Il Libro dei Re - Volume I/Sunto del Libro dei Re
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II.
Sunto del Libro dei Re.
Il Libro dei Re si può dividere come in due parti, una delle quali è tutta eroica e leggendaria, mentre l’altra è storica, aggirandosi intorno alle imprese d’Iskendero Alessandro Magno in Oriente e raccontando con molte favole la storia dei Sassanidi fino al 651 dell’Era volgare, nel qual anno la Persia fu conquistata dagli Arabi. La prima parte incomincia col primo uomo e primo re, Gayûmers, e ha per suo principale soggetto una guerra secolare degli Irani coi Turani, popoli dell’Asia settentrionale, e coi Dêvi o demoni, creature di Ahrimane, cioè del genio del male. Non v’ha alcun dubbio che sotto questo nome di Dêvi non si celi una popolazione antichissima che gl’Irani trovarono sul luogo quando discesero nell’Iran, e che essi dovettero sottomettere e sterminare in parte. Ma questa guerra contro i Dêvi e contro i Turani agli occhi degl’Irani aveva un significato veramente grande. Essa rappresentava in terra visibilmente la gran lotta tra il male e il bene, fra il creatore, Ormuzd, e il nemico d’ogni bene, Ahrimane, alla quale tutti gli uomini, per un dovere morale, sono obbligati a prender parte. Come il male si può e si deve combattere con le opere pie e buone, così esso si può anche combattere con le armi, e gli eroi dell’Iran, quando scendono in campo contro Dêvi e Turani, altro non fanno che soddisfare a quest’obbligo morale. Sotto tale aspetto, adunque, cotesta guerra ha una importanza grande agli occhi del credente, essa è come una guerra religiosa, alla quale prendono parte tutti quanti i re, dal primo fino all’ultimo, tutti quanti gli eroi di quel gran popolo guerriero. Vediamo pertanto quali siano i fatti principali che di essi ci racconta l’epopea.
Firdusi incomincia il suo gran poema con le lodi di Dio e dell’Intelligenza, col racconto della creazione del mondo, con le lodi del profeta Maometto e de’ suoi primi seguaci. Narra in qual maniera un giorno si tentò di comporre i primi Libri dei Re, parla di Dekìki, e del come egli si determinasse, morto Dekìki, a ripigliarne l’opera interrotta. Termina poi questa sua introduzione con le lodi di Abû Mansûr suo antico protettore, del Sultano Mahmûd e dell’emiro Nasr, fratello del Sultano.
Incomincia ora la serie dei re.
Il re Gayûmers. — Gayûmers fu il primo uomo e il primo re; abitava sopra un monte, laddove egli aveva raccolta tutta la piccola famiglia umana. Il suo regno incominciò in un giorno in cui il sole entrava nell’Ariete, e durò trent’anni. A lui erano sottomessi non solo tutti gli uomini, ma anche tutte le bestie della campagna che gli rendevano omaggio. Egli aveva un sol figlio, Siyàmek, e nel mondo non aveva alcun nemico, eccetto Ahrimane e i suoi Dêvi. Ahrimane ebbe invidia dello stato felice di Gayûmers, e un figlio di lui, il Dêvo Nero, radunò una schiera per far guerra agli uomini, onde nella battaglia che ne seguì, Siyàmek fu atterrato ed ucciso dal Dêvo. Il vecchio re Gayûmers pensò allora alla vendetta del figlio suo; e poichè Siyàmek aveva pure lasciato un figlio di nome Hôsheng, tosto che il giovinetto fu al grado di combattere, Gayûmers gli parlò della vendetta dovuta al padre e radunò un esercito non solo di uomini, ma anche di uccelli, di tigri, di lupi, di leopardi e di leoni, intendendosi che tutta la natura doveva combattere il male, simboleggiato nei Dêvi. Nella battaglia, il Dêvo Nero fu atterrato da Hôsheng che gli recise il capo. Gayûmers allora, poco dopo, morì, pago d’aver vendicato il figlio suo.
Il re Hôsheng. — Con Hôsheng incomincia la prima dinastia dei re dell’epopea, che è quella dei Pêshdâd, e con lui incominciano anche a manifestarsi le prime arti. Egli trovò il ferro e ne fabbricò i primi strumenti, trovò l’arte dell’inaffiare i campi, di ararli, di seminarli, e allora per la prima volta gli uomini poterono gustare il pane. Vestì gli uomini con le pelli di alcuni animaletti, come faine, conigli e volpi, e trovò il fuoco, tanto utile alla vita. Un giorno ch’egli saliva con alcuni dei suoi una montagna, vide un serpente sulla via; presa una pietra, la scagliò, e la pietra, urtando contro una rupe, ne fece uscire vive scintille che rivelarono al gran re l’esistenza del fuoco. Egli allora, su quel monte, accese una gran vampa e bevve del vino tutta quella notte, istituendo la festa del fuoco.
Il re Tahmûras. — Tahmûras fu il primo che addomesticò gli animali e li avvezzò a vivere con l’uomo, ridusse i galli e le galline a vivere nelle sue case perchè destassero gli uomini al mattino, e fu il primo che filasse la lana per farne le vestimenta. Aveva per ministro il pio Shêdâsp, e tanta era la sua maestà e potenza di re, che ogni giorno poneva la sella ad Ahrimane e lo costringeva a portarlo, come un destriero, per tutta la terra. Vinse in battaglia i Dêvi e li sterminò, e da quelli che egli risparmiò in vita, imparò l’arte mirabile della scrittura.
Il re Gemshîd. — Il re Gemshîd andò anche più avanti nella invenzione delle arti. Fabbricò le armi da guerra, filò e tessè la seta per farne vesti, divise gli uomini tutti in Sacerdoti, in Guerrieri, in Agricoltori, in Mercanti; aiutato dai Dêvi, fabbricò palazzi, torri e terme, trovò le pietre preziose, l’oro e l’argento, gli aromi e i profumi, l’arte della medicina e quella del navigare, istituì la festa del primo giorno dell’anno. Iddio stesso di tanto in tanto gli manifestava apertamente i suoi voleri e i suoi decreti.
Ma ben presto la superbia entrò nel suo cuore. Vedendosi solo signore di tutta la terra e autore di tante arti utili alla vita, osò dall’alto del suo trono, nella presenza dei principi e dei sacerdoti, proclamarsi Dio e creatore del mondo. Pronunciata appena l’empia parola, l’aureola luminosa che ricinge il capo dei re irani, visibile segno e simbolo della maestà reale, fuggì da lui, e il mondo intero cadde nello scompiglio e nella confusione. Più volte l’infelice domandò perdono a Dio della sua colpa, ma la maestà reale non gli fu più restituita.
Intanto viveva in Arabia l’empio Dahâk, il quale, datosi perdutamente al genio del male, aveva cooperato alla morte del padre suo, l’antico e virtuoso Mirdàs, aveva introdotto fra gli uomini l’uso del cibarsi di carni, dietro istigazione di Ahrimane, e aveva sugli omeri due serpenti natigli da due baci che Ahrimane stesso gli aveva impressi sulle spalle. Cibo degli orribili serpenti era soltanto di cervella umane, e Dahâk, per ammansarli, doveva ogni giorno toglier la vita a due infelici. Con queste opere crudeli, egli aveva acquistata una trista fama all’intorno, e gl’Irani, in quel tempo di scompiglio, ricorsero a lui perchè egli si facesse loro signore. Dahâk si tolse dai deserti d’Arabia, entrò nell’Iran e si diede alla caccia di Gemshîd che andò errando per cent’anni, finchè poi, preso sulle sponde del mare di Cina, fu fatto segare per il mezzo dall’empio tiranno.
Il re Dahâk. — Firdusi descrive il miserando stato dell’Iran sotto lo scettro di Dahâk. Ogni colpa, ogni opera trista, fu lecita allora, mentre ogni virtù era perseguitata. Ogni giorno due infelici erano immolati per cibarne con le cervella i due serpenti del crudo signore, finchè due giovani, Irmàil e Kermàil, sostituendo ogni giorno un agnello a uno dei due miseri e traendone le cervella, ne salvarono un buon numero, mandandoli nascostamente fuori della reggia al deserto. Dice la leggenda che questi, scampati da morte, furono i progenitori della stirpe bellicosa dei Curdi.
Il regno di Dahâk durò mille anni meno un giorno; ma quando non gli restavano più che quarant’anni, egli vide un terribile sogno. Gli parve che un giovane guerriero, con una clava in pugno dal capo di giovenca in lucido metallo, entrasse da lui, lo colpisse con quella clava e lo traesse incatenato fino al monte Demâvend. Gl’indovini chiamati in fretta non osano spiegargli il sogno; ma uno di essi, di nome Zìrek, all’udirne le terribili minaccie, gli predice che un giorno verrà con quella clava il giovane Frêdûn, discendente di Gemshîd, figlio di Abtìn, a ripigliarsi il regno de’ suoi padri. Egli avvincerà il tiranno nelle caverne del Demâvend per vendicar la morte del padre suo, che Dahâk aveva ucciso per nutrirne con le cervella i suoi serpenti. Da quel giorno Dahâk non ebbe più pace. Ma intanto Frêdûn era nato, e la madre sua, Frânek, per sottrarlo alle insidie del tiranno, lo aveva recato al monte Alburz e l’aveva consegnato ad un solitario abitatore di quei luoghi.
Ma poichè Dahâk non poteva trovar pace, un giorno egli domandò ai sacerdoti e ai principi suoi una dichiarazione per la quale si attestasse che egli non aveva mai offesa la giustizia. Già tutti apponevano il loro nome a quella carta menzognera, quando all’improvviso entrò nella presenza del re un uomo piangente e desolato. Quegli era Kâveh, il fabbro ferraio di Ispàhàn, che veniva a ridomandare al tiranno un figlio suo che gli sgherri reali gli avevano rapito. Il re gli fa rendere il figlio, purchè Kâveh apponga il nome suo a quella dichiarazione. Ma Kâveh, preso da giusta indignazione, lacera e calpesta quel foglio, e uscito dalla reggia, inalberando come vessillo di rivolta quel cuoio con cui si difendeva dal fuoco nel lavorare il ferro, raccoglie intorno a sè tutta la gente e con essa trae al monte Alburz per ricondurne il giovane Frêdûn, il legittimo signore dell’Iran, come discendente di Gemshîd.
Frêdûn, dato l’addio alla madre, discende dall’Alburz, passa il fiume Arvend (il Tigri), trova la reggia del tiranno, vi penetra abbattendone i talismani e si asside sul trono de’ suoi padri, accanto ad Ernevâz ed a Shehrnàz, sorelle di Gemshîd. Dahâk che era assente, avvertito dal suo fido Kundrev dell’ospite strano, accorre tosto, ma assalito da Frêdûn e atterrato dalla clava di lui, è poi tratto dal vincitore al Demâvend e là incatenato in una caverna.
Il re Frêdûn. — Frêdûn, diventato re, ordinò il regno cancellando le tracce del mal governo di Dahâk. Ebbe tre figli, tra i quali, dopo aver loro date in ispose le tre figlie di Serv re del Yemen, pensò di spartire l’ampio regno avito, che allora comprendeva tutta quanta la terra. Al maggiore, a Salm, egli destinò i regni d’occidente, a Tur il Turan e la Cina, a Erag’, che era il più piccolo, l’Iran, col privilegio di portar corona reale.
Ma i figli maggiori dichiararono ingiusta quella divisione. Si consigliarono lungamente, indi mandarono un messaggiero al padre per far loro rimostranze. Il vecchio re accolse con disdegno le parole superbe de’ suoi figli, e rispose ch’egli aveva osservate le leggi della giustizia. Erag’, allora, si propose di pacificare i fratelli; contro ogni desiderio del padre suo, partì dall’Iran e si recò presso di Tur e di Salm che l’accolsero con gioia apparente, ma col livore nell’animo. Che anzi, al giorno che seguì, Tur, mendicando pretesti, in un improvviso alterco col suo giovane fratello, essendo presente Salm, lo uccise scagliandogli al capo uno sgabello. Non paghi di ciò, i rei fratelli spiccarono il capo dell’infelice e lo mandarono a Frêdûn, rinchiuso in un’arca dorata.
Re Frêdûn cadde svenuto al suolo quando ebbe il crudele annunzio; ma ben tosto pensò alla vendetta. Da una fanciulla che fu già amata sposa dell’estinto Erag’, nacque una bambina. Questa, giunta ad età da marito, fu sposata a Pesheng, principe animoso, e frutto di questo matrimonio fu Minôcihr. Minôcihr fu educato da Frêdûn con ogni cura e quando fu al grado di portar le armi, il vecchio re già si preparava alla vendetta. Invano Salm e Tûr domandarono perdono al padre e inviarono doni. Frêdûn rispose che egli non ascoltava che il desiderio della vendetta e che essi dovevano ormai aspettarsi di veder Minôcihr, seguito da’ suoi principi e da tutte le sue schiere. Nel primo scontro le genti di Salm e di Tur ebbero la peggio, e Shîrûyeh cadde per mano di Ghershàsp. Tûr, disperato, tenta un assalto notturno, ma è ucciso da Minôcihr che gli tronca il capo. Intanto a prevenire che Salm si rifugiasse nella rocca degli Alàni, Kàren, con l’anello dell’ucciso Tûr, vi si reca e penetra fra quelle mura e distrugge il castello. Anche Kàkvi, nipote di Dahàk, accorso in aiuto di Salm, è ucciso da Minôcihr in battaglia, e Salm, inseguito da Minôcihr stesso, è da lui ucciso. La sua testa recisa, come quella già in prima di Tûr, è inviata a Frêdûn. Al vecchio re, ormai, non resta che di morire; egli perciò, dichiarato Minôcihr suo successore e postagli in capo la corona di re dei re, dopo averlo raccomandato a Sàm, valoroso principe del Segestân, si ritrae in luogo solitario a piangere sul fato acerbo de’ suoi tre figli e ad attendervi la morte. La morte non tarda molto, e Minôcihr dolente celebra con gran pompa i funerali del vecchio re.
Il re Minôcihr. — Il regno di Minôcihr è regno pacifico, e Firdusi ci narra le prime storie di una gran famiglia di eroi, principi del Segestân. Sàm, figlio di Nîrem o Nerîmân, principe del Segestân, ebbe un figlio che era nato coi capelli bianchi. Temendo che quello fosse un segno infausto di Ahrimane, egli fece esporre sul monte Alburz il fanciullo ancor lattante, che vi sarebbe perito, se il Sîmurgh, favoloso augello di quelle montagne, non l’avesse allevato nel suo nido. Ma un terribile sogno ammonisce il padre crudele e gli fa intendere che il figlio suo vive ancora. Sàm allora, recatosi al monte Alburz, vi ritrova il figlio suo che era cresciuto forte e robusto, e lo riconduce alla sua casa, indi alla reggia di Minôcihr, laddove l’oroscopo che se ne trae, predice le più belle cose sul suo conto. Ritornato al suo castello nel Segestân, Sàm fa educare con ogni cura il figlio suo, e un giorno che egli deve partir per la guerra, lo affida alla custodia dei suoi maestri.
