vero bello. E non era giá contento di leggere, ma trasportava in latino i piú nobili tratti de’ nostri, li copiava piú volte, li criticava, li commentava, gli imparava a mente, esercitandomi spesso in ogni maniera di composizione e di metro, e procurando imitare i piú vaghi pensieri, adoperar le piú leggiadre frasi, scegliere i piú bei modi da’ miei antesignani usitati, preferendo sempre e sopra tutti gli altri quelli del mio idolatrato Petrarca, in ogni verso del quale mi pareva ad ogni lettura di ritrovar qualche nuova gemma.
In questa maniera, e con questo continuo ed infaticabile studio, arrivai verso il cominciamento del terzo anno a gareggiare co’ primi, e non raramente riportarono i versi miei l’onor del trionfo. Ottenni molte lodi per una canzone, da me a pruova composta co’ piú colti giovani di Ceneda. Ma non servirono queste a farmi inorgoglire od a farmi credere veramente che la can zone mia fosse bella. Ebbi, fin da’ prim’anni della mia studiosa carriera, la buona sorte di credere che da altro non nascessero le lodi, ch’io riportavo, che da una cortese intenzione di avvalorare i miei, giovanili sforzi e di condurmi col tempo a meritarle veracemente. Questo mi tenne lontano dall’oziosa superbia e da una vana opinione di me medesimo; scogli in cui spesso urtano gli studiosi, che, credendo di saper tutto, ivi il piú delle volte si fermano, donde forse dovrebbero incominciare. Qualche talento poetico, da me ottenuto dalla natura, e questo infinito amore per la poesia, unito a principi si sani, m’avrebber forse portato un giorno alla riputazione ed al grado di buon poeta, se la fortuna non si fosse attraversata continuamente alle mie onorate intenzioni e non mi avesse tratto con man prepotente e quasi per forza tra i piú pericolosi e cru deli vortici della vita, togliendomi quella pace, quei mezzi e quei placid’ozi, senza de’ quali l’umana mente invan s’argomenta di giungere agli alti fastigi. Infiammato, siccome io era, del nobile desiderio d’ornare l’ingegno di tutti quei lumi e di tutte quelle cognizioni che in un poeta richiedonsi, aveva acquistato, a forza di economia e di giovenili risparmi, una picciola collezione di libri latini, e preparavami ad arricchirla de’ migliori italiani. Avevamo un libraio a Ceneda, che per solo capriccio, sebbene ignorante ed idiota, aveva una bottega d’ottimi libri. Mi trovai appena in possesso di poche lire, che andai a trovarlo, e feci scelta di un numero di libri, per la maggior parte elzeviriani, il valore de’ quali superava di molto il contenuto della mia povera borsa. Aveva un figlio costui, che faceva il mestiere di calzolaio. Trovò il buon vecchio un ottimo spediente pei miei e suoi bisogni. — Portatemi — diss’egli — alcune pelli di sommaco e di vitellino della manifattura di vostro padre, e accomoderemo le cose. — Mi piacque il ripiego : corsi a casa, entrai segretamente nel magazzino, scelsi tre pelli di vitello, ne feci un Cardellino bene stretto, me lo adattai tra l’abito talare e la schiena, e m’incamminai alla porta per uscire. Stava allora, per mia disgrazia, sul limitare di quella la mia matrigna, chiacchierando con qualche donna del vicinato. Come io temeva che s’accorgesse del furto fatto, cosi feci un giretto per andarmene a un’altra porta. Arrivato in istrada, bisognava passare davanti al crocchio donnesco. Non avevo fatto che pochi passi, quando udii una di quelle donne dire altamente: — Che peccato che quel giovinetto sia cosi gobbo! — Tale faceami parere il nascosto fardello. Mentre fo un salterello per lanciarmi a sghimbescio dall’altra parte della via, il fardello cade per terra, le femine ridono, mia matrigna corre a raccoglierlo, ed io, senza voltarmi né far motto, séguito il mio camino, e vommene quatto quatto dal buon libraio. Narratagli la mia disgrazia, gli diedi alcune lire a caparra, e lo pregai caldamente di tener que’ libri per me; il che egli fece. Non mancò la matrigna di narrar la cosa a mio padre, che venne la domane ò) al seminario, me ne disse a bizzeffe, né valse ragione a placarlo, non che a ottenere da lui la somma che mi occorreva per comperare que’ libri, che non era piú di dodici piastre. Riseppe la novelletta l’ottimo vescovo, mandò sul fatto per me, mi fece ripetere tutta la cosa, che udí lacrymoso non soie risu , e mi diede il danaro necessario a comperare que’ libri. Il piacere di tale acquisto non fu di lunga durata per me. Una terribile malattia, che tenne per piú di sei mesi la mia famiglia in continuo timore di perdermi, varie disgrazie domestiche, che afflissero in que’ tempi mio padre, e sopra tutto la morte di monsignor Da Ponte, mio protettore, mi tolsero non solo i modi di proseguire gli studi intrapresi, ma posero in estrema indigenza mio padre, che dalla beneficenza di quel prelato traeva incessantemente protezione e soccorsi.
Perdei piú d’un anno in tal guisa, tra le malattie, le lagrime e l’ozio, e fui alfine costretto a vendere la maggior parte de’ libri, che aveva acquistati, e di venderli or per coprirmi d’un decente abito ed or per supplire alle quotidiane occorrenze della famiglia. Questo stato di povertá, da cui fu allor assalita la mia famiglia, mi fece rinunziar alla mano di nobile e vaga giovine, ch’io amava teneramente, e ad abbracciare m’indusse uno stato del tutto opposto al temperamento, al carattere, a’ principi e agli studi miei, aprendo in tal guisa le porte a mille strane vicende e pericoli, di cui l’invidia, l’ipocrisia e la malizia de’ miei nemici mi reser per piú di vent’anni vittima lamentevole. Permetti, cortese lettore, ch’io copra colle tenebre del mistero questo punto dolente della mia vita, risparmiando cosi alla mia (l) La voce «indomani» è proscritta da’ puristi. Cesarotti ed altri l’usarono. Ma io non l’userò piti, da che la trovai riprovata dal C-sari. penna un risentimento, che desterebbe intempestivi rimorsi in un cuore, che, ad onta di tutto, riverisco e che non cesserò in alcun tempo di riverire.
Dopo questa tempesta, da me sofTerta con coraggio e rassegnazione, monsignor Ziborghi, un venerabil canonico di quella cattedrale, che ereditate aveva le benefiche inclinazioni del defunto prelato per noi, procacciò si a me che agli altri due miei fratelli l’assistenza di uno di que’ begli istituti, che ne’ tempi felici della sventurata Venezia onoravano con tanta gloria quella repubblica. Fummo tutti tre collocati nel seminario di Portogruaro, dove un nuovo campo mi fu aperto da proseguire con agio e decoro gl’interrotti miei studi. Attesi il primo anno alla filosofia ed alle matematiche, senza perder però di vista le mie dilettissime muse. Mentre s’affaticava il maestro a spiegar Euclide o qualche astruso trattato di Galileo o di Newton, io leggeva furtivamente ora V Aminta del Tasso, ora il Pastor fido del Guarirti, che aveva quasi imparati a memoria. Verso la fine del primo anno recitai pubblicamente una canzone in lode di san Luigi, che fu applaudita: piacquero sopra tutto questi tre versi:
Ma sei ritolse il ciel, quasi sua gloria fosse manca e men bella senza la luce di quell’aurea stella.
Un «bravo!», uscito di bocca a dotto e nobile personaggio, ini fruttò la cattedra di retorica, che monsignor Gabrielli, vescovo di Concordia, soggetto per dottrina, per nobiltá e per religiosa luce eminente, in quel giorno stesso mi offerse. Aveva allora in pensiero di perfezionarmi nell’intelligenza della lingua ebraica, che aveva ne’ primi anni miei molto studiata, e di applicarmi ad un tempo stesso allo studio de’ greci, portando ferma opinione che, senza la lettura di quelli, nessuno potesse divenir gran poeta. Per questa ragione esitai piú giorni a risolvere.
Mi lasciai vincere alfine dalle persuasioni del buon rettore, che infinitamente mi amava, e piú dalle circostanze paterne, che co’ guadagni del mio impiego aveva speranza di ammegliorare.
Accettai dunque l’offerta, e in un’etá, in cui aveva bisogno d’imparar io medesimo infinite cose, mi posi all’arduo cimento d’insegnar agli altri le belle lettere. Non credo però che questa specie d’interruzione cagione sia stata di ritardo o di detrimento a’ miei letterari avanzamenti (’). Non aveva ancora vcntidue anni al momento della mia elezione. Erano affidati alle cure mie trenta e piú giovani, pieni di ardore, d’ingegno e di emulazione, e fino allora miei condiscepoli. Il vescovo non cessava di fomentar ed infiammar dentro il mio spirito i piú forti e pungenti Stimoli dell’amor proprio, tutti gli occhi della cittá erano in me solo rivolti: iinagini il mio leggitore coni’io tremava. Raddoppiai quindi la diligenza, le meditazioni e gli sforzi, per adempiere non senza gloria i doveri del mio impiego; e quel, che non ebber tempo d’insegnarmi i maestri, imparai, come disse un dotto rabino, da’ miei discepoli. Umitalmidai rabddi miculam.
Il fortunato effetto delle mie onorate premure eccitò in alcuni l’iniquo pungolo dell’invidia. Due o tre maestri di quel seminario divennero miei indomiti persecutori. Pretendendo cb’io non avessi studiato a fondo la fisica e le matematiche, tentarono assalirmi ila questo lato, gridando ch’io non era che un parolaio, un verseggiatore senza scienza. Composi allora varie poesie, tanto italiane che latine, sopra diversi argomenti fisici, che si recitarono pubblicamente da’ giovani della mia scola verso la fine dell’anno. Piacquero generalmente i miei versi, ma sopra tutto un ditirambo sopra gli odori, in cui si credette vedere qualche lampo del foco rediano:
Qual felice avventura, ecc. Quanto mortificati rimasero i miei nemici, tanto fui io lodato ed accarezzato da’ letterati di quella cittá, dalla scolaresca e dal vescovo; il che aumentò a dismisura l’odio de’miei rivali. Dopo due anni di pazienza, mi congedai. Passai sfortunatamente a Venezia. Essendo nel bollor dell’etá, di temperamento vivace e, al dire di tutti, avvenente della persona, mi lasciai trasportare dagli usi, dal comodo e dall’esempio alle voluttá (r) E da’miei discepoli imparai piú che da tutti. ed ai divertimenti, dimenticando o negligendo quasi del tutto la letteratura e lo studio. Aveva concepita una violentissima passione per una delle piú belle, ma insieme delle piú capricciose dame di quella metropoli. Teneva occupato questa tutto il mio tempo nelle solite follie e frivolezze d’amore e di gelosia, in feste, stravizzi e bagordi, e, salvo qualch’ora della notte, eh’ io dava per uso alla lettura di qualche libro, non credo, in tre anni di tempo che durò quella tresca, d’aver imparata cosa che pria non sapessi o che fosse pur degna di sapersi. Parve che la provvidenza volesse liberarmi dal pericolo terribile che sovrastavami. Ad onta di tutte le gelosie e di tutti i capricci di quella donna, ritenuto aveva il buon uso di andare la sera a certo cafTé, dove i piú colti e dotti uomini di Venezia si radunavano, ed era chiamato per questo il «Caffè de’ letterati». Trovandomivi una sera mezzo mascherato, entrò un gondoliere, guardossi attorno, fissò gli occhi in me e mi fece cenno d’uscire. Arrivato sulla strada, mi fé’ cenno di seguirlo. Mi trasse allora alla riva di un canale vicino, e mi fece entrare in una gondola, che dalla parte opposta di quella bottega era situata. Credendo di trovar ivi la mia amica, che soleva venir talvolta a pigliarmi in quel loco, v’entrai senza altro indagare, e me le assisi vicino. Era la notte tenebrosissima. Un fanale acceso in qualche distanza mi aveva fino allora mostrato il cammino; ma, quando fui nella gondola, il barcaiuolo lasciò cadere il solito panno sull’imboccatura di quella, perlocché il buio era perfettissimo. Salutando ella me ed io lei nel punto medesimo, discoprimmo ambidue, al suon di una voce che c’era nuova, che il gondoliere dovea avere equivocato. Io l’avea, sedendo, presa per la mano, per baciargliela all’uso nostro, la quale era assai piú pienotta di quella dell’amica mia. Tentò ella subito ritirarla; ma io la ritenni con dolce forza, assicurandola con vive espressioni che non aveva nulla a temere. Mi rispostila cortesemente, pregandomi tuttavolta d’andarmene. Accorgendomi che non era veneziana, come quella che prettissimo toscano favellava, venni in maggior curiositá di saper chi fosse, e adoperai tutta l’eloquenza perché mi permettesse d’accompagnarla alla sua dimora. Dopo molte difficoltá, consenti di pigliare qualche rinfresco, con patto che le promettessi d’uscire fuori dalla gondola senza investigare piú oltre. Andò il gondoliere pei rinfreschi al caffè vicino, e portò con sé una lanterna. All’apparir della luce mi si offerse al guardo una giovane di bellezza maravigliosa e di nobilissime apparenze. Non sembrava avere e non aveva ancora diciassett’anni. Era vestita con molto buon garbo, ornata di maniere gentilissime, e brillava in ogni suo detto la costumatezza e lo spirito. Tacemmo entrambi per qualche tempo. Parendomi però ch’ella guardasse me con un sentimento non dissimile a quello con cui io lei guardava, presi coraggio, e tutte quelle cose le dissi, che in simili avventure si soglion dir alle belle donne. La pregai novellamente a voler permettermi d’accompagnarla fino alla sua abitazione, o farmi almeno sapere con chi aveva la sorte di conversare. Vedendo ch’io trattava con lei con tutta quella delicatezza e rispetto che il suo stato esigeva e che dá generalmente l’idea del carattere d’un uomo ben educato, sembrò compiacersene e parlò cosi: — Le circostanze bizzarre, in cui mi ritrovo, mi vietano di condiscendere alle vostre brame. Si può dare che cambino, e in quel caso ci rivedremo. Di tanto dovvi parola, e, se volete di piú, vi dirò francamente che lo desidero e che adoprerò tutti i mezzi perché succeda. — Le dissi allora chi io era, e si fissò quella medesima bottega e quella medesima ora pel nostro futuro incontro. Dopo breve intervallo, parti. Non so se la curiosila o ia speranza che questa avventura mi liberasse d’una troppo violenta passione per una donna, che fin dal principio della mia pratica non parea fatta per la mia felicitá, mi fece andare ogni sera costantemente al caffè indicato ; ma dopo qualche tempo cominciai a perdere ogni lusinga. Cresceva intanto di giorno in giorno la mia passione per l’altra, e con quella il suo tirannico dominio. Aveva questa un fratello, che fu sempre per me un oggetto odiosissimo, e che, volendo partecipare del comando sororio, mi faceva suo schiavo, suo confidente, suo tesoriere. Risolsi improvvisamente partir da Venezia. sperando che la lontananza servisse a guerirmi. Aumentò questa invece la mia debolezza e il mio desiderio. Non ebbi forza di resistere. Dopo otto giorni di battaglia tormentosissima, tornai a Venezia ed accettai per mia disgrazia l’ofTerta, che fecemi quella donna, d’andare ad abitar in sua casa. Non mancai per altro la sera d’andare al caffè solito, dove udii, non senza rincrescimento, che un gondoliere eravi stato pochi giorni prima per me e che il bottegaio detto gli avea ch’era partito. Non credeva perciò probabile di poter piú ricever novella della bella incognita Alcuni di dopo, passeggiando per la piazza di San Marco, sento tirarmi pel lembo dell’abito e chiamarmi per nome. Era il rematore di quella giovine, che mi disse con somma gioia:
— Go gusto che la xè tornado; vago a consolar la parona: se revederemo stasera. — Parti, ciò detto, senza aspettar risposta, e tornò la sera al caffè colla bella giovine. Appena entrai nella gondola: — Eccomi venuta — disse ella — a mantenere la mia parola. — Dopo i soliti complimenti, ordinò al barcaiuolo di condurci da lei. Mi fece passare, quando vi giungemmo, in un’elegante camera ; entrò sola in un gabinetto contiguo, del quale usci, pochi istanti dopo, vestita ed ornata con grande ma semplice eleganza; s’assise quindi vicino a me, e cosi parlommi:
— Prima d’ogni altra cosa, è giusto che vi informi dell’esser mio e delle bizzarre cagioni che m’hanno condotta a Venezia.
