Gli Argonauti/Libro I
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LIBRO I.
Da te, Febo, esordendo, or io le geste
Ricorderò di quegli antiqui eroi,
Che per la foce dell’Eusino e in mezzo
Alle due rupi Cianee varcando
5Argo addrizzâr, ben corredata nave,
Per voler di re Pelia, al Vello d’oro.
Pelia un presagio udito avea, funesta
Una sorte aspettarlo, e che per opra
Spento cadrebbe di tal uom, che a lui
10D’infra il popol venirne ei visto avesse
Calzo di solo un piè; nè guari poi,1
Giusta quel vaticinio, a piè Giasone
Guadando l’acque del torrente Anauro
L’un calzare salvò, lasciò del fiume
15Entro i gorghi melmosi infitto l’altro;
E anch’esso intervenia così com’era
Al convito che il re sacro imbandia2
Al padre suo Nettuno e agli altri dei,
Sol negligendo la Pelasga Giuno.
20Subitamente il re, lui sì veggendo,
Vi fe’ sopra pensiero, e un periglioso
Gli meditò di mar lungo viaggio,
Tal che perda nell’onde, o fra straniere
Genti caduto, al ritornar la via.
25Già de’ prischi cantor suonano i carmi
Com’Argo instrutto dalla dea Minerva
La nave fabbricò. Prosapia e nome
Degli eroi naviganti, e l’errar lungo
Io dirò per lo mare, e quanto errando
30Oprâr. Sian fauste al canto mio le Muse!
Primamente d’Orfeo farem ricordo,
Cui partorì Calliope stessa (è fama)
Presso al colle Pimpléo, poi che si giacque
Del Tracio Eagro al fianco. A lui dan vanto
35Mollite aver le indomite de’ monti
Pietre al suon di sue note, e la corrente
Arrestata de’ fiumi; e ancor segnali
Stan del poter de’ canti suoi que’ faggi
Che su la spiaggia della Trace Zona
40Frondeggiano in filari, e ch’ei dal tocco
Di sua cetra commossi attrasse quivi
Giù vie vie dal Pierio. Or lui sovrano
Di Pieria Bistonide Signore
L’Esònide Giason tolse compagno,
45Consigliante Chirone, all’alta impresa.
Lo segue Asterión, cui, su le sponde
Del vorticoso Apidano, Comète
Generò che in Piresia al Fillio monte
Abita presso, ove col grande Apidano
50Il divino Enipéo, da lungi entrambo
Procedendo, si mesce e scorre insieme.
Poi, Larissa lasciando, il figlio venne
D’Elato, Polifemo, il qual già tempo
Fra’ possenti Lapiti avea pugnato,
55Quando i Lapiti a sanguinoso assalto
Rupper contro a’ Centauri. Era allor d’anni
Verde, e le membra or gravi ha per etade,
Ma bellicoso a par di prima il cuore.
Nè di Giason lo zio materno Ificlo
60In Filace rimase. A moglie Esone
Tolta Alcimeda avea, d’Ificlo suora
E di Filaco figlia. Il parentado
Lui dello stuolo ad esser parte indusse.
Nè il re della di greggi altrice Fere,
65Admeto, a piè del Calcodonio monte
Si ritenne; nè in Alope gli astuti
Ed opulenti di Mercurio figli,
Erito ed Echione; e terzo ad essi
Altro fratello Etálide s’aggiunse,
70Cui su l’Anfriso partorì la figlia
Di Mirmidòne, Eupoleméa di Ftia,
Mentrechè d’ambo i primi Antianira,
Di Méneto figliuola, era la madre.
L’opulenta Girtona abbandonando,
75Di Cenéo venne anco il figliuol, Corono,
Che prode è sì, ma non miglior del padre;
Di Céneo che i poeti, ancor vivente,
Cantano a morte da’ Centauri addotto,
Quando ei solo dagli altri combattendo
80Cacciolli a fuga. Impetuosi addietro
Si volser quelli; ma fugar, nè fiedere
No ’l potero: inconcusso, invulnerato
Entro terra sfondò, scampando al nembo,
Che gli avventâr, di poderosi abeti.