Ma Zàl (poichè questo fu il nome del figlio di Sàm), aggirandosi per il paterno dominio, arriva un giorno alla terra di Kàbul, laddove abitava il principe Mihrâb. Della figlia di Mihrâb, della bella Rûdàbeh, Zàl s’innamora all’udirne solo parlare e Rûdàbeh s’invaghisce di lui al sentirne ricantar le lodi da Mihrâb. Alcune giovinette, mandate da Rûdàbeh a coglier rose là vicino alle tende di Zàl, entrano in colloquio con l’innamorato garzone e ne riportano le parole alla bella che attende ansiosa. I due amanti hanno più tardi un colloquio e si promettono eterna fede. Ma Mihrâb discende dall’empio Dahâk ed è idolatra, e ciò sarà grandissimo ostacolo all’unione dei due giovani. Sàm, interpellato da Zàl, resta incerto e perplesso, chiede consiglio ai sacerdoti e si reca alla corte di Minôcihr per cercarne consiglio e norma. Sindukht intanto, la madre della fanciulla, e Mihrâb vengono a conoscenza della nuova passione di essa; ma il re Minôcihr se ne mostra estremamente offeso e senza ascoltare alcuna parola di Sàm in proposito, gli ordina di portar le armi nel Kàbul e di sterminar tutta quanta la famiglia di Mihrâb, perchè discendente da Dahâk e idolatra.
Ma Zàl, costernato e con occhi lagrimosi, corre incontro al padre suo e lo dissuade dal portar le armi nel Kàbul. Sàm, vinto dalle preghiere e più dalla pietà, consegna a Zàl, per il re Minôcihr, una sua lettera in cui, ricordando le opere compiute da lui per il suo re (come l’impresa contro l’orribile dragone del fiume Keshef), si raccomanda alla clemenza reale per quel figlio suo, reso ormai infelice dal soverchio amore. Mentre Zàl parte con quella lettera, la regina Sindukht si reca da Sàm e ottiene da lui l’assenso alle nozze di Zàl con la bella sua figlia Rûdàbeh. Zàl, intanto, è giunto alla corte, e Minôcihr, non sapendo negar nulla al valoroso guerriero, sottopone Zàl alla prova di indovinar certi enigmi proposti dai sacerdoti. Superata felicemente la prova e mostrato anche il proprio valore negli esercizi guerreschi, Zàl è rimandato da Minôcihr al padre con l’assenso alle bramate nozze.
Le quali si celebrano con grandissima pompa e solennità nel Kàbul, donde Zàl conduce più tardi con sè la sua bella e giovane sposa. Frutto di questo connubio fortunato fu Rustem, che divenne poi il più grande eroe della Persia, il sostegno e l’aiuto potente de’ suoi re. Il parto di Rûdàbeh fu laboriosissimo, e l’augello Sîmurgh, l’antico protettore della casa di Sàm, dovette accorrere dall’Alburz e aiutar quel parto suggerendo al desolato padre un’operazione chirurgica per estrar l’infante dall’alvo materno. Ma il fanciullo crebbe rapidamente forte e robusto, bello e aitante della persona, e sua prima impresa fu quella di uccidere un terribile elefante bianco cbe, sciolto da’ suoi ceppi, correva furibondo per i giardini di Zàl. Prese egli ancora la rocca del Sipend, per vendicar la morte del proavo suo Nîrem, ucciso sotto quelle mura, penetrandovi con una carovana sotto le vesti di un mercante di sale, e sterminandone di notte tutti gli abitatori.
Ma ormai è giunto l’ultimo giorno di Minôcihr. Il piissimo re, dopo aver dati savi ammonimenti e consigli al figlio suo Nevdher, muore placidamente, compianto da tutti.
Il re Nevdher. — Il re Nevdher poco trae profitto dai consigli del padre suo. Mangiare, bere e dormire sono le sue gradite occupazioni; gl’Irani ne sono altamente scandalizzati, e Sàm, invitato dal re dal Segestân, soffoca un principio di ribellione e con savi consigli riconduce il fuorviato re sul diritto sentiero. Ma di ciò si ha qualche sentore nel paese dei Turani, laddove pur vive il fiero Pesheng, figlio di Zàdshem e discendente di Tûr che fu ucciso da Minôcihr. Egli ricorda le antiche offese e manda un esercito nell’Iran, guidato dal suo superbo e tracotante figlio, Afrâsyâb. Le sorti della guerra non sono favorevoli agli Irani; muore il prode Kobâd ucciso dal turanio Bàrmàn, e in una seconda battaglia Nevdher è sconfitto. A un terzo scontro, il re degl’Irani è vinto ancora e trova rifugio nel Dehistân. Di là egli vorrebbe ritornare in Persia, dov’è la sua residenza reale, ma nell’andare è catturato da Afrâsyâb. Invece, un esercito di Turani, mandato da Afrâsyâb contro di Zàl nel Segestân, è sconfitto e cacciato, dopo aver perduti i suoi capitani, Shemàsàs e Khazarvân. La notizia di ciò accende di tale sdegno il feroce Afrâsyâb, che, per farne vendetta, egli si fa strascinar dinanzi carico di ceppi Nevdher infelice e gli recide il capo di propria mano. Nè egli si appaga di ciò; ma, udendo che il fratel suo Ighrêras ha liberati alcuni prigionieri irani rinchiusi in Sàri, dopo averlo assalito con acerbi rimproveri, lo trafigge nel petto con la spada.
Zàl, udita con orrore la morte di Nevdher, cerca un nuovo re in un principe di nascita reale, e la sua scelta cade sopra di Zav figlio di Tahmasp, della discendenza di Frêdûn.
Il re Zav. — Il regno di Zav fu breve, ma in compenso fu fecondo di una pace coi Turani. Una lunga siccità afflisse l’Iran e il Turan, e questa determinò l’una e l’altra gente a stabilire un confine fra i due regni. Questo fu il fiume Gìhûn, l’Osso degli Antichi. Fatta la pace, piovve nell’uno e nell’altro regno, e la terra si rivestì d’erbe e di fiori.
Il re Ghershâsp. — Ghershâsp, figlio di Zav, ebbe un regno breve. Egli morì quando appunto il fiero Afrâsyâb, udita la morte di Zav, ripigliava le armi per entrare nell’Iran.
Ma intanto è giunto il momento per Rustem di prender le armi per la sua terra natia. Zàl gli consegna la famosa clava dell’avo suo, Sàm, ed egli si cerca un destriero fra le mandre di cavalli del padre suo. Rakhsh è un leggiadro e nobile puledro pomellato che in avvenire sarà il compagno fedele del grande eroe in tutte le sue imprese. Ma perchè bisognava che un nuovo re, saggio e gagliardo, salisse sul trono vacante dell’Iran, così Rustem è mandato dal padre suo al monte Alburz, a rintracciarvi il giovane principe Kobâd, della discendenza di Frêdûn, che abitava quelle valli solitarie. Rustem, superando e vincendo le vedette dei Turani, si reca all’Alburz, laddove egli s’incontra in un giovane principe, in mezzo ad una bella compagnia di eroi, che lo invita a discendere e a bere con lui un nappo di vino. Il giovane signore, udendo da Rustem ch’egli va in cerca di Kobâd, si rivela appunto per quello ch’egli va cercando, e Rustem per primo lo saluta re dell’Iran. I due eroi, quella sera stessa, si pongono in via, e, superate le vedette dei Turani non senza una forte scaramuccia, discendono nell’Iran.
Il re Kobâd. — Col re Kobâd sottentra all’antecedente dinastia dei Pèshdàd quella dei Kay. Una tremenda battaglia fra Irani e Turani, nella quale Rustem dà inaudite prove di valore atterrando Afrâsyâb e togliendogli dal capo la corona, determina lo stesso Afrâsyâb a supplicare il padre suo Pesheng, perchè domandi la pace. La pace, infatti, è richiesta da Pesheng e concessa da Kobâd, ritornando all’antica divisione del regno, quale un giorno il re Frêdûn aveva stabilita. Kobâd, intanto, dopo aver designato re il figlio suo maggiore, Kâvus, muore placido e contento.
Il re Kâvus. — Kâvus fu re presuntuoso e superbo. Avendo udito un giorno descrivere da un Dêvo, trasformato in cantore, la bella e ubertosa provincia del Mâzenderàn, concepisce nell’animo il desiderio di farne la conquista, nè valgono a distoglierlo dal suo proposito le rimostranze de’ suoi principi nè quelle di Zàl, accorso appositamente dal Segestàn. Il Màzenderàn era abitato dai Dêvi, e nessuno degli antichi re ne aveva tentata la conquista.
Kâvus adunque, disprezzando ogni consiglio, raduna le schiere ed esce in campo contro il Mâzenderàn, e il re di quel paese già si prepara a difendersi e ricorre perciò al temuto Dêvo Bianco che abitava sui monti in una tenebrosa caverna. Kâvus pone gli accampamenti in quella terra straniera; ma, al cader della sera, levasi un denso nebbione, e il Dêvo Bianco e gli altri Dêvi incatenano e accecano l’infelice con tutto il suo esercito. Morir di fame e d’angoscia è la sorte che attende i prigionieri; e ciò si sarebbe avverato, se un guerriero iranio, scampato per caso ai ceppi dei Dêvi, non avesse recato a Zàl e a Rustem la dolorosa novella. Rustem accorrerà volenteroso a liberare il suo re. Dato l’addio al padre e alla madre desolata, si mette per una via piena di pericoli, ma più breve. È questa la via delle sette avventure, e Rustem vi incontra un fiero leone che Rakhsh, il suo fedel destriero, gli uccide, supera arso dalla sete un immenso deserto, uccide un dragone, uccide una maga, fa prigioniero Eulàd e se lo conduce seco perchè lo guidi al Mâzenderàn, uccide il Dêvo Arzheng e finalmente, dopo un’accanita lotta, uccide nella sua caverna il Dêvo Bianco, gli strappa il fegato e il cuore e con le stille del sangue spremute dal fegato rende la vista a re Kâvus e a tutti gl’Irani e loro discioglie i ceppi. Rustem va come messaggiero dal re del Mâzenderàn che ricusa di arrendersi, e allora s’impegna fra gl’Irani e i Dêvi una terribile battaglia nella quale il re del Mâzenderàn è ucciso da Rustem. Sterminati i Dêvi, quella terra è data in feudo a Eulàd in premio d’aver guidato Rustem; Kâvus ritorna trionfante nell’Iran, e Rustem si rende carico di doni nel Segestân.
Seguono le guerre del re Kâvus coi re dei Berberi, d’Egitto, d’Hâmâverân (forse la Siria). Il re Kâvus s’invaghisce della bella Sûdâbeh figlia del re d’Hâmâverân e la ottiene dal padre come pegno di pace. Ma quel re che non aveva acconsentito di buon animo a quelle nozze, in un banchetto fa caricar di ceppi Kâvus e i suoi principi, li fa gettare in un oscuro carcere e manda con re Kâvus la sua stessa figlia Sûdâbeh.
Afrâsyâb allora solleva nuovamente il capo dal Turan ed entra nell’Iran. Gl’Irani si rivolgono a Rustem che accorre tosto dal Segestân, vince il re d’Hâmâverân in due battaglie, libera Kâvus co’ suoi principi, lo riconduce nell’Iran, laddove egli vince Afrâsyâb e lo costringe a fuggire.
Ma il presuntuoso re dà alcuni segni di pazzia. Egli si fa costruire dai Dêvi un magnifico palazzo sull’Alburz, indi dai Dêvi ingannatori che volevano vendicarsi del duro lavoro a cui il re li sottometteva, si lascia persuadere a salire al cielo. Lo stolto re si fa costruire un trono, ai quattro spigoli del quale egli fa avvincere quattro aquile. Le aquile agevolmente lo trasportano in alto, ma poi, al sopravvenir della fame nei fieri augelli, essi precipitano dall’alto e il re cade in una selva in vicinanza di Amol. Sopravvengono scandalizzati i principi irani e con acerbi rimproveri riconducono alla sua residenza il loro re.
Segue nel poema un racconto particolare e come staccato dal resto. — Rustem con sette eroi si reca alla caccia sulle sponde del fiume Shehd. Dopo i sollazzi della caccia, vengono il pasto degli eroi e il loro bere profuso, finchè, dietro proposta di Ghêv, essi entrano nei parchi di Afrâsyâb a farvi romorosa caccia. Ma Afrâsyâb, irritato e offeso, accorre con tutti i suoi, e s’impegna una terribile battaglia, nella quale cadono dalla parte di Afrâsyâb i suoi più valorosi, ed egli, cacciato da Rustem, si ritrae scornato e confuso nella sua terra.
Ma poi, un bel mattino, Rustem si reca alla sua caccia prediletta nei campi di Semengàn, laddove, dopo aver atterrato e arrostito un onagro per farsene cibo, egli si addormenta. Sopravvengono alcuni ladroni Turani che gl’involano il suo Rakhsh. L’eroe, destatosi, ne segue le orme fino alla città di Semengàn, laddove egli è ospitato con grandissimo onore da quel re, che gli fa restituire l’involato destriero.
Ma la figlia del re, la bella Tehmîneh, che già amava Rustem al solo sentirne celebrar le lodi, si reca la notte da lui e gli dichiara il proprio amore. Al giorno appresso, un sacerdote chiede in nome di Rustem la bella fanciulla al padre, che lieto e beato ne celebra le nozze in quel giorno stesso. Frutto di questo amore fu il giovane Sohrâb che crebbe presso la madre sua in Semengàn; Rustem, nel giorno stesso che seguì alle nozze, era partito, nè aveva mai veduto questo suo figlio. Ma Sohràb, giunto al sedicesimo anno, saputo chi era il padre suo, si propone di discendere nell’Iran per rintracciarlo, per rovesciare il re Kâvus dal trono e porvi in sua vece il padre. Perciò egli si trova un cavallo, si procaccia le armi, e mentre Tehmîneh non vorrebbe lasciarlo partire, Afrâsyâb, per suoi secondi fini, seconda il pazzo disegno del giovane e lo soccorre di armi e di armati.
Sohrâb arriva alla Rocca Bianca, sui confini dell’Iran, prende quel castello e v’entra con tutti i suoi. Ma il vecchio Ghezdehem che ne era il custode, quella sera stessa, prima che Sohrâb espugnasse il castello, aveva spedito un corriero a re Kâvus dipingendogli lo straordinario valore del giovane guerriero, indi, con tutti i suoi, per una porta secreta era uscito dal castello, cosicchè, quando Sohrâb vi entrò, lo trovò deserto e abbandonato. Il re Kâvus, spaventato a quella notizia, manda Ghêv nel Segestân a chieder soccorso a Rustem. Ma Rustem ha tristi presentimenti, e quasi quasi indovina che quel giovane gagliardo è il figlio suo. Egli perciò s’indugia e lascia a malincuore il castello paterno per recarsi nell’Iran. Kâvus lo accoglie con acerbi rimproveri per il lungo ritardo, e Rustem, offeso, già sta per abbandonar la reggia e ritornarsi al suo castello, quando Gûderz con le preghiere e coi consigli ricompone il litigio, e Rustem si prepara con re Kâvus alla guerra.
Gli accampamenti nemici stanno omai di fronte, e Sohrâb dall’alto di un collicello dal quale si vede tutto il campo degl’Irani, domanda ripetutamente a Hegîr ch’egli aveva fatto prigioniero, qualche indizio di Rustem fra tanti eroi ch’egli vede nel piano. Ma Hegîr, per timore che Sohrâb non vinca Rustem e non privi l’Iran del suo più valido sostegno, non se ne dà per inteso e mostra perfino di ignorare chi sia Rustem. Sohrâb, preso da impazienza, veste le armi, discende al piano, entra minaccioso nel campo degl’Irani e atterra per metà la tenda di Kâvus. Kâvus manda a chiamar Rustem in fretta, e Rustem e Sohrâb, senza conoscersi, si trovano ora a fronte l’uno dell’alto.