Io sono napolitana, e mi chiamo Matilda, figliuola del duca di M.a. Mio padre, che non aveva che due figliuoli quando mori la madre mia, sposò, dopo dieci anni di vedovanza, la figlia di un droghiere, che prese su lui un dominio affatto tirannico, e, abusando del suo carattere naturalmente debole, reso piú debole dall’amore, giunse a fargli raffreddare, se non a spegnere in lui, si per me che per mio fratello, ogni sentimento paterno. Fu egli mandato per suo comando nel collegio militare di Vienna, ove in meno di sei mesi mori; ed io, che non aveva ancora undici anni, fui messa in un convento a Pisa, dove vissi contra mia voglia sei anni, senza il conforto di vedere mio padre o di aver novella di lui. Tentarono tutti i mezzi le monache di quel convento per persuadermi d’abbracciare il lor medesimo stato; il che però rifiutai costantemente di fare. Arrivò all’improvviso a Pisa la mia matrigna. Mio padre era con lei; ma non gli permise la cruda donna di venir a trovarmi. Venne ella sola; e, fingendo per me tutta la tenerezza e l’amore di madre: — Figliuola — diss’ella, — odo che non avete la vocazione di darvi a Dio: bisogna dunque darvi al mondo. Vostro padre, che mi ha lasciata la cura della vostra futura sorte e che sa che meno non v’amo di quello che farei se foste mia propria figlia, v’ofTre uno sposo, ch’io v’ho giá scelto e che può assicurare la vera felicitá della vostra vita. Se promettete ubbidire a’ voleri miei, che sono quelli di vostro padre, preparatevi a uscire domani da queste mura che non amate; se no... — Io, che odiava il convento, le monache e le loro pratiche, e che dopo sei anni di prigionia desiderava ardentemente la libertá, sopra tutto per veder e abbracciare quello a cui doveva la vita, appena udii questo «se no», che sorsi sollecitamente dal loco dove sedeva, mi gettai al collo di quella donna che poco conosceva, e: — Tutto — dissi, — mia cara madre, tutto son pronta a fare quel che a voi piace. — M’abbracciò allora anch’essa e mi baciò piú volte teneramente, e volle che uscissi dal convento, senza aspettar il domani. Andammo allora aH’albergo, dov’era mio padre. — È questa mia figlia? — gridò egli altamente, vedendomi. — Vostra figlia, e figlia ubbidiente — rispose la perfida. Ripigliò allora la natura tutti i suoi dritti. Non è necessario dirvi i suoi baci, le sue carezze, i suoi trasporti ed i miei.
Partimmo tosto per Napoli, dove arrivata, ad altro non si pensò che ai preparativi del mio matrimonio. La mia matrigna m’aveva dato due stanze contigue alle sue, dove custodivami gelosamente, senza lasciarmi vedere o parlare da sola a sola con chi che sia. Io non sapeva qual giudizio formar dovessi di que sta strana riservatezza. Un giorno, mentre io stava del tutto immersa in questo pensiero, entrò improvvisamente nella mia camera la matrigna, mi trasse con sé nella sua e vi si chiuse meco, e, traendo da un ai madio uno scrignetto pieno di perle e di gemme : — Questo — mi disse — è il primo dono del vostro sposo, il resto, che corrisponde perfettamente al suo grado, lo troverete da lui. Non siate ingrata alla mia bontá, all’amicizia mia. — Da Ponte, Memorie. Spalancò, ciò detto, le porte, e vidi comparire un vecchio d’aspetto orribile, ch’io giudicai avere piú di sessantanni, seguito da pomposo corteggio di staffieri, lacchè e paggi e da due ministri dell’altare. Mio padre veniva dopo tutti, taciturno e con occhi bassi. — Ed eccovi, Matilda, lo sposo vostro — mi disse colei baldanzosamente. — Eccovi, o principe, — vòlta a lui — quella che adesso dalla mia mano, e poi da quella dei sacerdoti, riceverete in consorte. — lo avevo sulle prime perduto il moto, non che la voce. Mormorò allora quello sciagurato diverse parole, che non intesi. Ma, risentitami alfine e quasi animata dal dolore, dal dispetto, dalla disperazione, misi un terribile grido, mi strappai dal capo alcuni veli, che m’avevano posti, e con quelli gran parte de’ crini, e, aprendomi furiosamente il cammino tra quella gente, mi gettai a’ piedi del padre mio, gridando tra i singhiozzi e le lagrime: — Patire mio, soccorretemi! — Questo bastò per rendere quella serpe furente. Non è possibil descrivere lo schiamazzo che fece. Disparvero tutti, ed io rimasi sola con lei e con mio padre, che non aveva né coraggio né forza da difendermi. Chiamò ella infine due servi, che mi strascinarono semiviva in una carrozza. Aveva perduto novellamente l’uso de’sentimenti. Tornata, non so quanto tempo dopo, in me stessa, mi trovai in una camera, ch’aveva tutta l’apparenza di una prigione. Non v’era in quella che un letto, due sedie e una vecchia tavola: assicurate erano le finestre da grate di grosso ferro, ed eran si alte nelle pareti, ch’io non poteva giungervi per alcun modo. Agitata da mille sospetti, passai tutto il rimanente del giorno in querele ed in lagrime. Verso la sera udii uno sbattimento di chiavi al di fuori, e, aperta la porta, entrar vidi nella mia stanza una donna di forme orribili, con un picciolo cesto in mano, cui depose sopra la tavola, e, dopo avermi fissamente guardata, senza aprir bocca parti. Guardai allora nel cestello, e vi trovai una bottiglia d’acqua, due ova e del pane. Ma io non era in istato di premiere altro nutrimento che quello delle mie lagrime, di cui mi cibai, piú che di altra cosa, pel corso di quindici giorni, che durò quella prigionia. Creda che la disperazione mi avrebbe uccisa, se non avessi riflettuto che ogni sventura era preferibile a quella di maritare un fetente cadavere, elié tale era infatti lo sposo offertomi. Cominciava giá a sospettare che quella carcere dovesse essere la mia tomba, quando la notte del decimoquimo giorno, ad ora alquanto avanzata, dopo essermi messa a giacere, udii aprire pian piano la porta e vidi entrare una donna con una lanterna accesa, la quale a mezza voce mi disse subito: — Non temete, figliuola mia, io sono la vostra nutrice. — Mi gettò quindi le braccia al collo, e, dopo avermi bagnata di lagrime, mi esortò a vestirmi immediatamente e seguirla. Sapeva che quella donna m’amava quanto la propria vita: non esitai però un momento a ubbidire. M’aiutò con sollecitudine a vestirmi, e mi fece discendere dalle scale con lei. Alle porte della casa v’era un calesse da posta a quattro cavalli, un cocchiere ed un giovine vestito da viaggio, con un mantello e cappello da uomo nelle mani. M’abbracciò di nuovo la mia nutrice, e con parole interrotte da’ singulti: — Ecco — mi disse, — o figliuola e signora mia, l’unica strada che rimane allo scampo e libertá vostra.
Questi è mio figlio, che vi accompagnerá in loco di sicurezza e vi sará fedelissimo servidore, come lo sarei io medesima. Non posso or dirvi di piú: il tempo è prezioso. Saprete il rimanente da lui. — Mi mise allora il mantello addosso c il cappello in testa, e mi fece entrar nel calesse.
Andammo si rapidamente, clic giungemmo in poche ore a Garigliano. Arrivammo il di dopo a Roma, e il terzo a Fiorenza. Non ci fermammo né notte né giorno, se non a Padova, dove chiesi di riposare. Non volle però il mio compagno fermarsi piú di una notte. Aveva saputo da lui come riuscito era alla mia nutrice di deludere la vigilanza de’ custodi, che quella iniqua m’avea posti; come aveva stabilito di farmi perire in quella prigione, che in un antico castello della famiglia, tre miglia lontano da Napoli, era situata, se non condiscendeva a sposare quel mostro; e come a ciò era stata sedotta dalla promessa, ch’ei fecele, di pagarle una somma esorbitante in compenso d’un feudo, che a me appartenea di ragion materna Aveva udito inoltre la storia di quel disgustoso epulone, che, ad onta di tante grandezze, non aveva donna trovata che non gli rifiutasse la mano, e questo per le deformitá del corpo non solo, ma per quelle ancora dell’animo. Parevami dunque d’essermi salvata da un naufragio o da un terremoto, e ne ringraziava di core la provvidenza. Non sapevamo però né io né il mio compagno a qual partito appigliarci, per assicurare la mia libertá e la mia pace. M’aveva ei giá data una borsa d’oro e una cassetta di gemme, che di mia madre state erano, e che l’infelice mio padre aveva, non so come, salvate e date alla mia nutrice per me, acconsentendo non solo, ma pregandola di fare quello che fece per liberarmi. Ma queste ricchezze erano alte piú tosto a discoprire ch’io era, che a tenermi celata. Sembrandomi dunque il soggiorno di Padova pericoloso, risolvemmo d’andare a Venezia, dove l’uso della maschera era comunissimo, onde m’era piú facile nascondermi. Mi procurai per maggior precauzione un abito da uomo, e presi nella solita barca di Padova il mio passaggio. Non v’eran che tre passeggeri quel giorno. Due donne di povera apparenza e un giovane signore, che, da’ titoli che gli davano i barcaiuoli, m’accorsi essere nobile. Le sue maniere erano gentili, la sua persona piacevole. Procurava parere ammalata, parlava pochissimo e mi teneva coperta la faccia, in modo da non poter essere ben veduta. Ad onta di questo, non eravamo stati due ore insieme, che sospettò del mio sesso e francamente mel disse. Il rossore della mia faccia e la confusione, che non seppi nascondere, accrebber i suoi sospetti e lo resero piú ardito. Ebbe per altro la discrezione eli parlar piano e di non far intendere alle due donne, ch’ivi erano, i suoi discorsi. Non trovando via da schermirmi, lo pregai di tacere e gli promisi che, arrivando a Venezia, appagherei la sua curiositá, almeno in parte. Mi fece capire frattanto essere egli della nobilissima famiglia Mocenigo, una delle prime di Venezia. Arrivati a questa cittá, volle accompagnarmi ad una locanda, dove, sedotta da qualche buona apparenza e piú dal bisogno che aveva di persona d’autoritá nelle circostanze in cui era, gli narrai parte subito, e pochi di dopo il rimanente delle mie avventure. In otto giorni la nostra pratica era un misto d’amicizia e d’amore. Io non m era innamorata, ma incominciava ad esserlo. Aveva dello spirito, della vivacitá, ed era ben educato. Parendomi d’esser caduta in buone mani, non ebbi difficoltá di permettere al mio compagno di viaggio di tornar a Gaeta, dove aveva lasciata una moglie, che amava molto, e tre figli.
Presi allora in aifitto questa casuccia, e vissi ognora ritiratissima. Io non era tuttavia senza qualche inquietudine. Il Mocemgo se ne avvide, e mi disse un giorno: — Vedo che non siete tranquilla: lo sareste, creilo, se diventaste mia sposa; il che son disposto di fare quando a voi piaccia. — Pigli era assoluto signore di se medesimo. Chiesi qualche tempo a rispondere, benché non mi dispiacesse la proposizione. Una sera venne a trovarmi ad un’ora insolita, e mi domandò cento zecchini, per restituirmeli il di seguente. Non esitai a darglieli, e non mi passò allora alcun sospetto pel capo. Non cessò egli di venire a visitarmi, ma non mi parlò piú per alcuni giorni di quel danaro. Mandò una mattina un suo servo con un biglietto, e me ne domandò altri cento. Io aveva ancora molte doppie di Spagna, oitre la cassetta di gemme, che di non picciol valore credo essere; onde, non incomodandomi quella somma, gli mandai gli altri cento.