85Seguìa poi Mopso Titaresio, a cui
Più che ad altri insegnò lo stesso Apollo
Divinar per auspicii. E con lui viene
Euridamante, di Ctimeno il figlio,
Che in Ctimena, de’ Dólopi Cittade,
90Facea soggiorno al Xinio lago in riva.
Fuor d’Opunte spingeva Attore il suo
Proprio figlio Menezio a congregarsi
Con quell’oste di prodi. Euritïone
Siegue, e il forte Eribóte; a Teleonte
95Figlio Eribóte; Euritïone ad Iro,
D’Attore prole; e vien con essi in terzo
Oïléo, che di forza agli altri è sopra,
Destro i nimici ad incalzar da tergo,
Poi che in fuga gli ha vòlti. Invia Caneto,
100Figliuol d’Abante, dall’Euboica terra
Canto, assai dell’andar desideroso,
Ma che tornarne alla natia Cerinto
Non dovea più, però che fato egli era
Ch’esso e il dotto indovin Mopso, sbandati
105Ne’ deserti di Libia, avesser morte.
Tanto è ver che dall’uom non mai remota
La sventura è così, che no ’l raggiunga;
Quando in Libia que’ due giacquer sepolti
Si da’ Colchi lontan, come del Sole
110Lungi l’Orto a vedersi è dall’Occaso.
Clizio ed Ifito poi vengon, signori
D’Ecalia e figli d’Eùrito feroce;
D’Eúrito, a cui donato ha l’arco Apollo,
Nè gli giovò, dacchè pur oso egli era
115Al nume donatore intender lite.
Quindi d’Eaco venieno ambo i due figli,
Non però insieme, e non da un loco istesso;
Chè da Egìna esulando eran partiti
Divisamente, allor che a morte rea
120Dieder Foco, il fratello. Telamone
Un’isola s’avea nell’attich’acque3
Fatta sua stanza; ed a soggiorno in Ftia
Posto s’era Peléo da lui disgiunto.
Dal suol Cecropio il bellicoso mosse
125Bute del prode Teleonte figlio,
E d’asta esperto vibrator Falero.
Mandollo Alcone, il padre suo. Non altri
Figli avea, che di sè, di sua vecchiezza
Pigliasser cura; e nondimen quel nato
130A lui d’anni già grave unico figlio
Quivi il mandò, perchè splendesse in mezzo
A que’ nobili eroi. Teseo che a tutti
Sopravanzava gli Erettìdi, in atre
Catene avvinto nel Tenario fondo
135Giacea sotterra, ove l’amica traccia
Di Piritoo seguì: coppia che a tutti
Avrìa l’impresa agevolata assai.
Tifi d’Agnio figliuol venne da Sifa,
Tespia borgata, esperto e destro i flutti
140A preveder che per lo vasto mare
La bufera commove, esperto i venti
A scansar tempestosi, e ben di nave
Guidar col Sole e con la Stella il corso.
Lo incitò di que’ prodi irne allo stuolo
145La tritonia Minerva, e ben gradito
Egli ad essi n’andò. Fliante andovvi4
D’Aretiréa, che per favor di Bacco,
Padre suo; là d’Asopo appo le fonti
Vivea splendidamente. E d’Argo insieme
150Tálao venne ed Aréo, figli a Biante,
E Leódoco forte, a lor fratello,
Cui partorì Pero Neleide, quella,
Per cui durò l’Eólide Melampo
Nelle stalle d’Ificlo aspra fatica.
155Nè la possa magnanima d’Alcide
Frustrò la brama che Giason n’avea:
Degli eroi concorrenti udì la fama,
Quando d’Arcadia ei fea ritorno ad Argo,
Vivo portando quel cignal che dentro
160Alle fratte di Lampia e sul lagume
Si pascea d’Erimanto; ond’egli appena
Messo ha il piè di Micene in su la prima
Piazza, la belva di legami avvinta
Scaricò giù dalle gran spalle, e celere,
165Di suo voler, non d’Euristeo, là corse,
Col giovin Ila suo fido compagno,
Che a lui faretra custodiva ed arco.