Il combattimento si fa a più riprese, e Rustem si sente inferiore dinanzi al terribile avversario. Sohrâb già crede di veder nel nobile guerriero il padre suo, e domanda ripetutamente s’egli è Rustem; ma Rustem nega insistentemente. Che anzi, al giorno appresso, egli ritorna al combattimento con rinnovato ardore e in disperato assalto trafigge il giovane suo nemico.
Sohrâb, appena caduto, grida ad alta voce che Rustem, il padre suo, vendicherà la sua morte, e Rustem, colpito a quelle parole, domanda al ferito s’egli ha nessun contrassegno. Sohrâb gli fa aprir la tunica e gli mostra un monile ch’egli recava al braccio, nascosto sotto la veste. Quel monile era già stato dato a Tehmîneh da Rustem la sera delle sue nozze e doveva servir di tessera di riconoscimento per il figlio suo. Il misero padre, nell’estremo dolore, fa chiedere un balsamo portentoso a re Kâvus, ma Kâvus ingelosito glielo nega, e Sohrâb muore poco stante. Col dolore del misero padre che reca nel Segestân la bara dell’estinto, e con la disperazione della madre lontana, termina la commoventissima leggenda.
Intanto Tûs e Ghêv, usciti un mattino alla caccia, trovano nei boschi una leggiadra fanciulla della discendenza di Garsîvez principe turanio. Ambedue se ne invaghiscono, contendono per essa, e finalmente, recatisi alla presenza di re Kàvus, lo pregano di decider quella contesa. Ma Kàvus, preso anch’egli d’improvviso amore per la fanciulla, la ritiene per sè e la fa sua sposa. Frutto di questo connubio fu Siyâvish che è affidato a Rustem perchè l’educhi nel Segestân. Rustem compie con amore e con zelo il nobile ufficio: indi riconduce al padre il giovinetto, adorno d’ogni bella virtù.
Ma di lui, al vederlo un giorno presso il padre, s’invaghisce perdutamente la regina Sûdâbeh. Ella lo invita più volte a sè, cerca di vincerlo con mille arti: ma poichè Siyâvish resiste fermamente al colpevole amore, ella lo accusa presso il re d’aver tentato di oltraggiarla. Il re è dubbioso dapprima, nè sa decidersi a creder colpevole il figlio suo: ma poi, aggirato dallo arti di Sûdâbeh, dietro consiglio degl’indovini, propone a Siyâvish e a Sûdâbeh la prova del fuoco. Siyâvish si sottomette volentieri: e tosto in un campo aperto, alla presenza del re e della corte, egli passa illeso fra due cataste infiammate, mentre Sûdâbeh dall’alto di un terrazzo scaglia indarno su di lui le suo imprecazioni. Essa però dallo sdegnato re è condannata a morte e liberata soltanto dalle preghiere di Siyâvish.
Ma Siyâvish, dopo ciò ch’è avvenuto, non può più restare nella casa paterna senza pericolo: e poichè Afrâsyâb minaccia nuovamente dal Turan, chiede e ottiene dal padre di essere mandato alla guerra. Egli parte con un esercito e prende la città di Balkh e ne dà avviso al padre suo che riceve con gioia il fausto annunzio. Ma Afrâsyâb, spaventato una notte da un terribile sogno, chiede improvvisamente la pace mandando ostaggi e offrendo condizioni vantaggiosissime. Siyâvish accetta la proposta, conchiude la pace, riserbandosi di farla ratificare dal re, al qual fine parte dal campo Rustem medesimo con una lettera di lui. Ma Kâvus accoglie con aspri rabbuffi e con maligne accuse il prode guerriero che ritorna sdegnato nel Segestân, e per lettera ordina a Siyâvish o di proseguir la guerra o di venire da lui a chieder perdono e a scolparsi, consegnando le schiere a Tûs, latore del messaggio reale.
Siyâvish allora, non volendo mancare alla data fede nè presentarsi dinanzi al padre come colpevole, consigliatosi con Behràm e con Zengheh, suoi intimi amici, si determina a domandar asilo presso di Afrâsyâb. Afrâsyâb accoglie con giubilo l’inattesa domanda, e il giovane infelice, partecipato per lettera al padre questo suo divisamento, si reca alla reggia del principe del Turan, accoltovi con grandissimo onore. Egli è tosto invitato agli esercizi della palestra, alla caccia, a ogni specie di sollazzi, e dovunque egli si guadagna gli animi di tutti per il suo valore e per la sua modestia. Pîrân, principe di Khoten, l’intimo consigliere di Afrâsyâb, gli dà in isposa la propria figlia, la leggiadra Gerîreh; indi, per raffermar meglio Afrâsyâb nell’amore per il giovane iranio, propone e ottiene che Afrâsyâb stesso gli dia in isposa la figlia sua Ferenghîs. Celebrate le nozze con grandissima pompa, Afrâsyâb assegna a Siyâvish una parte del suo dominio, laddove egli fabbrica una splendida città, di nome Kang-dizh, alla quale ne tien dietro un’altra che, dal nome del fondatore, viene appellata Siyâvish-ghird.
Intanto Garsîvez è mandato da Afrâsyâb a Kang-dizh. Ma Garsîvez è invidioso della gloria di Siyâvish; a Kang-dizh, nei giuochi della palestra, già egli mostra il suo mal animo contro il giovane principe, e tosto, appena tornato da Afrâsyâb, glielo dipinge come colui che è soverchiamente potente e che desidera impadronirsi del Turan, mantenendo pur sempre con Kâvus; intorno a ciò, un carteggio clandestino. Afrâsyâb non vorrebbe credere; tuttavia, per conoscer meglio il vero, manda nuovamente Garsîvez a Kang-dizh per invitar Siyâvish alla corte. Garsîvez questa volta dipinge a Siyâvish come a lui nemico il principe Turanio; si guardi perciò dal cedere all’invito di andare in corte, scusandosi con la mal ferma salute di Ferenghîs. Il giovane principe cade nell’inganno, e Garsîvez, latore di una sua lettera ad Afrâsyâb, gli fa intendere che Siyâvish è un ribelle, che il poter suo è pericoloso per il Turan, che segno di sua perfidia è il rifiuto di recarsi in corte.
Un sogno spaventoso fa consapevole Siyâvish del suo pericolo. Destatosi al mattino, egli manifesta l’estrema sua volontà a Ferenghîs, le raccomanda il figlio suo che presto nascerà da lei, e le dà l’ultimo addio. Uscite dalla reggia armato e con armati, ecco ch’egli s’incontra in Afrâsyâb sopravvenuto all’improvviso con le sue schiere. Garsîvez getta la maschera e grida a Siyâvish che quel suo presentarsi ad Afrâsyâb con armi e con armati è manifesto segno di ribellione. Gli Irani che sono ancora con Siyâvish, vorrebbero combattere, ma egli si lascia prendere senza resistenza. Tratto in carcere, Afrâsyâb, ancora titubante per poco, ma poi vinto dai perfidi consigli di Garsîvez, non ascoltando i pianti e le preghiere di Ferenghîs, lo condanna a morte e lo fa decapitare in un piano deserto. La stessa Ferenghîs non sarebbe sfuggita alla stessa sorte, se Pîrân, accorrendo all’improvviso dal Khoten, facendo osservare ad Afrâsyâb che presto essà sarà madre, non l’avesse salvata, benchè a stento, e non l’avesse condotta con sè nel Khoten.
Una notte, Pîrân vede in sogno l’anima di Siyâvish che gli annunzia esser nato il figlio suo. Accorre egli al letto di Ferenghîs, e là egli ritrova già nato il piccolo Khusrev, figlio postumo di Siyâvish, con manifesti i segni dell’alto suo nascimento. Ma Afrâsyâb, udito quell’annunzio, si ricorda che gli era stato predetto che la morte gli sarebbe venuta da un figlio che sarebbe disceso dalle due case regnanti del Turan e dell’Iran, e perciò vorrebbe far morire il pargoletto. Vinto però dalle preghiere di Pîrân, lo fa nascondere con la madre presso alcuni rozzi pastori del monte Kalv, laddove egli non doveva saper nulla del suo nascimento reale.
Firdusi, a questo punto, interrompe per poco il suo racconto per lagnarsi della sua grave età e per chiedere a Dio di poter compiere il Libro dei Re.
Intesasi nell’Iran la morte di Siyâvish, un tardo dolore e un tardo pentimento prendono gli animi di tutti, e Rustem, accorso improvvisamente dal Segestân, sotto gli occhi stessi di re Kâvus, senza che egli osi far motto, uccide l’empia Sûdâbeh, cagione di tanta sventura. Egli poi, col figlio suo Ferâmurz, mena un esercito nel Turan; Veràzàd, principe del Sipengiàb, cade per il primo, e Afrâsyâb manda tosto il figlio suo, Surkheh, che è preso e poi ucciso da Rustem. Afrâsyâb, per vendicare il figlio suo, accorre con grande esercito, ma poi, dopo aver visto cadere Pîlsem ucciso da Rustem, prende vergognosamente la fuga. Giunto in luogo sicuro, egli interna nel Khoten il piccolo Khusrev, figlio di Siyâvish, mentre Rustem va devastando il Turan, finchè poi, per non lasciare senza difesa il suo re, egli con tutti i suoi ritorna nell’Iran.
Il re Khusrev. — Il vecchio Gûderz intanto, una notte, vede un sogno, nel quale gli si rivela il luogo dove sta nascosto il piccolo Khusrev. Desto al mattino e raccontato il sogno, egli invia nel Turan il figlio suo Ghêv alla ricerca del giovane principe; e Ghêv si aggira per sette anni nel Turan domandando notizie, ma invano, di chi egli va cercando, finchè un giorno, vicino ad una fontana, si imbatte in un garzoncello che lo chiama per nome. Quel garzoncello è Khusrev, al quale la madre Ferenghîs aveva annunziato, dietro predizione di Siyâvish, che Ghêv sarebbe venuto a rintracciarlo. Ghêv si prostra al suolo adorando Iddio e ossequiando il suo re; Khusrev rintraccia nelle selve il destriero di Siyâvish, di nome Bihzàd, indi, con Ghêv e con la madre sua, si mette in via per l’Iran.
Sparsasi la notizia di ciò per le città del Turan, prima Kelbàd e Nestîhen, poi Pîrân stesso che combatte con Ghêv ed è rimandato da lui, carico di catene, nel Turan, e finalmente lo stesso Afrâsyâb, inseguono invano i fuggitivi. Essi passano il Gìhûn e sono in salvo nell’Iran, laddove Gûderz muove loro incontro e li conduce in Ispàhàn. Di là essi vanno con Gûderz ad Istakhar (Persepoli), residenza di re Kâvus. Ricevute le accoglienze del re, suo avo, Khusrev trova tuttavia in Ferîburz e in Tûs due avversari. Essi non vogliono riconoscere in Khusrev il diritto di successione nel regno, perchè, benchè figlio di Siyâvish, egli ha tuttavia per madre una figlia di Afrâsyâb; aver perciò maggior diritto al regno Ferîburz, come figlio di Kâvus, oppure Tûs, figlio di Nevdher e nipote di Minôcihr. Sorge a difendere Khusrev Gûderz, e già la disputa degenera in aspra contesa, e già i due avversari stanno per venire alle mani, quando il re Kâvus propone che tanto Tûs e Ferîburz, quanto Khusrev, vadano alla rocca di Behmen abitata dai demoni; chi potrà espugnarla, sarà riguardato come designato dal cielo a salire al trono. Tûs e Ferîburz primi si recano al luogo incantato; ma la terra arde e traballa sotto i loro piedi; essi si aggirano per sette giorni intorno a quelle mura, nè arrivano a scoprirne la porta, ond’è che essi, confusi e scornati, ritornano nell’Iran. Tocca allora a Khusrev, il quale, arrivato con Ghêv sotto alle mura di Behmen, ordina a questo prode guerriero di recare confìtto su di una lancia un suo foglio col quale egli disfida tutti i Dêvi. Appena Ghêv ha portata la lancia sotto quelle mura, ecco che la rocca con orribile fragore sparisce. Khusrev, ritornato vittorioso nell’Iran, dopo aver ricevute le scuse di Tûs, è fatto seder sul trono da re Kâvus, festante e lieto, e insignito da lui della corona reale. Zàl e Rustem intanto vengono dal Segestân a rendergli omaggio.
Allora, tutti gli eroi radunati dinanzi a Kâvus e a Khusrev giurano di vendicar la morte di Siyâvish, e Khusrev ne fa la lunga rassegna. Tûs è designato capo della spedizione; egli parta adunque pel Turan con tutto l’esercito, ma non passi presso la rocca di Kelàt, perchè là trovasi il giovane Firûd, figlio di Siyâvish e di Gerîreh, e però fratello di Khusrev per parte di padre.
Tûs così se ne va, ma perchè egli ancora nutre nell’animo qualche rancore contro di Khusrev, non si perita punto di trasgredirne gli ordini e passa a bella posta per la via che mena a Kelàt. Nel castello di Kelàt abita con la madre il giovane Firûd, il quale, udito che dall’Iran viene un esercito, sale con l’amico Tokhàr sopra un monte per veder le schiere amiche ancora da lontano, desideroso egli pure di prendere le armi col fratello per vendicar la morte del padre suo. Ma Tûs, che vede i due, a lui ignoti, su quell’altura, manda Behràm a domandar chi sono. Behràm sale al monte e con molta gioia apprende che il giovane guerriero è Firûd. Riferito cotesto a Tûs, egli, impermalito, comanda che gli si porti la recisa testa di quel turanio, a lui ignoto. Vanno Rêvnîz e Zerasp e ambedue sono uccisi da Firûd; va lo stesso Tûs, ma, perduto il destriero colpito da una freccia di Firûd, ritorna confuso e irritato. La stessa sorte tocca a Ghêv, e soltanto Bîzhen costringe Firûd a fuggire nel castello. In una battaglia Firûd è vinto e ucciso, la rocca di Kêlat è presa da Tûs, e Gerîreh, perduto l’unico suo figlio, con tutte le ancelle si dà volontaria morte. Gl’Irani allora troppo tardi s’accorgono del fallo commesso.
L’esercito degl’Irani da Kêlat discende al fiume Kàseh; un’orribile tempesta di neve pone tutti alla distretta, e la via è sbarrata da una montagna di legni ivi innalzata da Afrâsyâb. Ghêv però appicca il fuoco a quella montagna e passa innanzi per la via di Ghirev-ghird. In Ghirev-ghird abitava Tezhâv, principe turanio, il quale, udito del venir degl’Irani, lascia il castello e fugge con la bella Isnapûy ch’egli poi abbandona a mezzo la via, per darne l’avviso ad Afrâsyâb. Afrâsyâb manda Pîrân con un esercito, e in un assalto notturno gl’Irani hanno la peggio. È questa la terribile battaglia di Peshen, nella quale morirono più di settanta figli e nipoti di Gûderz. Khusrev, allora, richiama Tûs dal comando, lo accoglie con ira e con rabbuffi e lo pone in carcere carico di ceppi e dà il comando a Ferîburz.
Ma anche con Ferîburz la guerra procede molto infelicemente per gl’Irani; in una battaglia con Pîrân essi hanno la peggio e per colmo di sventura, il prode Behràm, recatosi la notte nel campo della battaglia a cercarvi una sua sferza, è ucciso a tradimento da Tezhâv. Ghêv, sopraggiunto, punisce di morte il traditore, e Ferîburz avvilito e scorato ritorna nell’Iran con l’esercito.