Cominciai però a sospettare che il povero cavalierino non avesse, come quasi tutti i signori veneziani, il vizio del gioco. Gli scopersi con franchezza il mio dubbio e mi confessò il suo peccato. Compresi ancora da’ detti suoi che aveva fatto in quel carnovale delle perdite immense, alle quali non era facile metter riparo. Vero è clic promisemi di abbandonare il gioco; ma io m’accorsi prestissimo che le sue promesse erano simili a quelle di tutti i giocatori viziosi. Le sue visite non erano piú né si spesse né si lunghe come a’ primi tempi. Era malinconico e pensieroso, ed aveva ognor delle scuse pronte per esimersi dall’uscir meco, quantunque sapesse ch’io non usciva in alcuna occasione senza di lui. A questo suo procedere devo il piacere della vostra conoscenza. Ei doveva trovarsi al caffè medesimo, al quale voi eravate la sera del nostro primo incontro. Essendo voi di figura e d’abito assai a lui somigliante, ed oltre a ciò mascherato, equivocò il mio gondoliere, e condusse voi in sua vece nella mia gondola.
Fu trattenuto il Mocenigo dal gioco, ed io, che sapeva le case che frequentava, andai a trovarlo. Ho giudicato allora prudente cosa lo sciogliere ogni relazione con lui. Foss’cgli innamorato d’un’f.Itra donna, o fosse talmente distratto dal gioco, che luogo in lui piú non rimanesse per un’altra passione, pareva che il suo amore si fosse non solo raffreddato, ma quasi estinto.
S’adattò facilmente alla mia risoluzione, e andò alla campagna per qualche tempo. Ho mandato allora per voi; ma, udendo ch’eravatc partito da Venezia, aveva quasi deposto la lusinga di rivedervi. Siete con me, udiste i miei casi e lo stato mio. Se il vostro cuore è libero (il che nell’etá vostra non parmi facile), se vi dá l’animo di lasciare la vostra patria, se vere sono le belle cose che mi avete dette la prima volta che mi vedeste, io vi fo dono di me e di tutto quel che possedo ; il che credo che sia sufficientissimo a farci vivere decorosamente in qualunque parte del mondo. Basta trovar un paese, che ponga in salvo la mia libertá; giacché la mia pace mi pare che sará abbastanza assicurata, se potrò esser con voi. — Per quanto bella sembrasse un’olTerta si generosa, non ebbi coraggio d’accettarla senza riflettere prima alcun tempo. Le domanda: tre soli giorni a risolvere; il che non senza noia e mal animo parve accordarmi. Pareva che questa misera avesse un interno presentimento della sorte infelice, che le pendeva sul capo. Rimasi due ore con lei. Ritornato a casa, ebbi una piccola battaglia di gelosia colla mia damina. Passai il resto della notte in riflessi e meditazioni. Era difficile dire quale di queste due donne fosse la piú bella, benché diverse Luna dall’altra quanto è possibile immaginare. La veneta era piccola, delicata, gentile, candida come la neve, con due occhi languidamente dolci e due vezzose pozzette che ornavano le sue guance, a fresche rose somigliantissime. Tutte l’altre sue parti erano regolari. Non aveva avuta molta cultura quanto allo spirito, ma era dotata d’una tal grazia nelle maniere e di tale vivacitá ne’ discorsi, che non solo s’insinuava negli animi, ma incantava chiunque. L’a tra era grandicella anzi che no e d’un’aria maestosa e venerabile. Fra alquanto brunetta, con occhi e capelli assai neri, e, benché le sue forme non fossero regolarissime, pur si accordavano si bene insieme, che formavan un tutto maravigliosamente bello c piacevole. Queste bellezze erano animate dalle grazie d’uno spirito coltivato, da una borsa di doppie e da una cassetta di diamanti, che non ebbe difficoltá di mostrarmi. Io era dunque in una guerra fierissima c on me medesimo. Sentiva che il mio core era piú alla prima inclinato, come quella che piú lungamente dell’altra io aveva amato; ma la ragione si dichiarava per l’altra, che pur soinmarhente piacevami e con cui giudicava dover esser piú felice.
Mentre stava sospeso ed irresoluto sulla mia scelta, un trasporto geloso della veneziana mi fece risolver per l’altra. Erano passati non tre, ma otto giorni dal mio ritorno a quella capitale. Io non mancava di andare piú volte al giorno a far delle visite alla Matilda. Rimasi una sera alquanto piú tardi del solito con lei. Mi disse al partire: — Caro Da Ponte, bisogna finirla: o domani partiremo da Venezia, o me ne andrò in un convento. — Le giurai di contentarla il di dopo, di dirle cioè quel che pensava di fare. A casa trovai il diavolo scatenato. Mi venne incontro l’Angela con uno stiletto nelle mani, e non so veramente se voleva ferire me o se medesima. Mi venne fatto di disarmarla; ma quell’atto mi fece orrore. Ruppi quell’arme e mi ritirai nella mia stanza. Vi venne anch’ella un minuto dopo, e si fece la pace. Andò quindi a dormire; ma io uscii di casa novellamente e andai all’albergo della napolitana, risoluto di partire con lei e di proporle Ginevra o Londra per suo e mio rifugio. Non erano ancora suonate le due dopo la mezzanotte.
Picchiai piú volte con le mani e co’ piedi la porta, prima che si venisse ad aprirmi. Discese alfine una vecchia, che abitava con lei in carattere di cameriera, e mi narrò lagrimando come, pochissimo tempo dopo esser io partito, il ministro degli inquisitori di Stato, accompagnato da alcuni sbirri, aveva cavata dal letto quell’infelice, presi tuttti i bauli e condottala in una gondola. il mio dolore fu eccessivo. Il mistero, onde quel tribunale diabolico copriva sempre le barbare e dispotiche sue sentenze, e il terrore, che inspiravano generalmente in Venezia i suoi tremendi giudizi, mi facevano non sol disperare di poter in alcuna maniera soccorrerla, ma di scoprire giammai ciò che di lei fosse adivenuto. Mi pareva in qualche maniera d’essere stato io la cagione del suo infortunio colla mia ingiusta irresolutezza; e questo raddoppiava il mio rincrescimento e il rimorso mio. Convenne però assoggettarsi al diritto del piú forte e contentarsi di spargere qualche lagrima sul destino crudele di quella bellissima giovine, di cui per dodici anni continui mi fu impossibile udir novella. Fu il cavalier Foscarini, ambasciatore della repubblica presso l’imperatore di Germania, che, udendo da me questa storiella, mi narrò, dopo molte reciproche esclamazioni, come la Matilda era stata, per ordine della sua persecutrice, chiusa nel convento delle Convertite; com’egli avevaia intimamente conosciuta, e come alfine era a lui riuscito, dopo sei anni di prigionia, di farla uscire da quel convento e di rimandarla al padre, cui la morte della moglie aveva al governo domestico richiamato.
Partita questa rivale, tornai subito al primo laccio, il quale fu per due anni interi piú forte e piú pericoloso che mai. Era la donna, ch’amava, agitata continuamente dalla passione ilei gioco. Il fratello di questa, giovinastro insolente, prepotente, caparbio, era, per grandissima nostra sciagura, ancor piú vizioso di lei. Io era obbligato di accarezzarlo. Lo secondava ora per complimento ed ora per noia. A poco a poco diventai anch’io giocatore. Non essendo ricchi né essi né io, perdemmo in breve tutto il danaro. Cominciammo allora a fare de’ debiti, a vendere, ad impegnare, e vuotammo prestissimo la guardaroba. Era aperta in que’ tempi la famosa casa da gioco in Venezia, conosciuta comunemente sotto il nome di «pubblico Ridotto».
dove i nobili ricchi avevano il privilegio esclusivo di tener gioco di resto col proprio danaro, e i poveri, per certo prezzo, con quello degli altri, e per lo piú dei doviziosi discendenti di Abramo. Noi vi andavamo tutte le sere, e tutte le sere ce ne tornavamo a casa, maledicendo il gioco ed il suo inventore. Non aprivasi questa casa che il carnovale. Era giunto l’ultimo giorno, e non avevamo danaro né mezzi onde procurarne. Spinti dalla viziosa abitudine, e piú da quella fallace speranza che sempre anima i giocatori, impegnammo o vendemmo alcuni vestiti che ci rimanevano, e raccapezzammo dieci zecchini. Andammo al Ridotto e perdemmo in un batter d’occhio anche quelli. Si può pensare come partimmo da quelle camere. C’ incamminammo taciturnamente al loco dove eravamo soliti ogni giorno di prender gondola. Il condottiero di quella mi conosceva. Io !’avevo trattato piú volte generosamente. Vedendoci malinconici e muti, s’accorse del latto e domandommi se mi occorreva danaro. Credendo che scherzasse, gli risposi, scherzando anch’io, che mi occorrevano cinquanta zecchini. Guardommi sorridendo, e, senza soggiungere una parola, vogò per breve intervallo. cantando, e fermossi al tragitto delle prigioni. Discese ailor dalla gondola, e, in pochi minuti tornandovi, mi pose in mano cinquanta zecchini, mormorando tra’ denti queste parole: — Attili, zioghé e impari a cognoscer i barcaroli veneziani. — Non fu picciola la mia sorpresa. Alla vista di quel denaro la tentazion fu si grande, che non mi lasciò tempo di far certe riflessioni, che per delicatezza di animo fatte avrei in altri tempi. Tornammo sul fatto al Ridotto. Entrando nella prima camera, pigliai in mano una carta da gioco, e, avvicinandomi al banco d’un tagliatore, posi su quella la metti del danaro che io possedeva, e 10 raddoppiai. Passai da quello a molti altri banchi, e giocai per piú di mezza ora con si costante buona fortuna/che mi trovai in breve carico d’oro. Trassi allora alle scale la mia compagna, discesi velocemente, corsi alla gondola, e, dato al gondoliere il suo danaro ed un bel regalo, gli ordinai di condurci a casa.
Aveva io appena vuotate le tasche e messo insieme tutto quell’oro sopra una tavola, che udimmo picchiar la porta. Era 11 fratello di madama. Vid’egli appena questo danaro, che, mettendo un urlo di gioia, gettovvi sopra i barnabotici artigli b). (i) I nobili poveri abitavano generalmente nella contrada di San Barnaba: detti eran da ciò «barnaboti». e se ne impadroní, intascandone senza indugio una parte, e l’altra in due fazzoletti accogliendo. Passò frattanto tra noi il seguente dialoghetto:
— Avete guadagnato questo danaro al gioco?
— Eccellenza si.
— L’avete contato?
— Eccellenza no.
— Avreste gusto di raddoppiarlo?
— Eccellenza si.
— Andrò tener banco al Ridotto, e non dubitate dell’esito.
— Eccellenza no. — Conte questo «no» non pareva chiaro, soggiunse, digrignando i denti, ch’erano di smisurata grandezza: — «Eccellenza si»! «Eccellenza no»! Volete o non volete?
— Eccellenza si! Eccellenza si! — Gite avrebbe giovato il mio no?
— Ebbene, prendete con voi mia sorella, e seguitatemi.
— Eccellenza si.
— Non vi fate aspettare.
— Eccellenza no. — Corse, ciò detto, giú dalle scale, ed io gli andai dietro colla sorella, grattandomi il capo e bestemmiando «Sua Eccellenza si», il libro d’oro e tutta la contrada di San Barnaba. Giunto al Ridotto, espose tutto il danaro sopra una delle tavole da gioco, e cominciò a mescolare un mazzo di carte. Vi accorsero subito molti giocatori, tra’ quali non pochi di que’ medesimi, che avevano poco prima perduto meco. Sapendosi la mia connessione con cotestui, si giudicò della cosa sul fatto. Ciò accrebbe in tutti la bramosia di riguadagnare quell’oro.
Era giá passata la mezzanotte, e tutti gli altri banchieri avevano deposte le carte. Si giocò dunque disperatamente. Ne’ due primi tagli ebbe colui favorevolissima la fortuna. Una montagnola d’oro aveva davanti a sé. Io gli sedeva da un lato e la sorella dall’altro. Non ardivamo pai lare, ma gli facevamo de’ cenni cogli occhi, colle mani, co’ piedi, perché cessasse di giocare. Tutto fu vano. Cominciò un terzo taglio, ma noi fini: verso la metri di quello tutto quell’oro era ito. Depose allora con maravigliosa freddezza le carte, mi guardò, sogghignò, scosse la testa, e, pigliando la sorella per mano, mi diede la buona notte e parti Non occorre dire com’io rimanessi. Mi ritirai nella camera de’ sospiri (cosi detta era una certa stanza, dove solevano passeggiare gli amanti o i giocatori sventurati, per conversare, sospirare o dormire). Dopo qualche tempo mi addormentai.
Non mi svegliai che a giorno chiaro, quando tutta la compagnia era partita, eccettuati alcuni pochi, che come me s’erano addormentati. Un uom mascherato, che mi sedeva vicino, vedendomi svegliato, mi chiese due soldi. Dopo avermi frugolate invano le tasche, misi la mano nel borsellino laterale dell’abito; e qual fu la sorpresa e la gioia mia nel trovarvi alcuni zecchini, che, stretti e coperti essendo da un fazzoletto, non m’accorsi d’averveli, e non li trassi con gli altri, che dalle tasche cavai, quando arrivò a casa il mio Eccellenza carnefice. Durai fatica a celare la mia lieta confusione. Non avendo perciò altra moneta, offersi al mio vicino un di que’ zecchini. Lo rifiutò sulle prime; ma poi, fissamente guardandomi: — Lo accetto — diss’egli, — ma con patto che mi accordiate di restituirvelo in casa mia. — Prese, cosi dicendo, una carta da gioco e sul rovescio vi scrisse la strada e il numero della sua abitazione, assicurandomi, nell’atto di rimettermi quella carta, che non mi spiacerebbe poi d’avergli fatto una visita. Ma io, che aveva allora la mente piena del danaro salvato, e piú dell’amica mia, posi in tasca la carta senza curarmene c corsi a casa di volo. Stava essa alla finestra, aspettandomi. Mi fece cenno di non picchiare ; discese sul fatto, apri l’uscio, mi s’afTacciò, e, senza lasciarmi dire parola: — Andate — disse — al caffè vicino, e non venite se non mando per voi. — Serrò l’uscio e tornò alla finestra.
