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del Turan, mantenendo pur sempre con Kâvus; intorno a ciò, un carteggio clandestino. Afrâsyâb non vorrebbe credere; tuttavia, per conoscer meglio il vero, manda nuovamente Garsîvez a Kang-dizh per invitar Siyâvish alla corte. Garsîvez questa volta dipinge a Siyâvish come a lui nemico il principe Turanio; si guardi perciò dal cedere all’invito di andare in corte, scusandosi con la mal ferma salute di Ferenghîs. Il giovane principe cade nell’inganno, e Garsîvez, latore di una sua lettera ad Afrâsyâb, gli fa intendere che Siyâvish è un ribelle, che il poter suo è pericoloso per il Turan, che segno di sua perfidia è il rifiuto di recarsi in corte.
Un sogno spaventoso fa consapevole Siyâvish del suo pericolo. Destatosi al mattino, egli manifesta l’estrema sua volontà a Ferenghîs, le raccomanda il figlio suo che presto nascerà da lei, e le dà l’ultimo addio. Uscite dalla reggia armato e con armati, ecco ch’egli s’incontra in Afrâsyâb sopravvenuto all’improvviso con le sue schiere. Garsîvez getta la maschera e grida a Siyâvish che quel suo presentarsi ad Afrâsyâb con armi e con armati è manifesto segno di ribellione. Gli Irani che sono ancora con Siyâvish, vorrebbero combattere, ma egli si lascia prendere senza resistenza. Tratto in carcere, Afrâsyâb, ancora titubante per poco, ma poi vinto dai perfidi consigli di Garsîvez, non ascoltando i pianti e le preghiere di Ferenghîs, lo condanna a morte e lo fa decapitare in un piano deserto. La stessa Ferenghîs non sarebbe sfuggita alla stessa sorte, se Pîrân, accorrendo all’improvviso dal Khoten, facendo osservare ad Afrâsyâb che presto essà sarà madre, non l’avesse salvata, benchè a stento, e non l’avesse condotta con sè nel Khoten.