Allora, per intercessione di Rustem, Tûs è liberato da Khusrev e mandato con nuovo esercito contro i Turani. Seguono alcune battaglie nelle quali splende soltanto qualche atto di valore; ma, alla fine, vinti anche da un orribile inverno che i Turani avevano suscitato per forza di magia, gl’Irani hanno la peggio ancora e si ritirano sul monte Hamàven laddove Pîrân li stringe di assedio. Gli assediati tentano invano un assalto notturno; e già la fame si fa sentire terribilmente fra loro. Khusrev non trova altro espediente che di mandare in loro aiuto Rustem e Ferîburz, e Rustem vi si accinge volentieri, ma, per confermar vieppiù l’animo di Ferîburz, prima di partire fa in modo che egli sposi Ferenghîs, la vedova infelice di Siyâvish, da lui amata. Intanto, l’ombra di Siyâvish, apparsa in sogno a Tûs, gli dà l’annunzio di un vicino trionfo.
Afrâsyâb frattanto ha mandato il principe di Cina in aiuto di Pîrân, e gl’Irani si consigliano sul da farsi, quando una vedetta loro annunzia d’aver visto da lontano un esercito amico che si avvicina. È quello l’esercito di Ferîburz che arriva al monte Hamàven, precedendo di poco Rustem. Una vedetta, infatti, ne annunzia una notte la venuta, e il prode guerriero è ricevuto dai miseri con lagrime di gioia. Gl’Irani e i Turani si preparano, il giorno appresso, alla battaglia, e Rustem che disceso in campo uccide con una freccia il turanio Eshkebûs che sfidava gl’Irani, mette lo spavento nel campo dei Turani che guardano stupiti e costernati la poderosa freccia di lui che somiglia ad una lancia. Kâmùs intanto, un guerriero di Kashân accorso in aiuto di Afrâsyâb, chiesto a Pîrân indizio di Rustem, discende a sfidarlo in campo e uccide il giovane Elvà che soleva accompagnar sempre Rustem e reggergli la lancia. Rustem accorre per vendicar l’amico, fa prigioniero Kâmùs e l’uccide.
Il principe di Cina vorrebbe ora sapere chi sia l’incognito guerriero che dà sì tremende prove di valore, e Cinghish, uno de’ suoi, mostrasi pronto a sfidarlo. Ma anche Cinghish è ucciso da Rustem, e Pîrân altro non sa fare che mandare il fratel suo Hùmân a chiedere se quello è Rustem veramente. Rustem dichiara che non dirà il nomo suo che a Pîrân, al quale, anzi, desidera di parlare anche a nome di re Khusrev; domanda perciò un colloquio con lui. Pîrân si reca da lui; e Rustem gli reca mille saluti e benedizioni da parte di Khusrev per il quale Pîrân ha fatto tanto, e gli offre, sempre in nome del suo re, asilo e protezione nell’Iran. Khusrev poi, egli soggiunge, cesserà dalla guerra solo allorquando gli saranno consegnati gli autori della morte di Siyâvish, Afrâsyâb cioè e Garsîvez e i loro congiunti. Pîrân intende la dura necessità e non sa che rispondere; ma quanto a lui, come potrebbe viver tranquillo nell’Iran laddove si troverebbe con Gûderz, i cui valorosi figli furono tutti uccisi nella battaglia di Peshen o da lui o da’ suoi congiunti? Egli adunque non può che ricusare l’offerta di re Khusrev.
Pîrân così ritorna al campo, e i Turani più che mai si ostinano nel voler la battaglia, mentre Rustem dall’altra parte esorta i suoi a diportarsi da valorosi. S’impegna allora una nuova battaglia, nella quale cadono per mano di Rustem molti prodi Turani, come Shengul, Sâveh e Kahàr Kahàni; lo stesso principe di Cina cade prigioniero nelle mani di lui, e i Turani sono interamente sconfitti. Rustem invia lettere e doni a re Khusrev per annunziargli la sua vittoria, e Khusrev gli manda in premio ricchissimi doni accompagnati da una lettera.
Giunto Ferîburz latore di quella lettera e di quei doni, Rustem prosegue il suo viaggio vittorioso e prende la città dell’ingiustizia in cui abitava Kàfûr l’antropofago. Ma Afrâsyâb che ha udito le vittorie di lui e ha saputo ch’egli si avvicina, si prepara nuovamente alla guerra e chiama in aiuto il principe Pùlàdvend. Ma anche con Pùlàdvend i Turani sono vinti, e Afrâsyâb fugge nuovamente e più lontano. Rustem e Tûs ritornano nell’Iran.
Un giorno che re Khusrev sedeva co’ suoi principi a bere in un giardino, ecco che arriva trafelato un povero pastore che chiede soccorso perchè un onagro ardimentoso disperde e mette in fuga le sue puledre. Quell’onagro non è altri che il Dêvo Akvân, e re Khusrev se ne avvede ben tosto. Rustem è richiamato dal Segestân per la novella impresa; Afrâsyâb, giunto improvvisamente in quei paschi solitari, è messo in fuga da Rustem e il Dêvo Akvân è messo a morte. Il prode guerriero ritorna al suo castello, carico di doni.
Intanto, alcuni poveri abitanti d’Irmân vengono a chieder soccorso perchè un branco di feroci cinghiali devasta tutti i loro campi. Khusrev promette ricchissimi doni a chi andrà a quella impresa, ma tutti i principi presenti si ricusano, eccetto il giovane Bîzhen, figlio di Ghêv. Egli andrà, benchè contro la voglia del padre, e gli sarà compagno Gurghîn, figlio di Mìlàd. Arrivato Bîzhen a quei luoghi d’Irmân, mena orribile strage dei cinghiali; ma Gurghîn che è testimone del valore di lui e ne concepisce secreta invidia, cerca modo di perderlo. Dettogli pertanto che in quei luoghi suol venire a celebrar la festa della primavera una bella compagnia di vaghe fanciulle del Turan, egli lo persuade ad inoltrarsi nella selva; e Bîzhen si adorna delle vesti sue più belle e va, finchè gli si mostra in un prato un’accolta di bellissime giovinette. A capo di esse sta Menîzheh, la figlia di Afrâsyâb, la quale, avendo visto dalla sua tenda quel vago garzone, manda la nutrice sua ad invitarlo. Bîzhen è accolto nella tenda con grandissima festa; Menîzheh s’invaghisce di lui e pensa rapirlo; datagli perciò una sonnifera bevanda, Bîzhen si addormenta e dalle fanciulle è trasportato celatamente in un palanchino, coperto da un velo, nelle stanze di Menîzheh, nel palazzo stesso di Afrâsyâb.
Ma tosto se ne dà avviso al padre e Garsîvez è mandato a sorprendere il creduto seduttore. Garsîvez circonda il palazzo, entra a forza nelle stanze di Menîzheh laddove essa, con trecento ancelle, in compagnia di Bîzhen, celebrava una festa. Bîzhen che vorrebbe resistere, è preso e condotto al cospetto di Afrâsyâb che lo condanna ad essere appeso. Già si rizza il tristo legno del supplizio, quando giunge all’improvviso il nobile Pîrân che fa sospendere l’esecuzione della condanna e domanda e ottiene da Afrâsyâb la vita dell’infelice. Egli però è condannato dal fiero principe ad essere rinchiuso, carico di ceppi, in un orrido speco fra montagne inaccessibili. L’apertura dello speco dovrà essere rinchiusa con l’immane pietra che chiudeva già la caverna del Dêvo Arzheng. Menîzheh intanto, discacciata dal padre, va limosinando per le ville per provvedere di uno scarso cibo il proprio amante imprigionato.
Gurghîn, intanto, ritornato solo nell’Iran, non sa render conto del suo compagno; i suoi discorsi confusi e incerti lo tradiscono, e Khusrev lo fa rinchiudere in carcere. Non sapendosi però in qual parte della terra sia nascosto Bîzhen infelice, re Khusrev, dietro preghiere del desolato padre di lui, con grandissima pompa e solennità si pone ad osservare una sua miracolosa coppa nella quale si vedono manifesti tutti i secreti del mondo. E infatti, nella coppa, si vede Bîzhen imprigionato nella caverna nel Turan, custode a lui una leggiadra fanciulla, in atto dolente e disperato. Ghêv allora, con una lettera di Khusrev, parte per il Segestân a chiedere soccorso a Rustem, e Rustem che tosto si reca nell’Iran, è accolto con grandissima festa da Khusrev, intercede il perdono per Gurghîn e parte per il Turan, travestito da mercante, a rintracciarvi Bîzhen.
Poste le sue merci in vicinanza d’un castello di Pîrân, il finto mercante si vede accostare una timida giovinetta che gli chiede se mai nell’Iran è giunta notizia dell’infelice prigioniero. Rustem, da principio, finge di non intender nulla, ma soltanto consegna alla mendica un pollo arrostito, dentro al quale egli nasconde il proprio anello, da darsi al prigioniero. Bîzhen ritrova l’anello, intende che Rustem è venuto, e Menîzheh, dietro suggerimento dello stesso Bîzhen, ritorna da Rustem a domandargli s’egli è il cavaliero di Rakhsh. Rustem, all’udire il nome del suo destriero, si dà a riconoscere e ordina alla fanciulla di accendere sul monte un gran fuoco che serva di guida a lui, per la notte, fino alla caverna. Così Rustem, con alcuni suoi fidi, giunge di notte all’orrido speco, smuove la pietra immane che lo chiudeva, e ne trae Bîzhen, col quale poi e con gli altri dà un terribile assalto, nelle tenebre della notte, alla reggia di Afrâsyâb. Afrâsyâb, il giorno appresso, insegue Rustem, ma è sconfitto da lui. Il prode guerriero allora, con Bîzhen e con Menîzheh, ritorna nell’Iran, laddove è ricevuto con grandissima festa da Khusrev, mentre si celebrano le nozze dei due giovinetti che tanto hanno sofferto per il loro amore.
Ma l’audace assalto di Rustem fa sì che Afrâsyâb ripigli con rinnovato ardore le armi e meni un esercito contro l’Iran. Questa volta Khusrev invia con le sue schiere il prode Gûderz, il quale, giunto di faccia all’esercito turanio, cerca di ricomporre la gran contesa senza spargimento dì sangue. Pîrân, il capitano dei Turani, sembra che voglia accettare, ma ciò è soltanto per guadagnar tempo e per darne avviso ad Afrâsyâb. Gli eserciti così stanno lungo tempo inoperosi l’uno in faccia dell’altro, e già Bîzhen da una parto con Ghêv, e Hùmân dall’altra con Pîrân si lagnano impazienti di tanta inerzia. Che anzi Hùmân si presenta al campo degl’Irani chiedendo di combattere con qualcuno di essi; ma poichè nessuno, per espresso divieto di Gûderz, osa prendere le armi, egli rimprovera loro acerbamente cosi grande viltà. Gûderz, alfine, concede che Bîzhen combatta col fiero Turanio; e allora, nella battaglia che seguì in un luogo appartato, alla presenza soltanto di due turcimanni, Hùmân cade ucciso per mano di Bîzhen che ritorna trionfante al campo. Nella notte che segue, Nestîhen assalta gl’Irani, ma è ucciso da Bîzhen, e fra le due schiere si appicca una accanita battaglia.
Gûderz chiede rinforzi a Khusrev che glieli invia mandando anche Tûs nel Dehistân per dividere le forze del nemico. Anche questa volta, Pîrân finge di volersi accordare con Gûderz, ma ciò è soltanto per chiedere rinforzi ad Afrâsyâb; arrivati i quali, si ritorna alle armi. Fra i due capitani, tuttavia, si fa un accordo per cui debbano combattere soltanto undici campioni da ambe le parti, per evitar spargimento di sangue, intendendosi che sarà vincitore quell’esercito di cui pure saranno vincitori i campioni. I campioni Irani sono: Ferîburz, Ghêv, Gurâzeh, Furùhil, Ruhâm, Bîzhen, Hegîr, Gurghîn, Berteh, Zengheh e Gûderz; i campioni Turani sono: Kelbàd, Gurvî, Siyâmek, Zenguleh, Bàrmàn, Rûyîn, Sipehrem, Enderîmân, Kuhrem, Ekhvâst e Pîrân. Tutti i turani cadono sotto i colpi degi’irani, eccetto Gurvî che fu l’uccisore di Siyâvish; egli invece, preso da Ghêv, è mandato a re Khusrev. Pîrân cade per mano di Gûderz, e Lahàk e Fershìdverd, suoi luogotenenti, intesane la morte, fuggono desolati dal campo. Ma Bîzhen e Gustehem li inseguono, li uccidono e ne riportano al campo degl’Irani i cadaveri sanguinosi. Khusrev intanto, fatto mozzare il capo a Gurvî, comanda che ai caduti campioni dei Turani e a Pîrân specialmente si dia onorifica sepoltura. I superstiti Turani ottengono da lui, pregando, e salvezza e perdono.
A questo punto Firdusi per un poco interrompe il racconto per far le lodi di Mahmûd e per lamentarsi della tarda età sua, della povertà e dell’obblio in cui vive.
Ma ormai è giunto il tempo nel quale dovranno prendere le armi Khusrev e Afrâsyâb, avo e nipote, nemici fra loro per fatale necessità. Essi preparano le schiere, e già gli eserciti stanno a fronte l’uno dell’altro, quando giunge presso di Khusrev il figlio di Afrâsyâb, Shêdah, con un messaggio del padre. Afrâsyâb fa mille offerte di tesori e di doni e di terre, confessandosi colpevole della morte di Siyâvish, benchè pronto a tentar la sorte delle armi, se Khusrev insiste a voler la guerra. Ma Khusrev risponde che egli non desidera nè doni nè offerte, ma vuole vendetta; e poichè un combattimento fra lui e Afrâsyâb, tra nipote e avo, non potrebbe che offendere un certo senso di morale, così egli combatterà con Shêdah, benchè Shêdah sia suo zio. Shêdah nel duello è atterrato e ucciso da Khusrev che, lamentando il fato che lo costringe a macchiarsi del sangue de’ suoi congiunti, gli fa dare onorevole sepoltura. Segue una battaglia fra Irani e Turani; Afrâsyâb fugge e Khusrev manda la notizia della sua vittoria al vecchio re Kâvus, nell’Iran. Segue allora un’altra battaglia, e Afrâsyâb sconfìtto si ripara in Bihisht-Gang, donde chiede soccorso all’Imperator della Cina. Raggiunto anche là da Khusrev, egli manda il figlio suo Ginn da Khusrev con proposte di compor la gran contesa; ma anche queste proposte sono rigettate.
Riprese le ostilità, Khusrev prende Gang-dizh, e Afrâsyâb riprende la via della fuga, lasciati prigionieri dietro a sè Ginn e Garsîvez, mentre le donne di Afrâsyâb, cadute in potere del vincitore, ottengono da lui in dono la vita. Egli allora dà notizia a re Kâvus della sua vittoria.