Io non sapeva che pensare. Andai al caffè: dopo aver due ore aspettato, enirò il servo, mi fece motto di uscire e di seguirlo. Mi condusse a un viottolo poco frequentato, in fondo del quale aspettavami la mia donna. Entrammo subito in una gondola, dove ella proruppe in singhiozzi e dirotte lagrime. Non poteva immaginarne le cause. — Se è pel danaro perduto che voi piangete, consolatevi — le diss’io. — No no — soggiunse ella, interrompendomi: — piango pel mio crudel destino, piango per l’iniquitá del fratello mio. Egli non vuole assolutamente che 10 piú vi vegga, e molto meno che piú alloggiate con noi. 11 perfido, che crede di non poter piú succhiare di voi cosa alcuna, avendovi giá tutto rapito, disegnò d’introdurre in casa un ricco birbante e. ciò ch’è peggio, vostro nemico implacabile. — Com’era persuaso ch’ella con sincero animo quelle lagrime fuori per gli occhi spargesse, cosi, volendo sollecitamente trarla di affanno, le feci cadere un pugno di sonanti zecchini nel grembo. Balenò subito un sorrisetto sulla sua faccia, e crebbe la gioia a proporzione del danaro mostratole. Le narrai allora la storia de’due soldi; contammo, col giubilo che ognun può credere, cento e sette zecchini ; e, dopo molte scambievoli feste, studiammo come si doveva profittevolmente usarne col fratello. Questo metallo solo aveva la virtú d’imbrigliare quella gran bestia. Ci venne quindi pensato di porlo in sospetto ch’io fossi capace di far dell’oro ; e ciò esegui la sorella mirabilmente. Mancò però che questa burletta non mi costasse, come vedremo in appresso, la vita. Aveva giá Sua Eccellenza dato ordine al servo di vendere il mio letto, ch’era l’unica masserizia lasciatami fino allora dalla sua sfrenata ingordigia, e di dare a lui 11 danaro che ne ricaverebbe. Il servo, che amava piú me che lui, l’aveva invece impegnato e recatigli sei zecchini. Con questi era ito a giocare. Essendomi noto il loco ch’ei frequentava, mi vi recai anch’io sollecitamente, e mi misi a giocare con lui vicino. Non mi salutò quando entrai. Posi sul desco alcuni zecchini, e finsi non essermi accorto ch’ei fosse presente. La vista di quell’oro lo solleticò. Salutommi subito con patetica tenerezza, mi strinse la mano e sorrise. Pochi minuti dopo domandommi pian piano dieci zecchini : io invece glie ne diedi venti, co’ quali ebbe la fortuna di guadagnarne cinquanta. Era fuori di sé dal piacere. Voleva restituirmi quelli che prestato gli aveva; ma io lo stimolai a ritenerli, come danaro fortunato. Ci accompagnammo, finito il gioco, e prendemmo la via che conduceva alla sua abitazione. Mi fece mille scuse pel danaro perduto la notte e mille questioni per quello che miracolosamente tn’cra rimasto. L’assicurai che niente del perduto importavami, e che, se voleva esser discreto e non domandarmi mai quello che dire non gli poteva, avrei sempre avuto qualche zecchino da dargli. Mi abbracciò con cordialitá, mi protestò che non avrebbe mai osato chiedermi alcun segreto, e, pregandomi di rimanere pochi momenti nella bottega di certo libraio, dove era solito andare, corse a casa, narrò molte belle cose alla sorella, ordinò di ricuperare il letto, e tornò per me immantinente. Fu quel danaro invero fortunatissimo. Giocò varie settimane, sempre vincendo; ma quello, che guadagnava giocando, spendeva poi a sfogo di cento altri vizi, di cui Sua Eccellenza era un vero emporio. Per qualche tempo però non ebbi né brighe né dispute con costui. Tutto pace era nella famiglia, e, quel eh’è piú singolare, si io che l’amica mia giocavamo con indicibile fortuna; il che aumentava alcun poco, o almeno non diminuiva, il nostro piccolo erario.
Ma non voglio qui ommettere una storiella, che, per quanto straordinaria possa parere, non è però meno vera di tutti gli altri fatti descritti in queste Memorie. La prima domenica di quadragesima, nel trarre alcune carte da’ miei vestiti, mi venne alle mani quella carta da gioco che m’aveva dato al Ridotto l’uom mascherato. Come aveva allora tranquillo lo spirito, mi nacque curiositá di andare da lui e di vedere la fine di quella storia. Arrivato all’indicata abitazione, non mi parve che l’esteriore di quella desse speranza di alcuna importante avventura. Picchiai varie volte prima che fossemi aperto: si tirò alfine una corda, la porta si spalancò, ed io andai nel secondo piano, dove, picchiando un’altra porta, mi fu aperto al medesimo modo; e, al momento in cui entrai nella stanza, udii una voce, che mi pregò di sedere e di aspettar pochi istanti. Qualche minuto dopo, usci da un gabinetto laterale un vecchierello, che mi pareva di conoscere. Era questi vestito con decente semplicitá, aveva uno aspetto venerabile ma dolcissimo, ed un tuono di voce che propriamente empieva il core di un sentimento piacevole. Salutommi cortesemente, mi prese per la mano e fecemi passare da quella camera, in cui non v’erano che due sedie e una vecchia tavola, a un picciolo gabinetto, ornato di libri da quattro lati e adobbato con molta leggiadria. Mi fece sedere sopra un sofá, dove pur egli sedette; e, per la mano stretto tenendomi, parlommi cosi: — Vi ringrazio, cortese giovine, del favore che, visitandomi, oggi mi fate, e desidero, se è possibile, che la visita vostra torni ad entrambi gradevole. — Voleva rispondere al suo complimento, ma egli me lo impedí, pregandomi d’ascoltarlo in silenzio e ricominciando in tal modo:
— Io sono assai vecchio, come bene vedete. Ho giá compiuto pochi di fa l’anno settantottesimo della mia vita. Seguendo l’ordine naturale delle cose, non mi rimane piú lungo tempo da vivere; ma, prima di lasciar questo mondo, vorrei pur dare l’ultima mano ad un’opera, in cui da molti anni in qua tutte le mie cure e sollecitudini sono ristrette. Su voi ho gittati gli occhi pel compimento di tal lavoro.
— Su me?
— Si, su voi: ma non m’interrompete. Il mio stato, se si eccettui il peso degli anni e la ansietá del mio core in si fatto suo desiderio, è, quanto può esserlo, felice. Non vi formate un’idea di quello dai due soldi al Ridotto chiestivi e dall’apparenza di questa casa. Io son ricco, son sano di mente e di corpo, e non ho né debili né rimorsi. E, perché voglio che di tutto siate informato, prima che di niente decidiate, vi dirò quel ch’era in altri tempi e quel ch’ora sono.
Livorno è la patria mia. Mio padre, ch’era un ricco negoziante di quella cittá, mori e lasciommi all’etá di ventidue anni unico erede della considerabile facoltá di cinquantamila scudi. Io aveva avuto fin allora da lui, che prudente e benevolo padre era, un’ottima educazione. Ho fatto i miei studi nel collegio piú riputato di Firenze. Pensava di darmi per mio diporto alla medicina; ma la necessitá di proseguire il tralfico di mio padre, almeno per qualche tempo, mi trasportò malgrado mio dai collegi alla lattoria. M’accorsi in quattro anni d’esser entrato in un mare pericolosissimo. Mi lasciai condurre dalla facilitá d’un core buono e compassionevole a prestare, dare a credenza, donare a tutti quelli che abusar vollero della mia inesperienza; ed alla fine del quinto anno la facoltá lasciatami da mio padre bastò appena a pagare i debiti contratti da me per una imprudente condotta. Pagai tutti quanti; ma concepii fin d’allora una insuperabile avversione per ogni maniera di negozio e, se non affatto per gli uomini, almeno pel commercio di quelli, da nessuno ile’ quali trovai ne’ bisogni miei il conforto della pietá, non clie quello della gratitudine 0>. Abbandonai allora secretamente Livorno: andai a Bologna, e due mesi dopo a Venezia. Pochi giorni dopo l’arrivo mio, fui assalito da una lenta febbre, che, divorandomi a poco a poco, mi ridusse infine agli estremi. Senza roba, senza amici, senza danaro, mi vidi costretto d’andar domandando limosina per sostener una vita, che non credeva giá che potesse durar lungamente. Non lui disgraziato in questo mesticro. Per tre o quattro mesi continui io tornava a casa ogni sera con diciotto o venti lire in tasca, il che era due e tre volte piú di quello che mi occorreva per vivere. Ebbi, ad onta di questo, diverse volte in pensiero di lasciare questo genere di vita, che non mi pareva convenire ad animo ingenuo; ma il timor di ricadere in novelli mali pei difetti medesimi del mio core, e piú l’incertezza dello stato a cui dovessi appigliarmi, mi vi tenne per quarantasette anni continui, nel lungo corso de’ quali ricuperai non solo la mia salute, ma dalla sobrietá, dalle vigilie e dal moto fui fatto fortissimo. Arrivato all’etá di cinquanta anni, crebber talmente l’elemosine de’ miei benclattoii, clic mi trovai padione di diecimila ducati, senza contarne altri ottomila, che spesi nel mio frugale mantenimento, in una non dispregiabile collezione di libri ed in limosine da me fatte, per mane del direttore della mia coscienza, a molli che avean piú bisogno di me di soccorso. (1) Ecco il mio quadro! Fui allora tentato di tornar a Livorno, dove chiamavami un certo affetto alle ceneri de’miei genitori; ma non potei risolvermi di lasciar Venezia, dove tanta caritá verso i poveri trovato avea, ed ancor men certa giovine, di cui vi farò parola tra poco. Dovete sapere che, dopo poco tempo il mio arrivo in questa cittá, presi un piccolo alloggio in casa d’una vedova, con cui abitai per lo spazio di ventidue anni. Non aveva costei die una fanciullctta di pochi mesi, quand’io la conobbi. Era onesta in povertá di stato, e questo bastava per far che il mio core si dichiarasse per lei. Ma la bambina, che per alcuni anni io trattava con domestichezza di padre, mi crescea sotto gli occhi impercettibilmente, e, giunta ai quattordici, era donna non solo, ma era di piú un prodigio di bellezza e di spirito. Le dava la madre la solita donnesca educazione, ed io l’esercitava per mio diletto nella letteratura. Aveva dodici anni, quando incominciai. Non è possibile dire quali furono i suoi progressi. All’etá di diciassette anni scriveva con qualche grazia si in prosa che in verso, lo non era di sasso. Me ne innamorai si focosamente, che non poteva piú vivere senza lei. V’erano circa trentacinque anni di differenza tra noi; ma questo non bastò a moderare, non che ad estinguere la mia passione. Una sera, essendo colla madre soletto, le narrai per intero la storia mia, ch’ella non sapeva che in parte, e le domandai se consentiva di darmi in isposa la figlia. — A Dio non piaccia — mi rispose ella — eh’ io neghi a voi cosa alcuna, che in mio poter sia di concedere. Possiate, o signore, esser colla Lisetta felice, coni’ella sicuramente sará felice con voi. — Queste poche parole tutto dicevano. Chiamò sul fatto la giovine, che, saggia essendo e costumatissima, quello disse serenamente di voler fare, che all’amorosa sua madre fosse piaciuto. In pochi di la sposai. Presi allora in affitto questa casuccia, dove conobbi per sedici anni tutta quella felicitá, di cui uom, vivendo, è capace. Una lunga e penosa malattia mi tolse dopo questi la moglie, la quale non mi lasciò per conforto della mia vecchiezza che una figliuola. Questa è l’opera da me incominciata: vorrei, prima di morire, terminarla, assicurando, per quanto posso. la sua felicitá. Ella se ’1 merita. È buona, non è ignorante, ed agli occhi miei pare bella. Ma l’affetto paterno mi può ingannare. Vedetela, giudicatene: vi dirò poi il rimanente.— Usci, ciò detto, da quella camera, e vi tornò quasi subito, conducendo seco la figlia, che veramente aveva l’aria di un angelo. Dopo alcune tacite riverenze ed inchini, sedemmo.
— Ed ecco, Annetta — ripigliò il vecchio, — la persona di cui ti parlai, e ch’io t’offro in isposo, se tu gli piaci. — La sorpresa di questa avventura mi aveva quasi del tutto tolta la facoltá di parlare. Vedendo eli’io non rispondeva nulla: — Venite meco
— soggiunse egli : — voglio incoraggire la vostra timida lingua. — Mi prese, cosi dicendo, per mano, e mi condusse in una terza camera ; e, aprendo un gran cassone di ferro : — Ora mostrerovvi — mi disse — quello che finora «nec oculus vidit, nec manus tetigit».— Mi balenarono allora agli occhi, in diverse scatole aperte, varie monete d’oro di vario conio, in mezzo alle quali v’era la piú grande, ed in quella non v’erano che zecchini.
