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di metá del primo atto del Tarar , titolo da me cambiato in Assur. Portai la mattina queste scene a’ tre compositori, che appena volevan credere che fosse possibile quello che cogli occhi propri leggevano; e in sessantatré giorni le due prime opere erano finite del tutto, e quasi due terzi dell’ultima.

L’a’bore di D ana fu la prima a rappresentarsi. Ebbe un incontro felicissimo e pari almeno a quello della Cosa rara.

Dirò poche cose di quest’opera, che forse il mio lettore udrá con qualche diletto. Il signor Lercheneim, di cui feci cenno poco fa, era grandissimo ammiratore ed amico di Martini.

Due o tre giorni prima ch’io dessi alcun verso a questo maestro, venne da me con lui, e, mezzo scherzoso, mezzo sdegnato:

— Quando avrá — diss’egli — il nostro Martini de’ versi? — Posdomani — risposi. — Dunque il soggetto è scelto? — Senza dubbio — soggiunsi. — Il titolo dell’opera? — L’arbo> e di Diana. —

— È fatto il piano? — disse il Martini. — Non v’ ha dubbio. — Per buona sorte servirono da cena, ed io pregai i due amici di cenar meco, assicurandoli che dopo la cena mostrerei loro il piano che domandavano di vedere. Accettaron l’invito ed io, che non solo non avea fatto alcun piano, ma che aveva detto che il titolo era L’arbore di Diana , senza aver la minima idea di quello che quest’arbore doveva essere, finsi che m’occorresse alcuna cosa in un’altra stanza, e diedi ordine d’essere in pochi minuti chiamato. Lasciai i due amici colla mia bella musa e con mio fratello che viveva con me, andai in un gabinetto laterale, e in men di mezz’ora imaginai e descrissi tutto il piano dell’opera, ch’oltre a qualche merito di novitá, aveva quello di dar mirabilmente nel genio al mio augusto protettore e sovrano. Aveva egli a quel tempo con un santo decreto abolita intieramente la barbara instituzione monacale negli Stati ereditari. Finsi dunque che Diana, dea favolosa della castitá, avesse un albero nel suo giardino, i cui rami producessero de’ pomi d’una grandezza straordinaria; e, quando le ninfe di questa dea passavano sotto quell’albero, se caste in fatti e in pensieri, que’ pomi diveniano lucidissimi, e uscivan da quelli e da tutti i rami de’suoni e de’canti di celeste soavissima melodia; se