Ma intanto Afrâsyâb ritorna con i rinforzi dell’Imperatore della Cina. Già si schierano gli eserciti, quand’egli, per un ultimo tentativo, avanza ancora, ma inutilmente, proposte di pace. Afrâsyâb tenta un assalto notturno e fugge; l’Imperatore e il Principe della Cina domandano la vita in dono a Khusrev, che invia i prigionieri e la preda nell’Iran al vecchio re Kâvus. Proseguendo il suo viaggio trionfale, egli si avanza verso la Cina e il Mekràn, laddove soltanto il re del Mekràn osa resistergli; è però ucciso da lui in battaglia. Khusrev passa il mare di Zirih pieno di esseri nuovi e spaventosi, e Afrâsyâb fugge sempre dinanzi a lui, solo, desolato, senza trovar rifugio in alcun luogo, finchè Khusrev, non sapendo più nulla di lui, si ritrae in Siyâvish-ghird e di là nell’Iran, presso il re Kâvus.
Intanto, Afrâsyâb, stanco e affamato, si ritrae in una caverna. Un pio uomo, di nome Hôm, della discendenza di re Frêdûn, un giorno, ode una voce di tale che si lamenta e chiede a Dio o di rendergli il regno o di farlo morire. Quella voce è di Afrâsyâb; Hôm allora discende nella caverna, si avventa sul misero e lo lega con un laccio per trascinarlo ai piedi di re Khusrev. Ma Afrâsyâb supplica Hôm di rallentare i suoi nodi; ottenuto ciò, egli si scioglie e si getta nel lago di Khangest o Cèciast e sparisce in quelle acque. Gûderz, intanto, passava da quelle parti; udito il racconto di Hôm, ambedue si recano da Kâvus e da Khusrev che allora stavano adorando in un tempio del fuoco. Anche là, Hôm racconta il fatto e consiglia a re Kâvus e a Khusrev di menar sulle sponde del lago il fratello stesso di Afrâsyâb, Garsîvez cioè, ora prigioniero, e di batterlo duramente, acciocché Afrâsyâb, udendo i lamenti del fratello, esca dalle acque. Ciò succede appunto come Hôm aveva predetto. Afrâsyâb è nuovamente preso nel laccio, è trascinato ai piedi di Khusrev che non ascoltando alcuna preghiera, gli recide il capo di propria mano. Anche a Garsîvez tocca la stessa sorte, e così è vendicata la morte di Siyâvish.
Il re Kâvus muore poco stante, e Khusrev, dopo aver resa la libertà a Gihn e dopo averlo posto a regnare nel Turan in luogo di Afrâsyâb, temendo di aver troppo duramente vendicata la morte di Siyâvish, perchè Afrâsyâb era pur sempre il padre della madre sua, si ritira a vita solitaria, dedito interamente a pratiche religiose. I grandi del regno chiedono udienza, e il re vien loro esponendo le ragioni di ciò ch’egli fa. Rustem e Zàl, invitati da essi, vengono dal Segestân e fanno loro rimostranze a re Khusrev, ma invano. Egli però, già prima, aveva avuto in sogno la rivelazione della sua vicina morte; e perciò, dopo aver risposto alle rimostranze dei principi e accolte le loro scuse, lasciati a tutti i suoi paterni e amorevoli consigli e designato Lohrâsp, della discendenza di Pishîn figlio di Kobâd, per suo successore, egli dà a tutti l’estremo addio. Partitosi dalla reggia con alcuni principi che dolenti l’accompagnano, Khusrev si avvia ad una pianura deserta. Là egli cerca dapprima di distogliere gli eroi dal seguirlo descrivendo loro le asprezze del viaggio. Rustem, allora, e Zàl e Gûderz ritornano; ma gli altri, Ghêv, Gustehem, Tûs, Bîzhen e Ferîburz, rimangono. Con questi compagni, re Khusrev arriva la sera ad una fonte, si bagna in essa e poco stante sparisce. Gli eroi rimangono intorno alla fonte a parlar di lui, finchè il sonno li vince ed essi si addormentano. Sopravviene allora una tempesta di neve; la neve seppellisce i dormienti; essi per un poco si riscuotono, tentano di parlare, ma il freddo li ha vinti, e il loro spirito fugge dai loro corpi per seguire il loro signore che di poco li ha preceduti nella via del cielo.
Il re Lohrâsp. — Il regno di Lohrâsp, la cui residenza è ora in Balkh, non più in Istakhar, come prima, incomincia con una contesa tra lui e il figlio suo Gushtàsp, il quale si lagna dinanzi al padre di essere trattato da lui come servo, e però fugge dalla corte. Il fratello Zerîr lo riconduce dinanzi al padre; ma egli, nuovamente sdegnato con lui, fugge di notte e si volge verso il paese di Rûm o di Grecia.
Là egli vive a principio una vita di stenti, poichè, per vivere, chiede invano di essere impiegato in qualche ufficio come scrivano o come stalliere o come fabbro, finchè poi è accolto per pietà in casa da un borgomastro che è della discendenza di re Frêdûn. Intanto l’Imperatore di Grecia fa bandire che la sua prima figlia, la bella Ketâyûna, deve scegliere uno sposo, e Gushtàsp, sollecitato dal suo ospite, va a quel concorso, laddove la fanciulla, che l’aveva veduto in sogno, lo sceglie per isposo. L’Imperatore, sdegnato di aver per genero un uomo di umile e oscuro lignaggio, discaccia i due sposi che si ritraggono a vivere fuori eli città. Ketâyûna vende i suoi gioielli per vivere, e Gushtàsp si occupa della caccia.
Intanto un principe di Grecia, Mîrîn, desidera impalmare la seconda figlia dell’Imperatore, ma essa non sarà data che a colui che ucciderà un terribile lupo che abita la selva di Fâskûn. Mîrîn che non si sente da tanto, per mezzo del barcaiuolo Hêshûy, ottiene che Gushtàsp compia per lui la pericolosa impresa. Così Mîrîn ottiene la bella figlia dell’Imperatore. Anche Ahren, fratello di Mîrîn, desidera la terza figlia dell’Imperatore, ma egli, per ottenerla, dovrà uccidere un dragone sui monti di Sekîlâ. Anche questa impresa è compiuta per lui da Gushtàsp, e Ahren ottiene la sposa. Così l’Imperatore crede di aver date le sue figlie minori a due uomini valorosi e gagliardi.
Ma un giorno, nella palestra di lui, i due suoi generi danno prove di valore e di destrezza, e Gushtàsp, egli pure, dietro suggerimento di Ketâyûna, vi si reca. Là egli dà straordinarie prove di valore, e il greco Imperatore, preso da meraviglia, domanda chi egli sia. Gushtàsp si fa conoscere per il discacciato sposo di Ketâyûna, aggiunge anzi che egli uccise il lupo di Fàskùn e il dragone di Sekîlâ e designa a fargli testimonianza il barcaiuolo Hêshûy. Ormai l’Imperatóre e Ketêyûna più non dubitano ch’egli non sia d’alto e nobile lignaggio; ma Gushtàsp, interrogato del proprio nome, dico chiamarsi Farrukhzàd.
L’Imperatore, avendo un prode di tal valore, pensa di sottomettere il riottoso Ilyàs, principe dei Khazari, che fino allora gli negava il tributo, e Gushtâsp lo fa prigioniero in battaglia. Ciò dà animo all’Imperatore a tentar cose maggiori, a chieder cioè il tributo dell’Iran dal re Lohrâsp. Ma Lohrâsp che non ha mai inteso dire che i re dell’Iran debbano pagar tributo all’Imperatore, invia tosto in Grecia il figlio suo Zerîr per appianar le difficoltà insorte, e Zerîr riconosce il fratello, lo fa conoscere all’Imperatore per Gushtâsp, figlio dello stesso Lohrâsp, e lo riconduce con la sposa nell’Iran, laddove il padre gli cederà il trono e la corona. Lohrâsp, infatti, lo riceve con giubilo e con festa, lo designa re e si ritira a vita religiosa in Balkh, in una specie di eremitaggio detto Nev-behàr.
A questo punto Firdusi interrompe il raccordo per dire d’aver visto in sogno l’anima di Dekîki e d’averne ricevuto il comando o la preghiera d’inserire nel suo Libro dei Re un migliaio di distici che Dekîki aveva composti intorno al regno di Gushtâsp.
Il re Gushtâsp. — Il regno di Gushtâsp è segnalato a principio dalla venuta di Zerdusht, il Zoroastro degli antichi, apportatore di una nuova fede. Il re e tutti i suoi principi accolgono la nuova dottrina; ma tosto giunge una lettera di Argiâsp, re del Turan, che rimprovera a Gushtâsp la sua conversione. Gushtâsp risponde e si prepara alla guerra, dopo avere interrogato il sapiente Giàmàsp intorno all’esito di essa. Nella prima battaglia, come Giàmàsp aveva predetto, cadono i più illustri degl’Irani, compreso lo stesso Zerîr, fratello di Gushtâsp. La sorte però delle armi è favorevole agl’Irani; Isfendyâr, valoroso figlio di Gushtâsp, uccide Bîderefsh, e Argiâsp è sconfitto e posto in fuga. Ritornato Gushtâsp in Balkh, Isfendyâr è mandato da lui attorno pel regno a bandir la nuova fede.
Ma intanto ch’egli è assente, il maligno Gurezm tanto fa con le sue calunnie, che Gushtâsp, al ritorno del figlio, lo fa caricar di ceppi e gettare in carcere. Uditosi ciò da Argiâsp, egli riprende animo e coraggio e raduna un esercito contro di Gushtâsp.
A questo punto, dichiara Firdusi che qui terminano i versi di Dekîki.
Argiâsp intanto entra a forza in Balkh e uccide vicino agli altari il vecchio re Lohrâsp. Di ciò si dà avviso a Gushtâsp che allora era nel Zâbul, ond’egli tosto accorre con le sue schiere contro il nemico. È sconfitto e si ripara sopra un monte; e già ogni cosa parrebbe disperata, quando si pensa a liberare Isfendyâr, perchè egli solo potrà mutare la sorte delle armi. Giàmàsp, mandato dal re, gli riconduce il figlio, e Isfendyâr, assalito con poderoso esercito le schiere dei Turani, ottiene splendida vittoria.
Isfendyâr, allora, domanda il regno al padre suo chiedendo ch’egli si ritiri a vita solitaria, come già Lohrâsp aveva fatto. Gushtâsp non si ricusa apertamente, ma soltanto sprona il figlio a compiere la guerra contro di Argiâsp, vinto e ucciso il quale egli avrà il regno. Isfendyâr obbedisce al padre, si arma, parte per la guerra e incontra per la via quasi le stesse avventure che già incontrò Rustem andando nel Mâzenderàn. Uccide due lupi, uccide due leoni, uccide un dragone, uccide una maga, uccide un augello Sîmurgh, supera una tempesta di neve, e passa un fiume profondo. Giunge finalmente alla Rocca di bronzo, dov’erano rinchiuse e tenute come schiave le sue sorelle. Egli vi giunge travestito da mercante; e le sue sorelle che erano discese ad una fonte ad attinger acqua, lo riconoscono. Penetrato nella rocca co’ suoi guerrieri, egli vi mena orribile strage, uccide Argiâsp, ne fa appendere il figlio Kuhrem ad un palo, e libera le proprie sorelle. Una sua lettera annunzia allora a Gushtâsp la sua vittoria.
Isfendyâr domanda ora, in premio de’ suoi servigi, il trono, ma Gushtâsp richiede da lui un’altra prova. Egli osserva che Rustem che già rese tanti servigi agli antichi re, ora se ne sta inerte nel suo castello e ricusa di riconoscere la religione di Zerdusht. Vada adunque Isfendyâr, vinca in singolar tenzone il vecchio eroe e lo tragga, carico di catene, nel cospetto del re. Isfendyâr a malincuore si sobbarca alla difficile e poco onorevole impresa, ma Gushtâsp insiste, e Ketâyûna soltanto, la madre del giovane eroe, può con le preghiere vincerne la ripugnanza. Isfendyâr adunque parte con le sue schiere per il Zâbul o Segestân, laddove, appena giunto, egli invia il figlio suo Behmen con un suo messaggio a Rustem, per il quale il vecchio principe è invitato a presentarsi alla corte di Gushtâsp come schiavo. Rustem trovasi alla caccia e Behmen si reca laddove egli sta cacciando; là è testimone di alcune prove di valore e di forza inaudita di Rustem, al quale poi egli si rivela come figlio d’Isfendyâr. Invitato da Rustem a mensa, Behmen espone il suo messaggio, al quale Rustem, impensierito e dolente, risponde tosto, benchè, con molta moderazione, che egli è pronto all’obbedienza verso il suo re, dal quale anche accetterebbe le catene s’egli fosse colpevole, ma rifiutando sempre, come innocente, l’oltraggiosa proposta.
Rustem, allora, da una parte e Isfendyâr dall’altra convengono sulle sponde dell’Hirmend a parlar fra loro; e il primo si mostra ossequioso e modesto dinanzi al figlio del suo re e lo invita alla sua casa, mentre Isfendyâr si ricusa di accettar quell’invito e comanda a Rustem, benchè a malincuore, di prendersi da lui le catene e di presentarsi a re Gushtâsp. Rustem ricusa tra lo sdegnoso e l’afflitto l’oltraggiosa proposta e ritorna presso di Zàl nel suo castello. Di là egli ritorna ancora presso di Isfendyàr a lagnarsi con lui perchè egli non gli ha fatto alcun invito ospitale, e Isfendyâr se ne scusa; segue però un lungo diverbio nel quale e l’uno e l’altro eroe viene magnificando la propria nascita e i proprii fatti di valore, mentre ciascuno vorrebbe attenuare i meriti dell’altro. Alla fine però ambedue, per un momento rappacificati, stanno insieme per alcun tempo a mensa bevendo del vino e favellando amichevolmente e promettendosi di provarsi con le armi, finchè Rustem ritorna al suo castello e là egli racconta ogni cosa a Zàl e al fratel suo Zevàreh.
Al dì che segue, si appicca la battaglia, e nella mischia cadono trafitti due dei figli d’Isfendyâr, Nùsh-àzer e Mihr-i-nùsh. Ma Rustem è sopraffatto dal valore del suo avversario e fugge sopra un monte. Alla dimane egli ritornerà alla battaglia. Isfendyâr, intanto, piange la morte dei suoi due figli e ne invia a Gushtâsp la bara, mentre Rustem, nella notte, desideroso di vincere l’avversario, col padre suo prega di aiuto il Sîmurgh, l’antico protettore della loro casa. Il divino augello appare improvvisamente e dichiara che la vita d’Isfendyâr dipende da un ramo di terebinto che cresce sulle sponde del mar di Cina; chi però adoprerà quel ramo come arma in guerra, sarà infelice in questa vita e dannato nell’altra. Rustem, piuttosto che coprirsi di vergogna, accoglie bramoso la proposta del Sîmurgh, dal quale è guidato quella notte stessa sulle sponde del mar di Cina. Là egli coglie quel ramo, ne forma una freccia, e con quella, al mattino, si presenta da Isfendyâr per combattere con lui. Isfendyâr è ferito in un occhio (sola sua parte vulnerabile) da Rustem con la portentosa freccia e muore sul campo dopo aver lamentato il suo destino e raccomandato con molte preghiere il figlio suo Behmen al vecchio eroe, che assiste piangendo al suo trapasso. Beshûten, altro figlio di Isfendyàr, con molto pianto ne reca la bara al re Gushtâsp. Nell’Iran è immenso il cordoglio per la morte del giovane eroe. Rustem intanto fa per lettera le sue scuse al re Gushtâsp, che gli risponde accusando piuttosto il destino che il vecchio guerriero d’ogni sua sventura, e richiama a se Behmen che Rustem aveva intanto educato.