— Questi sono — mi disse allora — cinquemila zecchini, ch’io vi darò il giorno in cui sposerete mia figlia. Alla mia morte poi, o prima, se occorrerá, ne avrete altri quattromila, eh’è tutto quel ch’io possedo; ma vo’che mi promettiate di ricordarvi sempre dei poveri. Io vi credo capace di tanto. Son circa due anni che ho fissato gli occhi su voi. Il vostro personale mi piacque appena vi vidi. Crebbe la mia benevolenza e la mia stima per voi ai replicati atti di limosina che praticaste a me stesso, ai piede del ponte di San Gregorio, dove io sto sedendo da qualche anno in qua e dove voi passate ogni giorno. Questa limosina, che voi a me faceste, mi parve cosa maravigliosa, sapendo lo stato in cui vi trovate; e mi fece credere che il cor vostro fatto sia per la beneficenza, che a me pare il complesso delle virtú e l’anima della vera religione. — Il mio stordimento era grande, ma crebbe questo moltissimo, quando udii che sapeva il mio nome, i miei studi, le mie vicende, e che perfino le mie avventure colla donna ch’amava e con suo fratello gli erano note. Si può credere facilmente ch’era imbarazzato a rispondere. Oltre l’amorosa passione, da cui era allora signoreggiato, che d’accettar m’impediva un’offerta che per ogni conto doveva sembrar vantaggiosa, v’era un altro ostacolo grande, che non voleva a lui palesare: meritava però il generoso suo tratto ch’io fossi sincero, a risico ancora di dispiacergli. — Io sento, signore, nel piú vivo dell’anima
— soggiunsi allora — il peso del bene che voi m’offrite; ma a Dio non piace ch’io possa esserne il possessore. Giacché d’altro però pagare non posso la vostra bontá, pagherolla almeno d’una confessione sincera, che non può offendervi, e vi dirò schiettamente non esser io in caso di maritarmi. — Rimase mutolo per pochi istanti il buon vecchio, né altro soggiunse che queste parole: — Mio caro figlio, me ne dispiace per voi. — Restai con lui e con sua figlia tutto il rimanente del giorno: mi caricarono entrambi di cortesie e di favori, palesando ambidue ne’ detti e nel tratto un’anima degna di onorare piuttosto «regum turres» che «pauperum tabernas». Ma io era tanto innamorato dell’altra donna, che un nulla mi parve il sacrificarle questa fortuna. Non andò guari che vidi il gran (allo, che aveva fatto nel rifiutare l’offerta fattami. Me ne pentii, ma troppo tardi. Sposò, pochi mesi dopo, quell’amabile giovinetta un giovine veneziano, che andò a stabilirsi col padre a Vienna, e che mi fu poscia familiarissimo nel tempo del mio soggiorno in quella metropoli. Tornai a casa la sera un po’ tardi. Trovai l’amica mia agitata da mille furie. Negli accessi delle sue gelosie ella era brutale. Appena m’accostai alla sua camera, che lanciommi incontra, senza parlare, un fiaschetto d’inchiostro. V’opposi con moto naturale la mano, onde difender la faccia; ma il vetro, che in quella entrò, ferimmi in tal guisa, che per piú di un mese non potei farne alcun uso. Non contenta di questo, benché, alla vista di molto sangue che uscinne, paresse e placata e dolente, venne la notte nella mia camera, mentre dormiva, e tagliommi d’un colpo tutti i capelli che ondeggian sul collo; il che si destramente ella fece, che non m’accorsi che la mattina seguente che l’esempio di Sansone avea in me la mia Dalila rinnovellato. Suo disegno era di obbligarmi in tal modo a non uscire di casa, nel che, Vedi se Amor m’avea tolto il cervello! fui tanto cieco d’accontentarla. Questa compiacenza però mi costò assai cara. Una nobilissima clama veneta scelto m’aveva ad institutore di due giovanetti figli. Ella mi pagava con generositá e mi trattava con amicizia. Lo stato, in cui era, m’impedi qualche tempo d’andar da lei: il chedi mal animo ella soffrendo, venne a trovarmi personalmente, e, come accorta era e perspicacissima, vide la gente con cui io viveva, e un giorno dopo mi congedò. La perdita di questo impiego fummi, e per l’onore e per l’interesse, fatale. La gelosia di quella donna era divenuta eccessiva. Io non usciva di casa, se non con lei, in tempo di notte. Andavamo ai teatri, agli spettacoli, a cene di societá, spendendo mollissimo e non guadagnando piú nulla. In questa guisa diminuivansi le nostre non grandi ricchezze, e la fortuna del gioco ci aveva voltate le spalle. Anche il di lei fratello ricominciava a mungere la mia borsa e ad intorbidar la mia pace. Una sera, avend’egli perduto tutto il danaro, entrò minacciante nella mia stanza e mi domandò armata manu cento zecchini.
Assicuratolo ch’io non possedeva tal somma: — Fatela — mi rispose: — io so bene, messer Lorenzo, che voi sapete far l’oro; onde pretendo, e credo poter pretendere, che voi m’insegniate il secreto. — Per ammansare quell’orso, fui costretto dargli tutto il danaro che aveva e promettergli che in quattro o sei giorni gli avrei dato il rimanente de’ cento zecchini. Cominciai però allora ad aprire gli occhi e a vedere il pericolo, in cui era, di ruinar per sempre la riputazione della mia vita civile. Il saggio e amoroso fratello mio, con cui non so s’era piu legato co’vincoli dell’amicizia o con quelli della natura, tentò spesso scuotermi dal mio letargo; ma io era troppo vivamente combattuto dalle due forti passioni del gioco e deH’amore, e, quantunque vedessi il male che sovrastavamo pur non aveva lorza di liberarmene.
Un bizzarro accidente operò alla fine in me quel che né i fraterni consigli né mille danni o pericoli in tre anni intieri operarono. Un prete friulano, che stato era mio condiscepolo nel seminario di Portogruaro e che frequentava famigliarmente la casa mia, venne una sera a trovarmi. Egli solea ciò fare tutte le volte che avea bisogno d’una cena o d’un pranzo; il che accadeva spessissimo. Passammo qualche ora insieme in discorsi piacevoli. Finita la cena, parti. Qualche momento dopo, volendo io uscire di casa ed essendo fredda e piovosa la notte, domandai al servo il mantello. L’aveva posto io medesimo sopra una sedia, ch’era situata comunemente presso la scala. Non era stato da me quel giorno altri che costui. Il mantello era sparito, ma io non poteva credere ch’ei me lo avesse involato. Arrivò in questa il fratello mio, e si mise a cercare meco per tutti gli angoli della casa. Il servo, ch’era piú scaltro di me e che non amava molto quel sacerdote: — Che si — mi disse ridendo — ch’io trovo il vostro mantello! — Usci di casa, cosi dicendo, e, tornandovi in poco tempo: — Il mantello vostro
— gridò — è in loco molto sicuro. Il nostro signor abate l’impegnò per ottanta lire dal magazziniere vicino b). — Questa novella mi sbalordí. Giurato avrei di sognare. Usci col servo il fratello mio, e, pagando la somma prestata, fece in maniera di riaverlo. Me lo portò il buon giovine lagrimando, e non mi disse che questo: — Vedete, caro Lorenzo, a che riducono le passioni! — Alcuni affari non gli permisero di rimanere meco piú lungamente. Rimasto solo, mi misi a pensare seriamente alla cosa. — Come — dissi a me stesso — non bastano i principi della religione, della educazione, dell’onore a frenar un uomo guidato dalle passioni, e a trattenerlo, se non dal libertinaggio, dagli atti almeno che la sociale infamia costituiscono? Un uomo, ch’entra nella mia casa sotto il manto della ospitalitá e della amicizia, si lascia accecare a segno da rubare il mantello al compagno, al benefattore, all’amico? E che lo conduce a questo? Il gioco e l’amore! — Appena m’usciron di bocca queste due parole, che tremai dal capo alle piante per me medesimo, e pigliai, detto fatto, la lodevole risoluzione di (i) V’erano in Venezia alcune osterie, o piuttosto taverne, dette «magazzini», dove chi portava in forma di pegno alcuna cosa di valore, riceveva una certa somma dal taverniere, due terzi in danaro ed il rimanente in vino; ed avea il diritto di ricuperarla, pagando in certo prefisso tempo la intera somma, senza altro interesse. abbandonare le carte, l’amante e sopra tutto quella pericolosissima capitale. Fresi, senza perder tempo, la penna e scrissi al fratello mio questi pochi versi:
Girolamo, non piú gioco, non piú amori, non piú Venezia.
Partirei sul fatto, se avessi danaro. Ma fo voto di non rimanervi piú altri tre giorni. Ringraziamo Dio ed il povero ladro. Ci vedremo domattina. Mandai la lettera pel servo; ma il fratello mio, invece di aspettare il domani, venne su! fatto a trovarmi, c, dopo un amorevole amplesso, cavò la borsa, mi diede tutto il danaro che possedeva, e quello bastò all’urgenza del momento e a pormi in istato di allontanarmi da quella cittá. Né fu questo il primo od il solo tratto di fraterna amorevolezza da quell’angelico giovane praticatami. La morte, che mel rapi all’immatura etá di trenta anni, mi privò d’un compagno, d’un consiglier, d’un amico, cose si rare generalmente e si difficili a ritrovarsi in un fratello. Aggiungeva a questo gran pregio un ingegno sublime, una erudizione vastissima ed un gusto squisito in ogni genere d’italiana letteratura; cose che, unite a una matura prudenza, a una maravigliosa modestia e ad una rara urbanitá di costumi, gli avevan acquistato l’amore e l’ammirazione de’ suoi. Io non piangerò mai abbastanza l’impareggiabile perdita.
Scusi il mio cortese lettore questa picciola digressione, e accompagni colla sua pietá questo tributo di lagrime e di riconoscenza, che devo si giustamente alla memoria onorata di un fratello si caro.
Torniamo al prete. Non era ancor sorta l’alba del giorno seguente, quando ricevei una lettera di questo tenore :
Amico, ieri sera ho commesso un’azione indegna. V’ho rubato il tabarro e l’ho impegnato per ottanta lire. Il peggio si è che son ito a giocare e ho perduto il danaro. Son disperato. Vi manderei il mio, ma è vecchio, corto, cattivo e mal atto alla stagione in cui siamo [era un tabarro logoro, di camelotto, che parca fatto a posta per far fuggire i ladri e gli uccelli]. Voi però avete bisogno del vostro mantello. Che cosa si deve fare? Disponete di me. Tutto vostro F.ri. Questa lettera mi fece ridere. Uscii sul tatto eli casa e andai da lui. Appena entrato nella sua stanza, vedendo egli eh’ io aveva indosso il mio Terraiuolo, rimase attonito; e, dandomi, senza aprir bocca, un’occhiata brusca, andò in istrada e si mise a fuggire da forsennato. Lo séguito Entra in un viottolo che mette in un canale, e, giunto alla sponda di quello, si pone in atto di balzare nell’acqua. Non n’aveva forse l’intenzione. A ogni modo, lo raggiungo e sono a tempo di trattenerlo. Invece di rimproverarlo, mi contento dirgli tranquillamente quello che a me detto aveva il fratello mio: — Vedete a che riducono le passioni! — Egli era tiranneggiato da molte. La mia moderazione gli penetrò il core profondamente. Non potè trattenere le lagrime, ed io non potei trattenermi di non pianger con lui. L’abbracciai, gli feci coraggio e gli promisi di non parlargli mai piú di mantelli, s’egli voleva promettermi di partir da Venezia. Mei promise, gli diedi qualche danaro, e parti. Non essendo privo d’ingegno e di spirito, si diede seriamente all’applicazione e allo studio, e dopo qualch’anno ottenne una cattedra di belle lettere nel seminario di C... a, indi la cura d’una pingue parrocchia, dove, per quanto mi fu poi detto, ei copre ogni anno aere proprio diversi ignudi, in commemorazion religiosa di quel fortunato mantello. L’esempio di quell’infelice giovine mi riconfermò nel salutare proposto di allontanarmi da quella pericolosissima capitale. Felice me, se avessi avuto coraggio di far lo stesso in tutte l’altre occasioni, in cui era agitata dalle grandi passioni l’anima mia, come, «si mens non laeva fnisset», avrei dovuto fare, se tenuto avessi sempre dinnanzi agli occhi gli effetti felici di questa virtuosa risoluzione! Non valsero né preghiere nè lagrime né minacce di quella donna per trattenermi vi. Andai a Ceneda. Non passarono dieci giorni, che la provvidenza coronò, per cosi dire, la mia vittoria. Trovandosi vacanti due cattedre di belle lettere nel seminario di Trevigi, nobilissima e coltissima cittá dello Stato veneto, furono queste offerte a me ed al fratello mio. Le accettammo entrambi con giubilo. Rinunziò egli al cospicuo impiego di segretario in una illustre famiglia veneta, pel solo piacere (Tessermi vicino. Non è facile dire qual fu la mia gioia, quando m’accorsi esser libero delle mie vergognose catene. Tali erano veramente le mie. Colei, che per tre anni continui mi tenne avvinto e ch’io anche in lontananza seguitava ad amare ferventemente, si diede in braccio, pochi di dopo la mia partenza, a novello amante, e non ebbe ribrezzo di por la mia vita a repentaglio in mano del mio iniquo rivale, per assicurarlo, con ciò, d’aver ella cessato d’amarmi.
Era solita questa donna scrivermi ogni di da Venezia, non ommettendo nelle sue lettere artifizio né frase, ch’atta credesse ad assicurarmi della sua tenerezza e costanza. Il primo di di gennaio mi scrisse queste poche parole:
Lorenzo, se amate l’onor mio e la mia vita, venite subito a Venezia. Verso le dieci di notte mi troverete da mia cugina. La vostra fedele amica.
Alla lettura di questa, corsi senza indugi alla posta, presi un calessino ed andai a Mestre. L’eccessivo freddo di quell’anno avea fatto gelar le lagune, e non fu che a prezzo di molto oro e dopo molta fatica che mi riusci di farmi aprir un passo da quattro giovani e robusti gondolieri, da Mestre a Venezia. Erano giá vicine le dodici della notte, quando approdai alla riva del palazzo, dove la mia Origille trovavasi. La porta di quello era chiusa. Nell’appressare al battitoio la mano, sento un’altra mano, che, con somma violenza tirandomi pei mantello, in cui io era imbacuccato, mi trascina quasi per forza qualche passo lontano, e odo ad un tempo stesso una fioca voce che dice: — Sior paro usiti, no atidé lá drento, per caritá! — Era il mio vecchio servo, che, da Venezia partendo, aveva io lasciato a quella rea femina, e che al lume delle pubbliche lanterne, o piuttosto al suon della voce, mi venne fatto di riconoscere. Non lasciandomi tempo di rispondergli, continuò a trascinarmi seco, finché giungemmo all’altra parte del ponte, a’ piedi del quale era situato il palagio indicatomi nella lettera. Quando gli parve d’essere in loco sicuro: — Sappiate — mi disse singhiozzando e tremando — che la vostra damina ha un novello amante. Questo è un certo Dondorologi, gentiluomo veneziano anch’egli, ma il piú prepotente e pericoloso soggetto di Venezia. Sapendo che la padroncina era innamorata di voi, se ne mostrò per qualche tempo geloso, e, benché ella giurasse di non amarvi piú, pure non volle persuadersene, fineli’ella non gli promise di farvi venire notturnamente in Venezia, dove arrivando voi ed entrando nella sua casa, egli vi avrebbe, per dirvi le sue parole, fracassate le ossa con un bastone. — Non è necessario dire qual io rimanessi a questo racconto.
