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core d’allontanarmene. Mi rimaneva dall’altro canto una certa lusinga di dover trovare occasione, col tempo, da impiegarmi onorevolmente.

Passava frattanto la piú gran parte della giornata e parte ancor della notte con lui. Era egli molto occupato a comporre, a tradurre o ad accomodare de’ drammi ad uso di quel teatro, che era allora fornito d’una delle migliori compagnie drammatiche dell’ Europa. Per non istare colle mani alla cintola, m’ofTersi a coadiutore delle sue teatrali fatiche; ed egli accettò in qualche modo l’offerta mia. Tradussi dunque o composi anch’io ne’ suoi drammi or un’aria or un duetto ed or una scena intiera, ch’ei prima mi disegnava. Aveva allora per le mani un’opera di Filippo Quinault, eh’ ha per titolo, se non m’inganno, Ali e Cibele. Trovai la parte di Sangaride piena d’interesse e d’affetto, e gli proposi di tradurla. Bisogna dir che la mia traduzione gli piacesse molto, perché, dopo avermi adoperato in vari altri caratteri, non potè trattenersi un giorno di domandarmi perché non tentava di scrivere per i teatri d’Italia. — Voi sapete bene

— gli risposi io — esser l’arte drammatica in tal avvilimento in quel paese, che fa d’uopo avere molto coraggio per abbracciarla. — Non v’era infatti chi meritasse in que’tempi d’esser letto, tra tutti i poeti drammatici seri e buffi che componevano per li teatri italiani. Metastasio era a Vienna, Moretti e Coltellini a Pietroburgo, Caramondani a Berlino, e Migliavacca prima, poi Mazzola erano stati stipendiati alla cor’e di Diesda. Tra cento altri, che v’erano rimasti, un sol non ve n’era, che sapesse scrivere un dramma che losse sopportabile, nonché degno d’esser letto o veduto in scena.* I Porta, i Zini, i Palomba, i Bertatti ed altri simili ciabattini teatrali, che non hanno mai saputo un principio di poesia, nonché di quelle infinite regole, leggi c cognizioni, che per fare un buon dramma s’esigono, erano gli Euripidi e i Sofocli di Roma, di Venezia, di Napoli e della stessa Firenze e di tutte l’altre cittá principali d’Italia. Questo nasceva dalla vergognosa avarizia degli impresari venali, che non incoraggiavan co’ premi i migliori ingegni a quel