Ma ormai anche Rustem deve soggiacere al comune destino. — Nasce a Zàl, nella sua tarda età, un figlio, a cui viene imposto il nome di Sheghâd e del quale gl’indovini predicono le cose più triste. Zàl lo manda a educare presso il re del Kabul, il quale gli pone tanto affetto, che, quando il fanciullo è giunto a pubertà, gli dà in isposa una sua figlia.
Ma poichè il re del Kabul era obbligato ogni anno a mandare a Zàl come tributo un cuoio di bue in segno di sua inferiorità, così egli s’accorda con Sheghâd sul modo di liberarsi da quella gravezza. Anche Sheghâd è geloso della gloria del fratello. Pertanto, dietro accordo preso, il re del Kàbul, in un convito, alla presenza dei principi e dei grandi, chiama vile e dappoco Sheghâd; e perchè Sheghâd si vanta di aver per padre Zàl e per fratello Rustem, il re del Kàbul anche di questi si fa giuoco e belle. Sheghâd allora, fingendo gran disdegno, lascia il convito e con alcuni amici suoi si reca nel Zâbul laddove a Rustem racconta ogni cosa accaduta.
Rustem ne concepisce altissimo disdegno e promette al fratello di vendicarlo. Già egli raccoglie i suoi guerrieri, ma Sheghâd gli fa intendere che meglio sarà se verrà con pochi, e Rustem bonariamente lo compiace. Intanto il re del Kàbul ha fatto scavare in un luogo da caccia molte fosse profonde armate di punte di ferro e ricoperte a sommo di erbe e di paglia. All’arrivo di Rustem, egli muove umilissimamente al suo incontro, si toglie dal capo la tiara indiana, si leva le scarpe dai piedi e si prostra al suolo, chiedendo perdono. Rustem non solo perdona, ma anche accetta con gioia l’invito di recarsi a cacciare con lui. Appena egli è entrato nel luogo della caccia, Rakhsh che sente l’odor della terra sconvolta di fresco, s’impenna atterrito, ma Rustem lo sprona innanzi e cade in una profonda fossa ferendosi mortalmente. Egli però ha tanta forza ancora da riguadagnare l’orlo della fossa e riveder la luce; là vede il fratel suo Sheghâd che si ride di lui, che si confessa autore del reo inganno e dichiara ch’egli ha fatto ciò per vendicar tanti che Rustem nella sua Lunga carriera ha uccisi. Rustem chiede a Dio tanto di forza almeno da punir l’orribile delitto, indi, con quell’unica freccia che gli restava, trafigge Sheghâd che tremante si era nascosto nel cavo di un albero vicino. Chiesto perdono a Dio delle sue colpe, egli muore poco stante; muore in un’altra fossa anche il fratel suo Zevàreh e muore anche Rakhsh, il fedel destriero di Rustem.
Il vecchio Zàl, avuto quell’annunzio, prorompe in gemiti, e Ferâmurz, il figlio di Rustem, si reca nel Kàbul a toglierne il corpo del padre. Egli ne trasporta il cadavere al paterno castello e là ne celebra con gran pompa i funerali. Pigliate poi le armi, egli entra nel Kàbul, lo mette a ferro e a fuoco e ne uccide il perfido e reo principe. Muore intanto Gushtâsp, dopo aver designato per suo successore il giovane Behmen, figlio d’Isfendyâr.
A questo punto cessa la parte veramente eroica e leggendaria del Libro dei Re, che, dopo alcune leggende insignificanti, passa alla storia di Sikender o Iskender (Alessandro Magno), a quella degli Arsacidi e finalmente a quella dei Sassanidi coi quali si giunge al 651 dell’Era volgare.
Il re Behmen. — Primo pensiero di Behmen è quello di vendicar la morte del padre suo, ond’egli tosto entra nel Segestân con un esercito, e il vecchio Zàl viene a chieder perdono. Ma Behmen lo fa caricar di ceppi, indi, in una battaglia, uccide Ferâmurz, il figlio di Rustem. Resa poi, per intercessione di Beshûten, la libertà a Zàl, egli sposa la propria figlia Humây, promettendole il regno a chi nascerà da lei. Il figlio maggiore, Sàsàn, offeso di ciò a ragione, fugge dalla casa paterna, e Behmen muore poco stante.
La regina Humây. — Morto Behmen, frutto delle sue nozze con Humây, nasce un fanciullo. Ma perchè essa vuol regnar libera e non come tutrice del re ancora infante, Humây nascostamente fa rinchiudere il fanciullo in un’arca di legno e gettar nell’Eufrate. Un lavandaio raccoglie quell’arca, la reca alla sua donna, e tutt’e due restano stupiti di trovarvi un fanciullo ancora in fasce, tutto adorno di pietre preziose. Al fanciullo fu posto il nome di Dârâb, perchè fu ritrovato nelle acque.
Dârâb cresce bello e gagliardo e male si acconcia alla vita umile del lavandaio. La moglie di costui gli rivela un giorno in qual modo egli sia stato trovato, e Dârâb, udendo che un esercito dell’Iran va contro i Greci, chiede e ottiene di esservi compreso. Una notte, Rishnavàd, il capitano, dall’angelo Serôsh ha rivelazione dell’essere vero di Dârâb. Il giovane dà inaudite prove di valore, sconfigge i Greci, e Rishnavàd ne scrive meravigliato, narrando tutto ciò che ha saputo, alla regina. Questa riconosce il figlio suo in Dârâb e pentita lo richiama a sè e lo proclama re.
Il re Dârâb. — Il breve regno di Dârâb incomincia con una spedizione contro l’arabo Shoaib che tentava invadere l’Iran. Dârâb, vinto Shoaib, dall’Arabia si volge verso la Grecia dove regnava Faylakûs (Filippo di Macedonia), che egli vince e col quale conchiude anche una pace, ottenendone in matrimonio la figlia di nome Nàhìd. Ritornato nell’Iran, egli rimanda la sua sposa, già incinta, in Grecia per guarirla da un grave incomodo con un’erba che vi cresce, detta iskender. Là essa dà alla luce un fanciullo a cui vien posto il nome di Iskender o Sikender (Alessandro Magno).
Il re Dârâ. — Morto Dârâb, gli succede nel regno il figlio Dârâ (Dario Codomanno), natogli da altra donna, minore perciò del fratello Iskender che ora è in Grecia. Morto in questo tempo anche Faylakûs, Iskender prepara una spedizione contro l’Iran che gli spetta per diritto di nascita, e Dârâ si prepara a tenergli fronte.
Iskender si reca alla presenza di Dârâ come messaggiero d’Iskender stesso; ma è ben tosto scinto in un convito reale. Seguono, una dopo l’altra, tre battaglie, nelle quali Dârâ è sconfitto finchè egli fugge nel Kirmàn. Di là egli scrive ad Iskender chiedendo la pace, ma intanto egli domanda soccorsi a Fûr principe d’India (il re Poro); ciò che risaputosi da Iskender, lo determina a ripigliar le armi. Dârâ fugge ancora, ma è ferito a morte da due suoi perfidi ministri. Iskender accorre tosto e udite le ultime parole di Dârâ morente che gli raccomanda la sposa e la madre, data onorevole sepoltura al morto re, fa appendere ad un legno i perfidi uccisori di lui.
Il re Iskender. — Il re Iskender sposa Rôshanek, la figlia del morto Dârâ. Intanto, un principe d’India, di nome Kayd, vede alcuni sogni meravigliosi che soltanto il saggio Mihrân gli sa spiegare, predicendogli anche, tra le altre cose, la venuta d’Iskender. Iskender, infatti, si avvia con un esercito contro di lui, e gli scrive, e Kayd gli risponde annunziandogli ch’egli ha presso di sè quattro cose meravigliose, pronto a mandarle ad Iskender quand’egli le desideri. Iskender invia suoi cavalieri a veder quelle cose, e Kayd gli manda una fanciulla, una coppa, un medico e un filosofo, dei quali poi Iskender fa le prove, esperimentandone il significato e l’utilità. Segue la spedizione di Iskender contro il re Fûr, che cade ucciso in battaglia.
Qui cominciano le molte e diverse e confuse avventure d’Iskender, e prima di esse viene la sua andata a visitar la Kaaba, la sacra pietra nera, adorata dagli Arabi. Da Giuddah Iskender discende in Egitto, e di là egli scrive a Kîdâfeh regina di Andalusia e ne riceve risposta. Andando verso l’Andalusia con l’esercito, prende la rocca del re Feryân che cade in battaglia. Allora egli si reca sotto le spoglie di messaggiero d’Iskender stesso dalla regina che lo riconosce e gli fa intendere esser molto pericoloso per lui il seguir quel suo costume di travestirsi da messaggiero, tanto più che il figlio di lei, Tînûsh, è sdegnato contro di lui e brama ardentemente di porlo a morte. Iskender, grato alla regina, conchiude con lei un patto di alleanza e riconduce di là l’esercito.
Iskender si reca nel paese dei Brahmani e ascolta le risposte che essi danno alle sue oscure ed enigmatiche interrogazioni. Seguono, la sua andata al mare d’occidente, la sua vittoria sulla gente di Abissinia, la sua andata alla città dei Nerm-pày o Piedi-deboli, l’uccisione di un drago su di un monte, laddove egli intende predirsi la sua morte, la sua andata alla città di Harûm, la città delle donne, la sua andata al paese delle tenebre, laddove egli cerca invano la fonte della vita che dona a chi ne beve eterna giovinezza, il suo colloquio con gli uccelli parlanti e con Isrâfîl, l’angelo della morte, che già tiene in pugno la tromba, attendendo da Dio il comando di svegliar con quella i morti per il giudizio finale.
Segue il viaggio d’Iskender verso Oriente, laddove egli innalza una barriera di metallo contro le invasioni di Yâgiûg’e Mâgiûg’. Nei paesi d’Oriente egli vede nuove meraviglie; sopra un monte, in uno splendido palazzo, ritrova un morto che gli predice la sua vicina morte; interroga gli alberi parlanti che gli ripetono la predizione, aggiungendo ch’egli non rivedrà mai più la madre sua. Tristo e dolente, Iskender si volge verso la Cina e reca, in qualità di messaggiero, una sua lettera a quell’Imperatore.
Segue il viaggio d’Iskender verso il Mezzogiorno; e primieramente egli fa la guerra agli abitanti del Sind, poscia discende nel Yemen e di là muove verso Babilonia, dopo aver trovati in una città i tesori dell’antico re Khusrev. Entrato in Babilonia, egli scrive una lettera al suo maestro Aristotele e un’altra alla madre sua, ma poi, preso da improvviso malore, muore ancor giovane, e i suoi principi gli danno sepoltura in Iskenderiyeh (Alessandria). Essi, insieme alla madre e alla sposa di lui, ne piangono la morte immatura.
A questo punto Firdusi interrompe ancora per un poco il racconto per lamentarsi della sua trista sorte e per far le lodi del Sultano Mahmûd.
I re Ashgâni. — Di questi re, degli Ashgâni cioè o Arsacidi, Firdusi non ci sa dir nulla. Egli afferma che passarono duecento anni, nei quali non pareva che vi fosse un re nell’Iran. Non potendo adunque narrarne nulla, il poeta si appaga di darne i nomi che sono: Ashk, Shâpûr, Gûderz, Bîzhen, Nersî, Ormuzd, Arish, Ardevân, che aveva un suo luogotenente, di nome Bâbek, in Istakhar.
Firdusi non trovò nulla intorno a questi re nelle fonti a cui egli attingeva, e anche la loro storia è molto incerta e oscura.
Intanto, Bâbek, il luogotenente di Ardevân in Istakhar, vede in sogno un suo giovane pastore, di nome Sâsân, assiso, con una spada indiana in pugno, sopra un elefante. Un altro sogno avuto nella notte appresso fa si ch’egli interroghi gli interpreti; uno di essi gli predice che Sâsân, un giorno, sarà re dell’Iran. Bâbek, appena desto, fa venirsi innanzi il giovane Sâsân, il quale asserisce di esser discendente di quel Sâsân che fuggì sdegnato dalla casa di Behmen, figlio d’Isfendyâr, allorquando Behmen sposò la figlia sua, la regina Humây, e diede il regno al figlio che da lei sarebbe nato. Bâbek, pieno di gioia, tiene il giovane in sua casa con molto onore e gli dà in isposa la figlia sua.
Frutto di questo connubio fu Ardeshîr, il quale cresce meravigliosamente bello e valoroso, tantochè anche il re Ardevân ne sente parlare. Il re scrive una lettera a Bâbek domandandogli il fanciullo, e Bâbek, piangente e desolato, invia il nipote alla corte. Là il fanciullo diventa ben presto il favorito del re; ma un giorno, mentr’essi erano alla caccia, Ardeshîr atterra con un colpo maestro un forte onagro. Sopraggiunto il re, egli vorrebbe l’onor di quel colpo, ma perchè Ardeshîr, nell’impeto giovanile, asserisce che la fiera fu uccisa da lui, il re sdegnato lo discaccia e lo manda alle stalle a prendersi cura dei destrieri reali. Il giovane offeso scrive una lettera all’avo suo Bâbek, che gl’invia diecimila cavalieri con denari e con consigli; e Ardeshîr con essi si dà a vita spensierata e a sollazzi d’ogni genere.
Ma di lui erasi invaghita la leggiadra Gulnâra, che era una bella di re Ardevân e custode dei suoi tesori. I due giovani facilmente s’accordano insieme e fuggono dalla reggia recando con sè una gran copia di gemme involate ai tesori del re. Il quale, non appena ha notizia della loro fuga, si pone adirato sulle loro tracce, inseguendoli a cavallo, ma invano. Ardeshîr trova un aiuto potente in Tebàk, signore di Gihrem, e in una battaglia che segue tra le genti da lui raccolte e tra le schiere del re, il re Ardevân rimane ucciso. Ardeshîr ha poi uno scontro coi Curdi dai quali è sconfitto, ripigliandosi poi la rivincita in un improvviso assalto notturno.
Intanto, nella città di Kugiàràn, viveva un uomo, di nome Heftvâd. La figlia di lui soleva tutti i giorni andar al monte a filar con le compagne; e un giorno ch’essa trovò per caso una mela abbattuta dal vento, nel mangiarne vi trovò un baco che tanto filò per lei da superar tutto ciò che avevano filato le sue compagne; e ciò con grandissima meraviglia di esse e dei genitori di lei. — Qui vi ha forse allusione al baco da seta. — Il baco portentoso porta prosperità nella casa di Heftvâd; esso cresce smisuratamente tanto da eguagliare nella grossezza un elefante, e ogni re e ogni capitano che tenta di far guerra a Heftvâd a cagione di quel baco, resta immancabilmente sconfitto.
Ciò non piace veramente ad Ardeshîr che muove guerra a Heftvâd, ma è sconfitto, e Mihrek intanto gli guasta e distrugge la casa. Ardeshìr allora trova modo di far morire il portentoso baco che è l’autore della potenza e della ricchezza di Heftvâd, e di fargli ardere la casa. In una battaglia che segue, Heftvâd cade trafitto e ogni sua ricchezza è guasta e distrutta.