Dopo aver combattuto alquanto con quel buon servo e co’ giusti riflessi della prudenza, vinto dalla gelosia, dalla collera, dal dispetto, tornai quasi furente alla casa di quella donna, risolutissimo di vendicarmi aut certne occumbere morti». Quel misero vecchio mi seguitò per soccorrermi. Ma io era abbastanza provveduto di coraggio e d’armi per difendermi, anche solo, da un assassino. Picchio. M’apron dall’alto l’uscio, tirando una corda attaccata al chiavistello. Monto con cautela per le scale, illuminate dal languido lume d’un antico fanale. Entrato nell’anticamera, vedo uscire quella perfida dalla camera della cugina. Ella era sola. Verso le dodici della notte, come udii poscia dal servo mio, il nuovo amatore, che aggiungeva a tutt’altri vizi quello del gioco, impatiens morae , s’era annoiato dal lungo attendermi ed era partito. Appena mi ravvisò quella femmina indegna, che, mettendo un grido di falsa gioia, mi corse incontra per abbracciarmi Lo stato indecente in cui m’apparve, e piú ancora quell’atto di nuova sfacciataggine raddoppiò le mie furie. La respingo impetuosamente e, dopo aver dette queste profetiche parole: — Distrugga la man di Dio una simil razza d’infami! — discendo tosto a precipizio le scale, e, come uom che si salva da gran pericolo, corro al piú vicino tragitto, prendo una gondola, torno a Mestre, indi a Treviso, ed ho la costanza di non voler mai piú udir parlare di quella donna. Parve che un raggio celeste scendesse in quel punto sulla mia mente per illuminare la mia ragione e per guerirmi del tutto. PARTE PRIMA Cominciò dunque la mia libera anima a spaziare novellamente pe’ dolci e deliziosi campi delle muse. N’aveva questa, per vero dir, tutto il comodo e tutti i piu nobili incitamenti. Una bella e copiosa biblioteca, ch’ebbi l’agio e l’autoritá d’ordinare e d’arricchire di tutti que’ libri ch’erano a parer mio vantaggiosi; un paese abbondante di dotti e perspicui ingegni (*), che inspiravan agli animi la santa e nobile emulazione; un numero sceltissimo di giovanetti, pieni di vivacitá, eli talenti e di amor di gloria infiammati; un prelato sapiente, magnanimo e del suo collegio amantissimo; una brillante societá, amica delle lettere e de’ letterati; un clima, che colla puritá, gioconditá e freschezza parea creare le fantasie ed empiere di foco i poeti, formarono per pili di due anni le vere delizie della mia vita. Io divideva intieramente il mio tempo col mio caro fratello e con Giulio Trento, letterato d’infinita coltura, di saper sommo e di gusto squisito dotato, all’urbana critica ed al fine giudizio del quale, non meno che alla sua gaia familiaritá ed alla sua giusta riputazione tra’ dotti, io deggio quasi tutta la lode delle mie letterarie pruove a Trevigi. Il Cechino , novelletta in ottava rima, recitata da me in un’assemblea accademica che instituissi a que’ tempi in quella cittá, accrebbe di molto la mia fama poetica e la buona opinione, che di me avevan quel vescovo e quel paese. Non dispiacerá, credo, al mio leggitore trovarla novellamente in queste Memorie.
Al cominríamento dell’anno scolastico fummo promossi, si io che mio fratello, a piú gravi cattedre. Questo balzo improvviso offendeva l’amor proprio degli altri maestri di quel loco, che per imaginari diritti credevano di dover essere a noi preferiti. Avevan torto. Non essendo privi di dottrina e di erudizione, mancavano interamente di quel genio e di quel buon gusto, che sono l’anima delle belle arti e che, se non vengono da natura, difficilissimamente e assai di raro s’acquistano. Questo buon gusto per le lettere, oserò francamente dirlo, fu per la (il II paese di Trento e de’ Riccati : non occorre dire di piú. prima volta da me e dal fratello mio in quel seminario introdotto. Da quarant’anni in qua seguesi il nostro metodo, s’adottan le nostre regole, si studiano i medesimi autori, che erano nomi ignoti a’professori di quell’instituto, quando arrivammo a Trevigi.
Cominciarono da quell’epoca i grandi avvenimenti e le strane vicende della mia vita, e fui spinto fin da quel punto in una carriera affatto diversa da quella, per cui dagli usi, dalle circostanze e dagli studi giá da me fatti io mi credea destinato. Era incombenza mia, come professore di lettere italiane e latine, far recitare l’ultimo giorno dell’anno scolastico, dagli alunni affidati alla mia educazione delle composizioni scritte da me sopra qualche soggetto scientifico. Quello, che scelsi in quell’anno, fu per mia disgrazia il seguente problema: Se l’uom procarciala si fosse la felicitá unendosi in sistema sociale, o se piú felice polea riputarsi in islalo sciupi ir e di natura. Questo problema, e piú la maniera onde fu trattato da me, per somma ignoranza de’ miei giudici e per le maligne interpretazioni de’ miei rivali, parve o si volle almeno far parere scandaloso, imprudente e contrario all’ordine e pace sociale. S’infiammò sopra tutto la testa de’ riformatori agli studi di Padova, soggetti ch’avevano piú bisogno d’esser riformati che morale e giudizio da riformare; e questi portarono Padare al senato, che per la prima volta in Venezia forma si vide assumere ed autoritá esecutiva; e, dando a un ghiribizzo poetico, ché tale era quella esercitazione, tintigli apparati eli faccenda importante e d’interesse pubblico, si stabili con gran pompa il giorno della discussione. I parenti ed amici miei, sopra tutto i signori Giustiniani, della cui illustre famiglia era il vescovo di Treviso, mi consigliarono d’andar a Venezia a difendermi. Pochi giorni dopo il mio arrivo a quella capitale, ebbi la sorte di conoscere Bernardo Memmo, uno de’ piú conspicui e dotti soggetti di quella repubblica. Udiegli la storia mia, e mi promise favore. Procuroinmi immediatamente la protezione di Gasparo Gozzi, eminentissimo letterato di que’ tempi, caro a’ riformatori di quell’anno e loro attuai consigliere. Fu per avviso del Memmo che gli mandai que’ malaugurati componimenti e che gli scrissi la ben nota epistola Gozzi, se un cor gentil, ecc.
Produssero questi versi un ottimo effetto nell’anima cortese di quel gran letterato. Ne parlò con calore; ma le sue parole ad altro non valsero che a prestare nuove ragioni pel mio abbas- ’ samento. — Questo giovine — diceva il Gozzi — ha dell ingegno : bisogna incoraggiarlo. — Tanto peggio — soggiungevano i riformatori: — bisogna tòrgli i mezzi onde divenire pericoloso.— Sotto questo pretesto l’odio coprivano e la nemicizia, che contra la famiglia Giustiniani nudrivano, della quale, come giá dissi, il vescovo di Trevigi era membro e cui, nella mia umiliazione, di umiliare credevano. Perorato aveva efficacemente in senato, alcuni anni prima, il di lui fratello contro un professore di Padova per certi scritti antipapalini da quest’ultimo pubblicati, e voleano, per vendicarsene, far perdere a me la cattedra di belle lettere nel seminario di Trevigi, come aveva perduto il professorato di Padova il lor protetto. Cosi ne’ tempi infelici di quella moribonda repubblica, ora per vendetta, ora per capriccio, l’ingegno e l’innocenza opprimevasi, e cosi dalla seduttrice e fallace eloquenza de’ pochi erano indotti i molti in error di giudizio, che, o ligi per viltá o condiscendenti per ignoranza, diventavano gli ordigni e le molle de’ despoti.
Arrivò intanto la sera fissata alla senatoria discussione. Il Memmo e ii Zaguri con alcuni altri pochi, che per solo amore della giustizia avrebbero potuto difendermi, o impauriti dalle parole e dal credito de’ miei avversari, o credendo che la natura stessa della mia accusa bastar dovesse a salvarmi, non giudicarono prudente o necessaria cosa parlare. Accusò parimenti me che i due pubblici revisori il dissertissimo procurator Morosini, come coloro a cui apparteneva ex officio proibire o permettere la pubblicazione delle mie proposte. Il revisore ecclesiastico era un frate, cui il Barbarigo, proteggitor infaticabile del cappuccio, amava e favoriva nsque ad ai as et ulte rius. Prese questi la sua difesa, unendosi a un tempo stesso al Morosini per declamar contra me. E, vedendo o credendo vedere disposti gli animi a secondarlo, lesse con voce stentorea un’elegia latina, che poco doveva intendersi da quegli eccellentissimi Pantaloni, ma che, declamata con enfasi tra una folla d’invettive e sarcasmi, servi maravigliosamente a infiammar contra me que’ perrucconi irritabili. L’americano in Europa era il titolo dell’elegia. Ergo ego semotae tactus telluris amore, ecc.
Terminata la lettura di questi versi latini, di cui il serenissimo senato veneto Molto udí, poco intese e nulla seppe, recitò lo scaltro zoppo un sermone, che, per essere in italiano, dovette parergli piú intelligibile. L’argomento di quel sermone era questo: L’uom, per natura libero, per le leggi divenne servo. Non si potrebbe imaginare il tumulto insorto nell’assemblea alla lettura di quel poetico scherzo, non per altro da me composto (come pure tutte l’altre composizioni di quello scolastico intrattenimento) che per esercitare nell’arte declamatoria un certo numero di quegli alunni, lo ne aveva fatta la confutazione nella proposizione opposta, che aveva per fondamento il noto adagio di Cicerone : «Servi legum facli sumus, ut liberi esse possemus» ; ma il mio accusatore non si prese la briga di leggerla.
— Eccellentissimi signori — gridava altamente l’iniquo oratore, — udite con attenzione le scandalose massime di questo giovine, e giudicate poi di quel che si potrebbe rispondere. — E qui ripeteva alcuni passaggi di quella poesia, tra gli altri il seguente, che fu sopra tutti gli altri disapprovato e fischiato: Suddito e servo per error de’ mortali, appena io sento de’ ferri il peso, che suonar da lunge ode il sano di mente ; io di censore o di console irato i fasci e il ciglio minaccioso non temo; io d’un sol guardo miro i regi sul trono, e per le strade il cencioso mendico, a cui talvolta porgo vile moneta, onde l’imbarco paghi al nocchier della letea palude. 11 garrir de’ signor, che pien d’orgoglio ergon le corna aurate, un lieve fischio panni d’aura nascente; e, mentre loro prestano omaggio le divote torme, io con equabil ciglio, in me raccolto, or la gru passeggierá, or per le nubi qualche mostro volante, ed ora i marmi di Pasquin, di Martorio intento miro.
Credette la piú gran parte di que’ poveri togati di veder nelle corna aurate da me derise il picciol corno del doge, e, non potendo soffrir l’orribile profanazione, con un grido generale disapprovommi. Si proferí allora la gran sentenza; si dichiararono uno ore i due revisori innocenti, ed io solo fui proclamato colpevole e degno di punizione. Corse sul fatto il Memmo a darmi novella di tutto. Non s’era ancora però proposta la pena convenevole al mio delitto. Se ne lasciò il carico a’ medesimi riformatori. Il peso dato alla cosa da’ miei avversari e gli abbaglianti apparati di pubblico senatorio giudizio, che accompagnavan l’accusa, misero in capo a molti che appagare non si potesse la maestá aristocratica da me offesa, se non col sacrifizio totale della mia libertá o della mia vita. Volevano 1 fratelli e gli amici miei ch’io evitassi il fulmine colla fuga. Ma io rideva di essi e de’ lor timori. Non poteva credere che si dovesse operare con severitá di pene, dopo aver cercata con tanto studio la pompa dell’apparenze. La politica veneta non latrava mai, quando aveva intenzione di mordere.
Non mi sono ingannato. Il mio gastigo, se pur tale si può chiamare, fu tanto leggiero che ridicolo. Citato a comparire, dopo alquanti giorni, davanti al tribunale dei riformatori, letta mi fu dal segretario la mia sentenza. Era concepita questa ne’ seguenti termini :
— Il tuo nome?
— Lorenzo Da Ponte.
— Di die paese?
— Di Ceneila.
— Lorenzo Da Ponte, di Ceneda, d’ordine e decreto dell’eccellentissimo senato, «ti si commette di non esercitare mai piú in alcun collegio, seminario, universitá del serenissimo dominio veneto l’uffizio di professore, lettore, precettore, institutore, ecc. ecc. E ciò sotto pena dell’indegnazione sovrana». Va de. — Chinai la testa, mi misi le mani e il fazzoletto alla bocca per non ridere, e me ne andai. Sulla scala del palazzo ducale incontrai mio fratello ed il Memmo. Il pallor della morte era dipinto sul loro volto. Un sorriso, che mi balenò sulla faccia, rassicurolli. Il Memmo, ch’era stato piú volte inquisitore di Stato e che conosceva a fondo le leggi e la politica del suo paese, rimase estatico al racconto del fatto e gli scappò di bocca:
— Parturient niontes! — Ma, mettendosi poi un dito sulle labbra, m’abbracciò e mi condusse a casa. Passammo il resto di quel giorno in gozzoviglie ed in feste, a spese de’ riformatori e del loro «Vade». Uscimmo verso la notte e anelammo a trovare il Zaguri, di cui non so se fu maggior il piacere o la maraviglia. M’offerse il Memmo la stessa sera un onorato asilo in sua casa, dove passai alcuni mesi tra le delizie della ospitalitá e della filosofia. Presentato fui in questo tempo da’ miei due benefici mecenati ai piú colti e conspicui soggetti della repubblica, da cui, per la storia delle mie vicende e piú forse pel credito de’ miei protettori, io era accolto graziosamente ed accarezzato. Io non m accorgeva della mia passata disgrazia.