Il re Ardeshîr. — Ardeshîr, primo della stirpe dei Sassanidi, si era tolta in isposa anche la figlia di re Ardevân, ucciso in battaglia. Viveva però in India un figlio dell’ucciso, di nome Behmen, il quale, mal comportando che Ardeshîr regnasse, manda alla sorella nascostamente un veleno da propinarsi al re. La regina porge il veleno ad Ardeshîr in una coppa, e il re la prende, ma nel prenderla essa gli cade di mano. Ardeshîr, presone sospetto, fa condurre alcune galline che, assaggiato il veleno, muoiono. La regina, benchè incinta, è condannata a morte e un sacerdote è incaricato della esecuzione della condanna. Egli però la risparmia, la tiene in sua casa, laddove essa poco stante partorisco un figlio, a cui viene imposto il nome di Shâpûr. Ardeshîr, un giorno, si lamenta col sacerdote di non aver figli e di essere perciò molto infelice; ma questa sua tristezza cambiasi all’improvviso in gioia, allorquando il sacerdote, con le prove più chiare, gli fa conoscerò il figlio suo Shâpûr ch’egli aveva educato. Shâpûr è ricevuto in corte con ogni onore e fatto istruire dal felice padre in ogni cosa bella a sapersi. Ardeshîr intanto fa interrogar Kayd, il principe d’India, intorno alla sorte del suo regno.
Shâpûr, cresciuto negli anni, s’aggira un giorno per la campagna e giunge ad una villaggio laddove, arso dalla side, chiedo da bere ad una vaga fanciulla che sta attingendo acqua ad un pozzo. Egli se ne invaghisce e la sposa. Era essa la figlia di Mihrek, borgomastro del villaggio; e frutto del suo matrimonio con Shâpûr è un fanciullo a lui viene imposto il nome di Ormuzd. Re Ardeshîr, intanto, di cui si loda l’altissima prudenza, compone un libro di consigli per l’amministrazione del regno, porge gli ultimi suoi consigli a Shâpûr e muore poco stante.
Seguono diversi re dei quali l’epopea non narra nulla di particolare, appagandosi di notarne gli anni di regno, il loro discorso ai principi, appena saliti al trono, e altre poche cose. Essi sono: Shâpûr che ha una guerra con l’Imperatore di Grecia, Ormuzd, Behrâm, Behrâm figlio di Behrâm, Behrâm nipote di Behrâm, Nersî e Ormuzd figlio di Nersî.
Il re Shâpûr figlio di Ormuzd. — Shâpûr nacque quaranta giorni dopo la morte del padre. L’arabo Tâir, entrato improvvisamente in Tîsifûn (Ctesifonte), ne rapisce la bella Nûsheh figlia di Nersî e zia del re Shâpûr. Ma Nûsheh muore ben tosto di cordoglio, dopo aver fatto Tâir padre di una fanciulla di nome Mâlikeh. Shâpûr, per vendicarsi, entra con un esercito nel Yemen, ma di lui s’invaghisce perdutamente la figlia di Tâir che tradisce il padre e passa nel campo di Shâpûr. La rocca di Tâir è presa, ed egli è ucciso in battaglia.
Recatosi il re in Grecia alla presenza dell’Imperatore, un uomo dell’Iran che viveva in quella reggia, lo riconosce per Shâpûr, e l’Imperatore, a tradimento, lo fa prendere, lo fa cucire in una pelle d’asino e rinchiudere in una casa abbandonata. Ma là una vaga fanciulla, a cui dispiaceva che un giovane tanto leggiadro fosse rinchiuso nella lurida pelle di un giumento, trova modo di liberarlo e di fuggir con lui nell’Iran, laddove, appena entrato, è ospitato da un povero giardiniere. Egli allora, per farsi conoscere ai suoi principi, dopo aver fatto giurare l’ospite suo, gli consegna l’impronta del suo anello sopra un pezzo di molle argilla, col comando di recarlo al sacerdote del luogo. Riconosciuto dai principi il suggello reale, tutti si raccolgono festosi intorno al loro signore, e Shâpûr menato un assalto notturno all’Imperatore, lo vince e lo fa prigioniero.
I Greci, desolati, si radunano intorno a Yânus fratello dell’Imperatore e vengono a battaglia con Shâpûr, ma Yânus è vinto. Essi allora pongono sul trono Bezânûsh, e con lui Shâpûr conclude una pace.
Sotto il suo regno si mostra come apportatore di una nuova dottrina il pittore Mânî, il quale, chiamato dinanzi al re a disputare e confutato dai sacerdoti, è fatto uccidere, la sua pelle, riempita di paglia, è fatta appendere a una delle porte della città. Shâpûr, intanto, raccomandato al fratello Ardeshîr il figlio suo, muore dopo un regno di settant’anni.
Seguono i regni di Ardeshîr, di Shâpûr figlio di Shâpûr, di Behrâm figlio di Shâpûr, dei quali Firdusi altro non ci riferisce che i discorsi tenuti ai principi al momento di salire al trono.
II re Yezdeghird. — Re Yezdeghird ha un gagliardo figlio, di nome Behrâm-gôr, che egli fa educare nel deserto dall’arabo Mundhir. Il giovinetto cresce in ogni virtù e ne dà meravigliose prove dovunque e specialmente alla caccia, sotto gli occhi stessi di Mundhir. Alla fine della sua educazione, egli è ricondotto da Nomân al padre.
Avvenne però che un giorno, mentre il re sedeva a mensa e mentr’egli prolungava il convito fino a tarda notte, il giovinetto per sua disgrazia, preso dal sonno, socchiudesse alquanto gli occhi. rritato di ciò, Yezdeghird ordina di caricarlo di ceppi e di chiuderlo in carcere: ma Tînûsh che veniva di Grecia a recar tributi al re, gli ottiene il perdono, e Behrâm-gôr, stanco di vivere nell’Iran, torna presso di Mundhir in Arabia. Yezdeghird, intanto, in un luogo vicino alla fontana di Sev della cui acqua egli si valeva per guarire di una emorragia del naso, è ucciso da un cavallo che era uscito all’improvviso da quella fonte e poi vi era scomparso.
Gli Irani intanto pongono sul trono un vecchio principe, di nome Khusrev, generoso e di animo grande. Ma Behrâm-gôr che ha udita frattanto la morte del padre, ritorna nell’Iran, vi conduce un esercito datogli da Mundhir e gl’Irani si raccolgono intorno a lui. Egli cerca di far valere presso di loro, parlando con acconce parole, i suoi diritti al regno, ma quelli poco se ne persuadono, non piacendo la sua educazione straniera, finchè poi gli vien proposta una prova. La corona reale sarà posta su di un trono eretto in un campo e in mezzo a due leoni. Quello dei due emuli, Khusrev e Behrâm-gôr, che toglierà la corona, sarà re. Behrâm-gôr non solo toglie la corona, ma anche uccide i leoni, e tosto con gioia è riconosciuto dagl’Irani per loro legittimo signore.
Il re Behrâm-gôr. — Prima cura di Behrâm-gôr si è quella di scriver lettere a tutti i principi del suo regno, di perdonare agl’Irani le loro colpe e di condonar loro i residui dei tributi. Il suo regno però, specialmente nel suo principio, va segnalato da molte e curiose avventure che rendono piacevolissima la lettura di questa parte del poema di Firdusi.
La prima si è la sua andata alla casa dell’acquaiolo Lanbek. Presentatosi alla porta di Lanbek come cavaliero smarrito per la via, egli riceve in quella casa del povero acquaiolo una cordiale ospitalità, mentre, recatosi a chiederla alla casa di Berâhâm ricco giudeo, vi è ricevuto a gran stento, senza conforto di cibo, e costretto a raccogliere le immondizie del suo cavallo. Fattosi poi riconoscere per il re, egli dona a Lanbek le ricchezze dell’avaro giudeo e costringe costui a fare il mestiere dell’acquaiolo. Più tardi egli proibisce l’uso del vino per le sconcezze a cui esso conduce, ma poi è costretto a permetterlo ancora per evitar i danni che la sua mancanza produce. Permettendo un suo ministro, per un momento, una specie di socialismo in un villaggio che si era mostrato poco rispettoso verso il re, quel villaggio è distrutto dalla discordia e dal furore degli stessi abitanti, e poi riedificato da un vecchio che vi riconduce l’ordine e la tranquillità.
Behrâm-gôr intanto sposa le figlie di un mugnaio che gli avevano cantata una bellissima ballata, trova i tesori di Gemshîd, uccide un dragone, sposa la figlia di un borgomastro, poi quella di un gioielliere, passa una notte in casa del ricchissimo Fershîdverd che si finge povero; ma egli, uditi i lamenti dei lavoratori di Fershîdverd nei campi, toglie all’avaro ogni sua ricchezza e la spartisce fra quella misera gente. Uccide leoni e onagri alla caccia e ritorna poi co’ suoi principi a Bagdad e ad Istakhar.
Il principe di Cina invade il regno, e i grandi dell’Iran muovono acerbi rimproveri al re per la sua vita spensierata. Egli però accorre con le armi e fa prigioniero il principe nemico, fa un patto anche coi Turani e fa elevare una pietra perchè segni il confine dei due regni. Ciò fatto, egli ritorna nell’Iran e là si fa a comporre un libro di avvertimenti, ha una disputa col messo dell’Imperatore di Grecia intorno a cose specialmente di morale, indi, licenziato il messo, porge molti consigli ai suoi capitani.
Behrâm-gôr, sotto le spoglie di messaggiero, si reca da Shengul re dell’India che, al vederlo operar cose meravigliose, sospetta chi egli sia veramente e però vorrebbe impedirgli di ritornare nell’Iran. Ma Behrâm-gôr, per compiacergli, uccide un lupo e un dragone, e il re Shengul gli dà in isposa una sua figlia. Intanto una lettera dell’Imperatore di Cina diretta a Behrâm-gôr fa sì che con la figlia di Shengul egli fugga e ritorni nell’Iran. Shengul insegue i fuggitivi, e li raggiunge, ma, conosciuto chi sia veramente il genero suo, ne ha grandissima gioia, e, ritornato nel suo reame d’India, con altri sette re si reca poi a visitarlo nell’Iran. Ultima impresa di Behrâm-gôr si è quella di chiamar dall’India i Lûri, saltimbanchi girovaghi, per divertire il popolo suo che si lagnava di non aver sollazzi. Ma i Lûri divorano le provvigioni loro date dal re e restano con quel solo giumento ch’egli aveva loro dato, per andar ancora vagando e mendicando.
Morto Behrâm-gôr, seguono i regni di Yezdeghird e di Hormuz senza alcun fatto d’importanza.
Il re Pîrûz. — Il re Pîrûz, appena salito al trono, dopo aver fondate alcune città, ha una guerra coi Turani, condotti da Khoshnavâz. Egli ha una battaglia col capitano nemico e vi resta ucciso.
Il re Balâsh. — Luogotenente di Pîrûz, mentre egli combatteva coi Turani, era il nobile Sûfrây, che ora, per vendicare il suo re, intima guerra a Khoshnavâz, mentre Balâsh, figlio di Pîrûz, sale al trono. Sûfrây ottiene vittoria e libera di cattività il giovane Kobâd, maggior figlio di Pîrûz, caduto prigioniero nelle mani dei Turani. Kobâd, pertanto, è il vero erede del trono.
Il re Kobâd. — Ma Kobâd si mostrò ingrato verso il suo benefattore e liberatore, Sûfrây. Cedendo alle accuse e alle calunnie dei maligni, egli lo fa porre a morte. Gl’Irani allora, offesi e irritati di ciò, invadono a tumulto la reggia, pongono in catene il re e lo consegnano a Rezmihr, figlio dell’ucciso Sûfrây, e pongono Giâmâsp sul trono. Ma Rezmihr vede nel prigioniero non già l’uccisore del padre suo, bensì il suo principe e signore, e l’aiuta a fuggire. Kobâd, nella fuga, trova asilo presso un borgomastro di cui egli sposa la figlia, e si ripara presso gli Heytâli, di là egli ritorna poi in tempo opportuno, e nel ritorno apprende che dalla sua sposa gli è nato un figlio a cui egli impone il nome di Anûshîrvân.
Intanto, viene a predicare una specie di socialismo l’impostore Mazdek, alla cui religione si converte lo stesso Kobâd. Ma Anûshîrvân si mostra fiero nemico dell’innovatore. Invitato a convertirsi, chiede tempo e raduna molti savi da tutte le parti, che agevolmente confutano le dottrine di Mazdek. Anûshîrvân allora fa seppellire a capo in giù con le gambe fuori del suolo, in un giardino, i principali seguaci di Mazdek, indi invita lo stesso Mazdek a visitar quel giardino. All’orribile spettacolo, il misero perde i sensi, e Anûshîrvân lo fa appendere a capo in giù.
Muore intanto il re Kobâd, dopo aver dati i più saggi consigli al figlio suo.
Il re Kisra Anûshîrvân. — Questo gran re, singolare esempio di sapienza e virtù, appena salito al trono, ammonisce i suoi principi, spartisce il regno in quattro parti, fa il computo dell’esercito, riceve atto di obbedienza dai principi, innalza un muro tra l’Iran e il Turan, e vince gli Alàni e gli abitanti del Belûcistan e del Ghîlân. Anche le sue guerre contro l’Imperatore di Grecia sono coronate di vittoria. Egli prende molte fortezze tenute dai Greci, espugna Antiochia, fabbrica una nuova città per collocarvi i prigionieri di guerra, e obbliga l’Imperatore a pagargli un tributo.
Gli nasce intanto un figlio, Nûsh-zâd, da una delle sue donne che era cristiana, e quel figlio è pure allevato nella religione della madre. Caduto ammalato Anûshîrvân, il giovane spensierato e ardente concepisce disegni arditi e si fa ribelle al padre. Ma il re, per mezzo di Râm-Berzîn, prefetto di Madàin, soffoca ben tosto quel principio di ribellione, e Nûsh-zâd ferito in battaglia muore assistilo dal vescovo e pianto da tutti i suoi fratelli in religione.
Anûshîrvân, intanto, vede uno stranissimo sogno che nessuno gli sa interpretare. Soltanto il giovane Bûzurc’mihr, venuto alla corte, gli sa dire che significhi e gli fa trovare per esso e punire una tresca di una delle sue donne nel gineceo con un bel garzone entratovi furtivamente. Da quel giorno, Bûzurc’mihr sarà il più fedel consigliero del re, e nelle sette cene che Anûshîrvân imbandisce a’ suoi principi, egli dispiega tutto il suo sapere parlando di moltissime e diverse cose, specialmente di morale.
Narrata la morte del saggio Mahbûd e dei suoi figli, avvenuta per le arti di Zûrân e di un giudeo, e la punizione toccata ai rei appena furono scoperti, segue il poema a narrare le opere di Anûshîrvân che fonda città, intima la guerra al principe di Cina che aveva assalito Ghâtker, principe degli Heytâli, e lo costringe a domandar la pace, la quale è conclusa a patto che il principe di Cina dia ad Anûshîrvân la propria figlia in isposa. Mihrânsitâd è incaricato di andar a scegliere la sposa; il padre l’accompagna per lungo tratto di via, e Anûshîrvân dal Gurgân ov’egli si trovava, ritorna in Ctesifonte.
Bûzurc’mihr, intanto, spiega tutta la sua dottrina alla corte, e il re d’India manda in dono ad Anûshîrvân il giuoco degli scacchi, del quale nessuno può intender nulla, eccetto Bûzurc’mihr che in ricambio inventa e manda al re d’India il nerdiludio o giuoco del tric-trac. — Segue la leggenda del come fu trovato il giuoco degli scacchi. — Morì un re nell’India e lasciò un unico figlio di nome Gav, infante ancora. Allora i cittadini vollero un re già provetto d’età, saggio e gagliardo, ed elessero il fratello del morto, di nome May. Appena fatto re, May sposò la vedova regina, ed ebbe da lei un figlio, che fu chiamato Talhend. Gav e Talhend crebbero insieme, e quando uno di essi chiedeva in disparte alla madre chi di loro avrebbe regnato, essa prometteva a questo solo il regno, onde avvenne che ciascheduno dei due, tenendo a quella promessa della madre, crebbe con la persuasione di essere un giorno il re. Giunti perciò all’età del regnare, sorse fra loro un’ostinata contesa, poichè nessuno voleva cedere, e ciascheduno aveva suoi partigiani e consiglieri. Alfine vennero alle armi, e dopo una disperata lotta Talhend giacque ucciso nel campo. La misera madre ne restò inconsolabile e incolpò della morte del fratello il superstite Gav, che per quanto facesse non potè in nessuna maniera persuaderla che tutta la sventura era colpa del destino e non di lui. Consigliatosi alfine coi saggi del suo regno, essi gli recarono un giorno una tavoletta di legno, quadrata, con l’immagine del campo di battaglia, con le fosse tracciate a difesa dell’esercito. Sopra quella tavola stavano schierati due eserciti in legno e in avorio, capitanati dai loro re, coi cavalli e gli elefanti e i ministri. Avanzandosi i due eserciti secondo le loro mosse stabilite, combattevano, e uno dei loro re, alla fine, doveva soccombere. Recato il giuoco meraviglioso alla madre inconsolabile, essa, giocando, giunse anche a capire che, combattendo due re, uno doveva soccombere certamente. Così ella passò i giorni e le notti intere attendendo a quel gioco, che le rappresentava la sorte dei due suoi figli, addodolorata e piangente, finchè, estenuata dalla veglia e dal digiuno, morì. Questa è l’origine del giuoco degli scacchi.
Un giorno il medico Berzûy, dichiara al re Anûshîrvân di aver letto in un libro trovarsi in India un’erba portentosa che può anche risuscitare i morti. Berzûy è mandato in India per farne ricerca, ma per quanto egli s’aggiri per monti e per valli raccogliendo erbe e fresche e secche e ponendole su cadaveri per ritornarli a vita, egli non può trovar l’erba desiderata. I medici e i saggi ch’erano con lui, mandati dallo stesso re d’India, gli suggeriscono di interrogar su tale argomento un vecchio solitario. Il vecchio gli dichiara che per quell’erba portentosa devesi intendere il libro di Kalîlah e Dimnah che si conserva nei tesori del re d’India. Questi, richiesto di mandarlo al re Anûshîrvân, lo manda, benchè a malincuore, non osando negar nulla a un re così grande e potente. Così il libro di Kalîlah e Dimnah, libro di favole, passò nell’Iran. dove fu tradotto in pehlevico, poi dal pehlevico in arabo e in persiano.
Bûzurc’mihr intanto cade in disgrazia di Anûshîrvân sotto il sospetto di avergli involate alcune pietre preziose di un suo monile. Egli è posto in prigione carico di ceppi, ma dalla sua prigione, con le sue parole ferme e piene di significato, sorprende e atterrisce il re. Giunge intanto da parte dell’Imperatore di Grecia un messaggiero con un piccolo scrigno, dicendo che l’Imperatore pagherà tributo al re Anûshîrvân, purchè egli, senza aprirlo, indovini ciò che sta chiuso nello scrigno. Il solo Bûzurc’mihr, tolto dal suo carcere, indovina con mirabile sottigliezza che nello scrigno trovansi tre perle, e il re, sorpreso e soddisfatto, gli restituisce la sua grazia, tanto più che il saggio gli fa ora sapere che le gemme, cagione della sua disgrazia, furono involate al re da uno sparviero, mentre egli, in un giorno di caccia, si era addormentato in una selva.
Seguono nel poema le sentenze di Anûshîrvân, il suo libro di avvertimenti al figlio suo, Hormuzd, le sapienti risposte da lui date alle domande difficili dei sacerdoti, l’ultima sua guerra con l’Imperatore di Grecia che gii si sottomette, i suoi consigli ad Hormuzd ch’egli designa re, e il suo sogno nel quale gli è rivelata la nascita di Maometto. — Questo sogno si crede da molti, e con ragione, che sia un’aggiunta di qualche tardo interpolatore.
Il re Hormuzd. — Hormuzd, appena salì sul trono, incrudelì contro i ministri del padre suo, condannandoli a morte. Benchè egli si penta del suo violento operare da tutte le parti dell’Iran si levano tumulti contro di lui, finch’egli non trova altro valido aiuto che nel braccio di Behrâm Ciûbîneh, uomo rozzo e impetuoso, ma di valore grandissimo. Behrâm sconfigge il re Sâveh, lo pone a morte e ne invia la testa a re Hormuzd, a cui l’estinto nemico aveva incusso tanto terrore. Egli vince anche Parmûdeh, il figlio di Sâveh, e lo costringe a chiedere in dono la vita; ma perchè in un giorno Behrâm si comporta in modo villano con Parmûdeh e Parmûdeh ricorre perciò a re Hormuzd, egli cade in disgrazia del suo re, che, per dileggio, gli manda un fuso e una veste da donna.
Behrâm allora concepisce un primo pensiero di ribellione, indossa la veste inviatagli dal re per mostrare a’ suoi guerrieri in qual conto il re abbia tenuti i suoi servigi, e avendo udito da una donna ch’egli è destinato a regnare, assume costume e vestimenta reali. Intanto egli manda una corba piena di pugnali in dono a Hormuzd e parla de’ suoi disegni ai capitani dell’esercito, quantunque consigliato in contrario dalla sorella Gordieh. Behrâm non le porge ascolto, ma fa coniar monete col nome di Khusrev Pervîz, figlio di Hormuzd, e le manda al re. Khusrev Pervîz, per timore del padre, fugge dalla corte; Hormuzd manda contro di Behrâm con un esercito Ayîn Gashasp, che è ucciso da un compagno, e Hormuzd, dolente di ciò, è accecato da Bendûy e da Gustehem.
Il re Khusrev Pervîz. — Appena salito al trono, il re Khusrev Pervîz si reca dal padre suo a dimandargli perdono, e Behrâm Ciûbîneh muove ora la guerra al novello re. Khusrev Pervîz e Behrâm si incontrano a capo dell’esercito, convengono a parlar fra di loro, ma non potendosi accordare si separano con animo corrucciato e pieno di rancore. Behrâm dà un assalto notturno al campo di Khusrev, e Khusrev fugge. Bendûy e Gustehem, zii di Khusrev, fanno uccidere il vecchio re Hormuzd, e Khusrev cerca un rifugio nei dominii dell’Imperatore di Grecia. Behrâm, allora, dopo essersi accordato co’ suoi fidi, si asside in trono.
Khusrev, intanto, per vie deserte giunge incognito fino al confine di Grecia, laddove un solitario gli predice l’avvenire. Khusrev manda alcuni suoi principi all’Imperatore per domandar soccorsi ond’egli possa riavere il trono perduto, ma l’Imperatore promette molto e nulla mantiene, finchè poi, vinto dalle preghiere e da alcune sue riflessioni, manda un esercito a Khusrev e gli dà in isposa, inoltre, una sua figlia. Khusrev ritorna nell’Iran, raggiunto per istrada da Bendûy, e Behrâm scrive alcune lettere ai principi dell’Iran, che, intercettate, sono portate al re. Seguono due battaglie, nella prima delle quali cade il capitano greco Kût, mentre nella seconda Khusrev è sconfitto e, inseguito solo e disperato di aiuto dai suoi nemici, sarebbe anche stato ucciso da loro, se l’angelo Serôsh, apparso all’improvviso, non l’avesse salvato. In una terza battaglia Behrâm è sconfitto e trova un rifugio presso il Principe di Cina. Khusrev ne fa ardere le tende e rimanda all’Imperatore l’esercito greco che l’aveva aiutato a riprendere il regno.
Firdusi interrompe il racconto per piangere la morte di un figlio.
Behrâm, frattanto, alla corte di Cina si fa ammirare per il suo valore. Egli uccide l’orgoglioso Mekatûreh di cui anche il principe aveva timore, uccide il leone Keppi e ottiene in isposa la figlia del principe stesso. Ma Khusrev che ha notizia di ciò, scrive in proposito al Principe di Cina, manda nascostamente Kharrâd Berzîn che fa uccidere Behrâm da un sicario di nome Kalûn, indi ritorna nell’Iran presso di Khusrev. L’Imperatore, non potendo far altro, distrugge la casa di Kalûn e ne disperde la famiglia. Fatto ciò, egli scrive alla sorella dell’ucciso Behrâm, a Gordieh cioè, chiedendola in isposa. Ma Gordieh non gli dà ascolto e fugge. Il Principe le manda dietro Teburg, e Gordieh l’uccide.
Khusrev intanto, per vendicar la morte del padre suo, fa uccidere Bendûy, benchè suo zio e a lui sì devoto e fedele. Gustehem, l’altro zio di Khusrev e colpevole egli pure della morte di Hormuzd, fugge presso Gordieh e la sposa, ma costei, vinta dalle promesse del re, fa uccidere il suo novello sposo, e, chiamata dal re in corte, è sposata da lui.
Nasce intanto da Maria, prima sposa di Khusrev e figlia dell’Imperatore, un bambino sotto cattiva stella, di nome Shîrûy. L’Imperatore ne riceve lieto la notizia e ridomanda a Khusrev il legno della croce di Cristo che i Persiani avevano involato. Ma Khusrev gli risponde, non solo negando di mandar quel legno, ma anche meravigliandosi del culto della croce.
Khusrev intanto, andando alla caccia, trova nelle selve la bella Shîrîna che fu già amante di lui nella sua gioventù. Egli la riconosce festoso e le dà onorevole luogo nel suo gineceo; e perchè i principi suoi hanno alcun che a ridire su ciò, egli ne fa tacere ben tosto i sospetti e le parole maligne. Shîrîna intanto cresce di potere sull’animo del re; ella uccide l’infelice Maria e fa porre in catene il figlio stesso di lei, Shîrûy.
Seguono alcuni fatti del regno di Khusrev, come la costruzione di un trono meraviglioso, di nome Tâk-dîs, l’avventura di Bârbed, cantore e suonatore di liuto, che trionfa de’ suoi nemici e diviene carissimo al suo re innamorato delle sue canzoni, e finalmente la costruzione di Madâin.
Ma intanto egli si fa ingiusto e crudele; il principe Gurâz chiama nell’Iran l’Imperatore che rompe la fede a Khusrev, e i grandi liberano Shîrûy dal carcere e lo pongono in trono. Khusrev è fatto prigioniero e mandato da Shîrûy in Ctesifonte.
Il re Shîrûy, detto anche Kobâd. — Shîrûy, appena re, manda i suoi principi a chieder perdono al padre che risponde cruccioso e sdegnato in parte, in parte dando saggi consigli al figlio suo. Shîrûy, all’udir le parole del padre, piange amaramente, ma i principi gliene fanno acerbi rimproveri, mentre il fedele Bârbed, udendo prigioniero il suo re, arde il liuto e si tronca le dita della mano destra por non aver più a servire nessun altro signore. I principi intanto, riottosi e ribelli, sforzano Bârbed a decretar la morte del padre che è scannato da un sicario. Shîrîna, richiesta da Shîrûy come sposa, si dà morte volontaria, e Shîrûy, poco dopo, è fatto morir di veleno.
Seguono i brevi regni di Ardeshîr figlio di Shîrûy, di Gurâz detto Ferâyîn, ribelle capitano, uccisi ambedue a tradimento dopo pochi mesi di regno, delle due regine Pûrân-dokht e Azermidokht, e di Farrukhzâd, buono, leale e giusto, pianto da tutti i buoni, quando morì avvelenato.
Il re Yezdeghird. — L’infelice Yezdeghird fu l’ultimo dei re di Persia. Appena salito al trono, egli potè riordinare il regno e governarlo per diciotto anni. Ma intanto gli Arabi, condotti da Saad figlio di Vakkâs, minacciano ai confini, e Yezdeghird manda a combatterli Rustem, prode e valoroso, che fin da principio prevede assai, male della sua impresa e ne scrive al fratello. Dopo inutili trattative con Saad, Irani e Arabi vengono alle mani, e Rustem cade ucciso in battaglia.
Yezdeghird, consigliatosi coi suoi principi che l’accompagnano piangenti, fugge verso il Khorassân ponendo ogni sua fiducia in Mâhûy, uomo di nascita vile che il re aveva beneficato ed esaltato. Ma anche Mâhûy era un traditore; egli accoglie il suo re con ogni testimonianza di onore e di ossequio, ma secretamente incita l’ambizioso Bîzhen a venir con armi e con armati. In un combattimento presso Merv, Yezdeghird è abbandonato da tutti e trova rifugio, in sul cader della sera, in un mulino, posto sul fiume Zark. Il mugnaio Khusrev esce al mattino e meravigliato trova l’incognito guerriero, seduto pensoso e mesto sopra un fascio d’erbe tagliate. Yezdeghird lo prega di andargli a prendere un poco di cibo e un fascio di verbene, quale tenevano in pugno i seguaci di Zoroastro nel recitar le loro preghiere.
Il povero mugnaio si presenta al borgomastro per le richieste cose, e il borgomastro, meravigliato della domanda d’un fascio di verbene, lo fa condurre alla presenza di Mâhûy che da tutte le parti cercava ansioso il fuggitivo re per trarlo a morte. Ormai non è più alcun dubbio che l’incognito guerriero non sia lo stesso re Yezdeghird. Mâhûy ordina al mugnaio di ucciderlo, pena la morte s’egli non obbedisce, ne valgono a dissuaderlo le preghiere dei sacerdoti e dei principi.
Il mugnaio, atterrito dalle minacce di Mâhûy, torna al mulino e a malincuore uccide il suo re che inerme gli si dà nelle mani. I cavalieri dì Mâhûy gliene recano l’annunzio, e due servi gettano nel fiume Zark il cadavere dell’ucciso re. Alcuni monaci, al mattino che seguì, lo trovano, lo ravvisano, l’estraggono dalle acque e gli danno onorevole sepoltura con gran pianto e cordoglio. Mâhûy, irritato di ciò, li fa tutti mettere a morte.
Così, per un poco, il tristo si asside sul trono del re dei re; ma Bîzhen, offeso da tanto ardire e tracotanza, lo assale all’improvviso con un esercito e lo uccide. Con Yezdeghird si chiude la serie dei monarchi persiani, e la conquista degli Arabi segna l’entrar nell’Iran di una nuova fede, di una nuova legge e di nuovi dominatori. Ecco le parole con le quali Firdusi termina il suo racconto, alludendo alla potestà temporale e spirituale dei Califfi, sottentrata a quella degli antichi re:
Sotto il nome d’Omàr, da ch’ei ci addusse
Novella fede, in cattedra mutando
Segue Firdusi, in un ultima pagina, a notar il giorno in cui terminò il poema, che fu il giorno d’Ird del mese d’Isfendarmudh, dell’anno 400 dell’Egira (25 Febbraio 1010 d. C). Nota l’anno di sua età che era allora il settantesimo primo, il numero dei distici del suo poema che è di sessantamila, e augura ogni bene a Mahmûd. Termina poi con le parole più sopra riferite e che qui giova ripetere:
Così venne al suo fin, del verso mio
Tutta è piena la terra. Ognun che alberga
Senno e fede e saggezza entro al suo core,
Mi loderà dopo la morte mia,
Ned io morrò più mai, ch’io son pur vivo,