Aveva, quanto all’onor letterario e quanto all’ interesse, tutto ciò che poteva solleticare uno spirito fervido. La borsa del Memmo era aperta a tutti i miei onesti bisogni, ch’ei sempre con singolare generositá preveniva. Non conversava che con uomini illustri per letteratura e per grado. Le belle di Venezia andavano a gara nel distribuirmi lodi e favori: tutte volevano vedermi, tutte udire i miei versi, tutte biasimavano il gobbo, lo zoppo, i riformatori, il senato ed i lor giudizi. Fu in questi tempi che, avendo avuto occasione di conoscere diversi celebri improvvisatori italiani, tra i quali l’abate Lorenzi, monsignor Stratico e l’Altanesi, mi misi al cimento anch’io d’improvvisare. Mio fratello fece lo stesso, e riuscimmo abbastanza ambidue, per essere con qualche diletto ascoltati. Ci solevano chiamare generalmente gli «improvvisatori di Ceneda». Questa facilitá di recitare o cantare improvvisamente in buoni versi, su qualunque soggetto e in qualunque metro, quasi esclusivamente propria degli italiani, dovrebbe bastare a far conoscere quanto poetica, quanto per tutti i modi pregevole stimar si debba la nostra lingua, che presta colle sue grazie, colle sue melodie, colle sue dovizie i mezzi di dire ex ubmpto quelle cose, che da’ verseggiatori dell’altre lingue, anche dopo lungo studio e meditazione, difficilmente si scrivono; cose non solo « vaghe ed ornate e d’esser lodate ed udite degnissime, ma atte a dilettare, a sorprendere ed a rapire gli animi di chi le ascolta, come quelli diranno, che non solo gli incomparabili Gianni e Dal Mollo, ma la Gorilla, la Bandettini e qualch’altra famosa improvvisatrice ebbero la sorte d’udire.
Questo nuovo ornamento, in me improvvisamente sviluppatosi, accrebbe sommamente la benevolenza del Memmo per me e il desiderio, ad un tempo stesso, di beneficarmi. Poco mancò però che non nascesse da questo suo affetto medesimo la mia rovina. Questo illustre soggetto, che per nascita, per sapere e per grandezza d’animo non aveva forse chi l’agguagliasse nella repubblica, teneva in sua casa una giovine, che, senza gran pregi di corpo o di spirito, ma di tutti quegli artifizi ed astuzie fornita, di cui una malvagia donna è capace, dominava tirannicamente sul di lui animo, e ligio affatto rendevalo d’una cieca passione. Invano si avrebbe cercato di disingannarlo. Per tre o quattro mesi ebbi la sorte di non dispiacere a costei. Il Memmo passava meco molte ore in letture e meditazioni; usciva di casa piú spesso che in altri tempi far non soleva:
aveva insomma per me varie occasioni di occupazione, che davano maggior libertá ed agio a colei di divertirsi a suo senno. La mia disgrazia volle che questa donna s’innamorasse d’un giovine, che sulle prime piaceva al Memtno. Ei disegnava giá farlo suo marito. Per qualche ragione, ch’uopo non è menzionare, gli dispiacque in breve a tal segno costui, che scacciollo non solo di casa, ma comandò alla ragazza di non praticarlo.
Ella l’amava perdutamente e soffriva di mal animo questo divieto. Dopo aver tentate tutte le strade e tutti i soliti artifizi per distornare il Memmo dalla sua risoluzione, indusse me, a forza di lagrime, ad adoperarmi per lei.
I miei tentativi non furon vani. Il medesimo giorno ritornò in casa l’amante, ricondottovi dal Memmo stesso e da me. Si stabili, con intero giubilo della famiglia, un matrimonio e se ne fissarono le condizioni ed il tempo. Dopo la cena, che fu oltremodo lieta, andai al solito nelle stanze del Memmo. che erano nel secondo piano di quella casa e a cui la mia camera era contigua. Passammo alcune ore in riflessi piacevoli e filosofici. Arrivata l’ora d’andare a letto, il Memmo mi strinse al seno e mi disse, congedandomi, queste parole: — Andate a dormire allegro. Oggi avete fatta felice la mia Teresa. — Tale era il nome di quella femina vile.
Era la porta della mia camera alla scala vicina; accostandomivisi pianamente, per non disturbar chi dormiva, udii un bisbiglio, un mormorio di parole basse al fondo di quella.
Fermatomivi per ascoltar chi parlava, riconobbi la voce de’ due amanti. Il perfetto silenzio, che dominava allor nella casa, mi permise di udire ogni detto distintamente. — Il Da Ponte
— diceva colui — ha troppo potere sull’animo del padrone. Egli è un uomo pericoloso per noi in questa casa. Vedi come l’ha cangiato in un punto, quando si tu che tua madre e tutti gli amici lo ritrovarono inflessibile. — Se tu credi questo — soggiunse la donna perfida — sará mia cura il far si che parta in pochi giorni di questa casa. — Non è necessario dire qual io rimanessi a queste parole. Lo stordimento mi tolse per alcun tempo la voce ed il moto. Entrai alfine nella camera trasognato e fuor di me stesso. Non sapeva che cosa risolvere. Passai il rimanente della notte in mille diversi pensieri. Entrai il mattino nell’appartamento del Memmo, e presi il partito di dirgli placidamente quel che aveva udito la notte. — Avete sognato, caro Da Ponte — ini rispose freddamente quel buon signore. Passammo insieme alcun tempo senza piú favellare di questo fatto. Fummo chiamati infine alla colazione, ed allora il Memmo cominciò a vedere che la faccenda non era sogno. Discendemmo al primo piano, dove si trovava colla famiglia la giovine. Costei non mi guardò, non corrispose al saluto mio, e non offerse a me solo la cioccolatta, che pur agli altri ella offerse. Il Memmo mi diede la propria tazza ed usci dalla camera. Lo séguito, usciamo di casa insieme; ma né egli a me, né io a lui feci alcun cenno dell’avvenuto. Egli era però molto pensieroso.
Tornammo a casa all’ora del pranzo, al quale tenne meco colei il medesimo modo che tenne al mattino. La compagnia de’ convitati era piú numerosa del solito. Il Memmo fremeva, ed io piú di lui. — Perché non servi il Da Ponte? — diss’egli alfine altamente. — Perché, avendo le sue e le tue mani da servirlo, bisogno non ha delle mie. — Sentendo che il sangue mi bollia nelle vene come un Vesuvio, diffidai della mia prudenza, m’alzai di tavola, andai alle mie stanze, e, pigliando pochi vestiti con me, corsi al tragitto, da cui ogni sera partia una barca per Padova, e mi vi imbarcai.
Non aveva che dieci scudi, quando partii da Venezia. Pagate le spese del mio viaggio, che feci parte per terra, non me ne rimaser che sei. È facile immaginare l’angustie del mio spirito. Io perdeva in un punto, per l’ingratitudine di due perfidi, un lift nrntpftArO un ominn /^irnlln C^nnnn^nr.n*«• • — w>v.t*viu«b\/4 jy» vvwvwa vy uu UlUiuV/} UH OUO li UilUCUi J t. 11IC , Vili maestro, e molte future speranze, che la bontá di quel cavaliere in me aveva eccitate. Prevedeva, oltre a questo, lo stato infelicissimo d’indigenza, in cui io doveva ben presto precipitare. Aveva un fratello in Padova, che vicino era a terminare i suoi studi in quella universitá; ma quel buon giovine avrebbe avuto piú bisogno di ricevere soccorsi da me che di darmene.
Sperava io bene d’aver un amico in quella cittá, a cui poter confidare i miei casi e qualche sollievo riceverne; ma anche in questo mi sono ingannato. Era questo un prete dalmatino, che, per la protezione di certa dama, il posto ottenuto avea di professore di ius canonico nell’universitá di Padova e ch’io in casa del Memmo, che amavalo, aveva conosciuto. Costui, che ne sapeva pochissimo di latino, aveva lasciata in mano di quel cavaliere un’orazione, che recitare doveva come introduzione delle sue lezioni a’ numerosi scolari ed agli altri professori di Padova. Il Memmo me la diede da leggere, ed io per onestá fui obbligato dirgli che la trovava inelegantissima. Rimase egli afflittissimo e lo disse al suo candidato. Non era questi per sua ventura né ostinato né superbo. Credeva anch’egli che la maniera del suo scrivere non fosse molto elegante e abbastanza pura. Non aveva da trentanni letto Cicerone, s’era dimenticato di Erasmo e di Cesare da che faceva il cavalier servente in Venezia: nel resto era sicuro che la sua orazione era, in quanto alla materia, bellissima. Egli doveva però partir fra tre giorni per Padova. Vedendo che il Memmo s’interessava molto per lui, gli offersi di rifondere e di rifare, quanto allo stile, il suo discorso; il che nel solo spazio di ventiquattr’ore ho potuto eseguire. Andò a Padova, recitollo e ne riscosse lodi ed onore. È difficile immaginare in quanti morii egli ringraziommi e con parole e con lettere, e quante promesse e proteste fece al Memmo ed a me d’una gratitudine eterna.
Pensai dunque di fargli una visita e domandargli qualche soccorso in quella circostanza infelice, narrandogli la storia di quella donna, ch’ei conosceva mirabilmente. Andai dunque con lieto animo alla sua dimora. Nel picchiare la porta, alzai con un naturai movimento alle finestre lo sguardo, e vidi ritirarsi frettolosamente una testa, che quella mi parve essere del buon sacerdote. Dopo un piccolo indugio, mi s’aperse l’uscio da un servo, il quale, udendo ch’io chiedeva del professore, mi rispose, non senza qualche imbarazzo, che il signor professore non era in casa. Dubitando d essermi ingannato e volendo chiarirmi del fatto, m’allontanai alcun poco da quella casa e ad osservare mi misi certamente se non uscisse. Sapeva che l’ora d’andare alI’ universitá era vicina : difatti non andò molto che usci. Me gli avvicinai immediatamente e non gli dissi che questo: — Vi ringrazio, signor abate, d’avermi prestata occasione di conoscervi. — Ciò detto, voleva andarmene; ma, prendendomi con violenza pel lembo dell’abito, mormorò mille scuse, che, a mio giudizio però, piú e piú mostravano la sua ingratitudine e la sua vilis sima anima: onde, da lui sbarazzatomi, lo lasciai. Il Memmo, a cui appena arrivato a Padova io aveva scritto, informato aveva costui d’ogni cosa e me gli aveva raccomandato. Ma né le raccomandazioni di quel cavaliere, né la fresca memoria de’ miei servigi operarono nel petroso dalmata in modo da renderlo umano, se non generoso e riconoscente: fu la paura di vedersi scornato che l’indusse a farmi delle ofTerte cortesi, ch’ei sperava probabilmente ch’io d’accettare rifiutassi, e che infatti osai rifiutare costantemente. Egli si ricordò d’avermi lasciato in mano l’originale della barbara orazione, e, vedendomi incollerito, tremava di timor che la pubblicassi. Io m’accorsi di tal timore: gli mandai il di seguente il suo manoscritto e noi rividi mai piú. Ei scrisse le cose al Memmo a suo modo; ma non potè astenersi di confessare le sue paure in queste parole: «Il Da Ponte mi fece un piú gran dono nel restituirmi la mia orazione che nel rifarmela. Avrei volentieri pagato cinquanta zecchini per riaverla.» Ma io, invece di vendicarmi col pubblicar uno scritto che l’avrebbe per sempre disonorato, gliel rimandai volontariamente, senza nemmeno esserne chiesto, contento di punire, con una generositá che il confuse, una viltá ed una ingratitudine senza pari. La maniera peiò, con cui egli mi ricevette, m’insegnò a tener a tutti celata la mia povertá. Procurai all’incontro di iarmi creuer ricco eu agiato e, quanto uri fu possibile, ne conservai le apparenze.
Alcuni di dopo la mia partenza, ebbe cura il Memmo di spedirmi i pochi abiti che aveva lasciati in sua casa: potei comparire con questi in decente stato ne’ cafTé e ne’ ridotti pubblici di quella cittá, dove ogni giorno faceva vedermi lindo e ben attillato. Divisi in cinquanta parti le cinquanta lire di quel paese (una ghinea), disegnando che mi bastassero per cinquanta giorni, e sperando intanto che «dii meliora fera?it». Aveva dunque una lira, cioè venti soldi veneti, al giorno da spendere : ne pagava otto per un letto e cinque per una tazza di caffè ogni mattina, rimanendomene sette pel mio pane quotidiano. Ebbi la costanza di cibarmi, per quarantadue giorni continui, di pane e di certe olive nericce, che, per essere salate, mi fortificavano l’appetito di bere dell’acqua, celando, non che agli altri, al fratello mio la dura necessitá della mia piú che poetica parsimonia. Terminò questa fortuitamente per un fatterello bizzarro.
Un giovanotto, che aveva gran pretensione al gioco delle «dame», espose in una bottega di caffè un manifesto, nel quale sfidava chiunque. Io credeva di non esser in quel gioco a chi che si fosse inferiore. Volli però cimentarmi. Gli feci fare l’offerta, ed ei l’accettò, fissando la somma del danaro da giocarsi e il numero delle partite. Io non aveva danaro che per pagare la prima, se avessi perduto. Come però guadagnai, cosi seguitammo a giocare, ed io gli vinsi in breve ora le dodici partite fissate, dieci delle quali fúr doppie. Mi pagò sul fatto ventidue piastre e confessossi inferiore. Alcuni giovani della universitá, ch’erano stati presenti e che pensavano forse di vendicare l’amico, rigua dagnandomi quel danaro, mi proposero una partita al gioco dell’«ombre». Secondo l’uso del paese sarebbe stata scortesia il rifiutarla. Mi convenne dunque accettare l’invito, quantunque fosse contra mia voglia. Ebbi la fortuna però di guadagnare anche a questi; e, prima che suonasse la mezzanotte, andai a casa dopo una buona cena e con trentasei piastre in tasca.
Questo cambiamento improvviso mi diede un felice presagio per l’avvenire. Seguitai a giocare per vari giorni, sempre vincendo.
Questa maniera però di vivere non mi piaceva molto. È vero che aveva occasione di conversare spesso co’ piú nobili personaggi e coi piú chiari ingegni di quella cittá, e specialmente coll’impareggiabile Cesarotti, a cui non so se piú il Memmo o qualche mio verso m’aveva reso caro. Sebbene però trovato avessi nel favore della fortuna quello che la pietá degli uomini m’aveva negato, pur, ricordandomi de’ casi passati e desiderando di cor rere vie piú onorate, risolsi improvvisamente di lasciar Padova e di tornare a Venezia. Caterino Mazzolá, colto e leggiadio poeta, ed il primo forse che seppe scrivere un dramma buffo, con cui m era in casa del Memmo in forte amicizia legato, volle condurmi immediatamente da quel cavaliere. Due cose seppi da lui. L’ima, che quel giovinastro, pochi di dopo la mia partenza, era stato cacciato novellamente da quella casa; e l’altra, che la perfida femmina calunniato m’aveva presso il Memmo, facendogli credere ch’io fossi innamorato di lei e che sol per gue rirmi m’aveva trattato in quel modo: nel che il Memmo avea commendata mara/igliosamente «la sua prudenza e pudicizia, e la debolezza del suo povero amico Da Fonte compianta». Io non potei udir senza rammarico una si villana imputazione, e divenni ansiosissimo di disingannarlo. Andai perciò di buongrado a largii una visita. Fui accolto si da lui che dalla Teresa con cortesia non solo, ma con allegrezza. M’offerse il di medesimo e l’alloggio e la tavola; ma io ricusai d’accettare la sua offerta. Andava spessissimo a visitarlo, ed egli veniva da me. In pochi giorni la nostra intrinsichezza rinnovellossi, anzi divenne maggiore. L’egregio Zaguri, che con pari gioia mi ricevette, mi scelse a secretano di sue faccende private ed a compagno di studi. Io passai molte ore beate con lui. Era egli un cavaliere ornato di moltissime cognizioni, buon poeta, buon oratore e pieno di gusto e d’amore per le belle arti. Era piú generoso che ricco e piú amico degli altri che di se stesso. Fu egli che mi fece conoscere il famoso Giorgio Pisani, ch’era il Gracco di Venezia in quei tempi e di cui avrò occasione di parlare piú a lungo nella mia storia. Volle quest’ultimo affidarmi l’intera educazione de’ suoi figlioli, ed io di buon grado me ne incaricai. Mi vidi dunque in un tratto favorito e protetto da tre nobilissimi e possenti soggetti, che gareggiavano nell’amicizia e ne’benefizi. Composi pochi versi in quei tempi, perché le occupazioni d’un doppio impiego, e forse piú le distrazioni piacevoli del paese, troppo all’etá mia confacenti ed alla vivacitá del mio ingegno, non me ne lasciarono l’agio di farlo. M’esercitava spesso, oltre ciò, cosi volendo gli amici miei, nell’improvvisare, ch’era divenuto allora cosa di moda ; e mi convien confessare aver io trovato tal esercizio affatto contrario alla poesia scritta, e deve parer cosa maravigliosa che tra vari geni sublimi, che dicono o cantano improvvisamente de’ versi bellissimi, molto pochi sieno quelli che non diventino mediocrissimi, quando scrivono.
Mi si presentò frattanto occasione di trarre il Memmo d’inganno, relativamente a ciò che la ingiusta giovine avevagli di me fatto credere. Gli aveva io qualche volta di ciò parlato con molta franchezza; ma, ostinato nella sua credulitá, poco alfine mancò che non venissimo a una nuova rottura. Mi domandò un giorno, e fu per la prima ed ultima volta in sua vita, «se sapeva con chi parlassi». Quest’era la frase che aveano in bocca comunemente i gentiluomini veneziani. Gli risposi che si, ed aggiunsi che non sarei né si libero né si franco, se noi sapessi. M’intese, m’abbracciò e ringraziommi. — Bisogna dunque — ripigliai allora — che mi permettiate convincervi; e questo farò, dove mi promettiate di non farne motto alla vostra Teresa. — Ebbene — replicò egli, — convincetemi, se potete, ché io vi prometto di tacere. — Mi misi dunque all’impresa. Era quella fanciulla ferventissima nelle passioni, ma, al solito delle sue simili, cangiava di amore colla maggior facilitá del mondo. Si consolò dunque prestissimo dell’amante perduto, e gettò gli occhi su certo giovine, che frequentava la sua casa famigliarmente e che, privo essendo de’ doni della fortuna, pareva disposto a corregger quel fallo, sposando una donna ricca, senza curarsi gran fatto del resto. Accortomi della cosa, procurai farmelo amico. Vedendo egli la mia intrinsichezza col Memmo, ne parve lietissimo. Mi scoperse in breve il suo animo e mi pregò secondarlo. Io gli promisi tutto, con patto ch’egli ottenesse dalla Teresa una sincera confessione della calunnia appostami, e adoperasse in tal modo, che ella medesima la veritá palesasse a quell’ingannato cavaliere. Ottenne egli ciò molto facilmente da lei, come quella che sapeva di poter tutto fare impunemente con un uomo giá cieco.
Entrai un di a caso nelle stanze di quel signore, mentre la ragazza di ciò parlavagii. — Venite — mi diss’egli ridendo: — scopersi la veritá, e ne sono lieto e per me e per voi. Per voi, perché siete ora negli occhi miei piú degno che mai d’amicizia e di stima; per me, perché sento d’esser si amato dalla Teresa, da non potere essa per alcun modo soffrire nel mio core un rivale, nemmen di genere mascolino. Credette la poverina ch’io amassi piú voi che lei. Questo timore la rese ingiusta: bisogna compatirla. No no, Teresa mia — soggiunse allora, tutto tenerezza, quel buon signore; — non amo, non amai, non amerò alcun piú di te. — La prese per mano, cosi dicendo, la baciò cento volte in fronte e gittò qualche lagrima; ed ella Asciugavagli gli occhi col bel velo (»).
Questa passione, questo accecamento, questo fanatismo durò indelebilmente in quell’uomo ottimo, in queireminente filosofo, fino agli ultimi giorni della sua vita. Sposò, pochi mesi dopo, Teresa il novello amante, in casa del Memmo; divenne madre di vari figli, dal Memmo; rimase vedova e consolata nelle braccia del Memmo; e, come prima di maritarsi, cosi nel matrimonio, nella vedovanza e nella vecchiezza, fu unica ed assoluta padrona della sua facoltá, della sua volontá, del suo cuore e della sua ragione! Che scola per la povera umanitá! Torniam alla storia mia. Io era dunque amato dalle donne, stimato dagli uomini, accarezzato da’ miei protettori e pieno di buone speranze. Passai tranquillamente qualche tempo in questa manieradi vita. I miei nemici stessi parea che dormissero o non si curassero piú di me. Durò poco il buon tempo. La mia disgrazia volle che l’incorrotta giustizia di Giorgio Pisani e la sua profonda cognizione delle leggi e della veneta costituzione, ch’ei voleva ristabilire, e che io con le cure e gli studi miei non poco assisteva, (t) Questo signore aveva chiuso nel proprio armadio alcune centinaia di monete d’argento. L’aveva contate con me e con certo Muti egli stesso, al momento di chiuderlo. Pochi di dopo ne prese alcune (credo venti) e rinchiuse a chiave lo scrigno. Non passaron tre giorni, che, al prenderne altre venti, ne mancavano circa cento. V’era il medesimo Muti, e v’era io presente. Non si cessò di stupire.— La cosa è certa — diceva io. — Non v’è dubbio — diceva il Memmo. Il buon Muti, galantuomo, filosofo ed amico di quel signore : — Io non ci trovo — soggiunse — niente di strano. Vi son molte mani in casa. — Zitto, lingua sacrilega ! — teplicò il Memmo — dirò piuttosto averle rubate io che questa buona gente: — Il padre di «questa buona gente» era stato aguzzino di galera e la madre lavaceci ! ingelosissero prima, indi spaventassero tutti quelli che «grandi» antonomasticamente chiamavansi allora in Venezia. Meditarono questi gran pezza invano la sua rovina. La sua formidabile eloquenza e sopra tutto la sua integritá stabilito gli avea un tal partito tra i nobili, che, se non per le ricchezze e gli uffizi, pel numero almeno contrabilanciava i potenti ed i ricchi. Volsero quest’ultimi contra me i primi fulmini della loro vendetta. Si cominciò a dire ch’era strana cosa ch’un uomo del mio carattere e de’ miei principi, scrittore d’elegie americane, derisore delle parrucche aristocratiche e del corno del doge, ad onta del senato e de’ suoi decreti, instruire osasse e inspirare i dommi della sua pericolosa dottrina ne’ figlioli d’un uomo, che parea fatto apposta per opporsi al partito de’ grandi, i quali, coll’esclusione del piú gran numero, voleano esser soli a signoreggiare nella repubblica. Mentre ardea contra me questo quasi tacito e coperto foco, si divulgò per l’imprudenza di pochi un sonetto, che il mio zelo pel Pisani, e piú l’amore di patria, cavato m’avea dalla penna in una occasione, in cui gli fu preferito, nel concorso di pubblico importantissimo uffizio, uno de’ piú servili personaggi de’ cosi detti grandi. Ecco, signori veneziani, la vera causa per cui mi bandi la mia patria! «Veritas odiutn pari/», e quello, ch’io dissi, non fu solo vero, ma fu profezia!
Se ’l fosse anco el Pisani un impostor, un prepotente, un ladro, un lecamone, se ’l stasse co le bestie buzarone, col Bafo in man per so legislator; se ’l gavesse anca lu, come ga el sior, cento bardasse al fianco e cento done, perdio, tute ste cosse saria bone per volerlo in Venezia avogador. Ma, perché ’l segue la costituzion, perché noi poi sofrir le prepotenze, i furti, el despotismo e I’oppression; perché schieto el ghe parla a So Celenze e nel mazor Consegio a 1’ Emo e al Tron el ghe dise anco lu le so sentenze, se ghe usa le insolenze dal senato e dai grandi del paese, de farghe fin del brogio un crimenlese; de dirghe che ogni mese ga da bastar d’aver in quarantia el sachetin de la pitocheria. Che la xe una resia el pensar che la stola avogaresca se ghe daga a una marna (’) ancora fresca. Ma i sa ben che se pesca in fondo de sta marna quei tesori, che no se trova mai ne’ cagadori. E questi xe i furori, questa la rabia che li fa parlar, e che sti furbi voria mascherar. Lassémoli sbragiar, ché noi xe zelo del publico ben quelo che in risse eterne li mantien. El xe un certo velen che 1 ga contra de st’omo, che proteze el santo, el giusto, el citadin, la leze. Che frena, che coreze la petulanza e ’l fasto e ’l genio mato d’esser in pochi a governar el Stato; e questo mo xe ’l fato, perch’el senato ga tanto trastulo d’andarghe sempre cole baie in culo. T 1 „ _! _ C _ .....1 _ A 1U VUlld Idi 1UU1U, i ghe voria cavar la nobiltá, e mandarlo a Madras o al Canada. ché paura ghe fa el cor da citadin, la lengua sciolta, la testa dreta e la viltá sepolta. Pensé megio una volta. Vardé, perdio! la patria sconquassada dala vostra superbia buzarada, (l) Quasi tutte le famiglie venete si distinguevano da qualche particolar predi cato. Quella di Giorgio Pisani era detta Pisani Marna. pensé manco a l’entrada, al fumo dele case, a’ gradi e a l’oro, e piú al ben de la zeca e a quel del fòro. Lasséghe sto restoro, a quei che studia e che ve voi servir, de no aver mile imbrogi da sofrir. Quando i va a sgangolir, su quela renga a dir quelo che i crede, no ghe fe mal, se no ghe dé mercede; de quel che no se vede, vogio mo dir del cor, no giudiché, se no da quele azion che vu vedé. Né da strambi cerché, in tuto quel che i dixe, un qualche fin desonesto e da furbo citadin. Moderò un tantinin la vogia d’esser soli i savi e i doti, a lasséve corezer dei stramboti. Segondé i primi moti del vostro cor, quando i ve dixe el vero, né vardé che vel diga Alvise o Piero. Metéve nel pensiero che questa xe repubblica comun, e che la xe de tuti e de nessun: che se ghe xe qualcun che se lamenta, el ga razon de farlo, perché de tutto voressi spogiarlo. Contentève mandarlo con un magistratuzo o un rezi mento a sfadigar, sgonfiandose de vento. Ma, quando el xe lá drento, dove tuti gavé una baia sola, feghe bon muso e no dixé parola. Che se, dopo sta scola, no pensé seriamente a qualche scampo, recordéve che ’l ton vien dopo el lampo.
Questo sonetto, essendo scritto in lingua veneziana, lo ca pivano tutti, e in pochissimi giorni divenne l’oggetto de’ caffè, delle assemblee e delle mense (0. Il sonetto piaceva, e questo aumentava la rabbia e la collera di que’ signori. Le donne, che amavano e me ed il Pisani, a dispetto delle toghe, de’ perrucconi e dell’aristocratico fumo de’ lor mariti, l’aveano imparato a memoria, lo declamavano per diporto e, tra gli scrosci d’un riso oltraggiante, ne ripetevano i tratti piccanti a quelli che piú m dovevano sentirsi punti.
Si pensò allora di batter la sella, giacché non si poteva il cavallo. Si cercarono, e si trovarono facilmente, accuse ed accusatori. Uno scellerato, che praticava in una certa casa dov’io mi trovava talvolta, s’ofTerse di portar varie accuse contra me al magistrato della Bestemmia. Mi accusò d’aver mangiato prosciutto in un venerdí (egli ne avea mangiato con me!) e di non essere andato alla chiesa varie domeniche. Costui non era stato a messa in tutta la sua vita ! Queste due accuse le seppi dallo stesso personaggio che presiedeva a quel tribunale, e che fu il primo a consigliarmi di lasciar sul fatto Venezia. — Se queste accuse non bastano — dicevami quel signore, che assai m’amava, — ne troveranno dell’altre. Vi voglion reo, e reo vi proveranno. — Credettero allora gli amici e i parenti miei che la mia libertá, e forse la mia vita, fosse in pericolo. Il nobiluomo Giovanni da Lezze, nella cui casa viveva il fratello mio in carattere di secretano e piú d’amico, voleva ch’io mi ritirassi a una sua campagna, dove mi offriva un sicuro asilo, finché dileguavasi il turbine. Ma io non poteva piú amar un paese si ingiusto e col Pisani e con me, si cieco ne’ suoi veri interessi e si vicino alla sua dissoluzione. Risolsi dunque di lasciar per sempre Vinegia. Andai a trovare i miei tre protettori e pochi altri amici, che colle lagrime agli occhi udirono ed approvarono la mia risoluzione. Abbandonai dunque l’ingrata patria ed andai a Gorizia. (i) Chi conobbe il carattere della veneta aristocrazia può imaginare lo strepito che fece questo sonetto.