E di Danao divino il germe illustre
Nauplio anch’ei ne venìa, Nauplio che nacque
170Di Clitoneo di Naubolo figliuolo,
E Naubolo di Lerno, a cui fu padre
Preto che figlio è d’altro Nauplio, a cui
La Danáide Amimóne un dì diè vita,
Poi che a Nettun si fu congiunta; ed egli
175Tutti avanzava nella nautic’arte.
Di quanti Argivi eran venuti, Idmone
Ultimo giunse. Ei di morir per via
Ben sapea dagli augurii, e sì pur venne,
Perchè il popolo a lui biasmo non dèsse
180D’una gloria negletta. Ei non d’Abante
Figlio era in ver, ma il generò (se bene
Fra gli Eôlidi ascritto) il Latonide;
E Apollo ei stesso il divinar gli apprese,
E avvisar degli augelli e delle ardenti
185Vittime sovra l’are i varii segni.5
E l’Etólide Leda il poderoso
Mandò da Sparta lottator Polluce,
E di corsieri agitator perito
Castore: entrambo li produsse a un parto
190Di Tindaro consorte entro le case;
Ed or, benchè assai cari, il partir loro
Non disgradì, chè glorie a lor desìa,
Degne del letto, ond’ei nascean, di Giove.
D’Afarete figliuoli indi Linceo
195Venian d’Arene e il robustissim’Ida,
Ambo in gran possa arditi assai: Linceo
Famoso ancor per tal di vista acume,
Che, se il grido è verace, anco sotterra
Agevolmente discernea le cose.
200Maggior di quanti del divin Neleo
Figli nacquero in Pilo, ivi pur mosse
Periclimeno, a cui forza infinita
Diè Nettuno, e poter qual più gli piaccia
Tramutar, combattendo, aspetto e forma.
205Dall’Arcade contrada Anfidamante
Ne veniéno e Ceféo, che nel retaggio
D’Afidante, in Tegéa, facean soggiorno;
Ambo figli d’Aléo. Terzo li siegue
Ancéo: lo manda il padre suo Licurgo,
210Degli altri due maggior fratello. A cura
Del vecchio Aleo nella paterna casa
Sè ritenendo, a que’ fratelli suoi
Diè per compagno il proprio figlio; e questo
D’orsa Menalia entro la pelle avvolto.
215Nella destra brandìa grande una scure
A doppio taglio, chè in riposta parte
L’armi sue l’avo Aléo, se ad impedirne
Ciò valea la partenza, avea nascose.
Venne anche Angèa, che figlio esser del Sole
220Dicea la fama, e di ricchezze altero
Imperava agli Eléi. Molta avea brama
Di veder Coleo, e il re de’ Colchi Eeta.
Asterio quindi ed Anfione, entrambo
D’Iperasio figliuoli, ivi son giunti
225Dall’Acaica Pellene, un dì da Pelle,
Lor paterno avo, in ciglio al mar fondata.
Tènaro abbandonando, Eufemo venne,
Cui di piè celerissimo fra tutti
A Nettun partorì del forte Tizio
230La figlia Europa. Ei discorrea su l’onde
Pur del cerulo mar, nè i piè bagnava,
Ma sol l’aqueo cammin con le veloci
Piante sfiorava e via sovr’esso a volo.6
Altri veniéno di Nettun due figli:
235Dalla nobil Mileto uscito Ergino,
E dalla sede dell’Imbrasia Giuno,
Partenia, il forte Ancéo, che si dan vanto
D’arte navale esser maestri e d’arme.
Mosse da Calidone il vigoroso
240Eníde Meleagro, e in un con lui
Laocoonte che d’Enèo fratello
Era, ma nato da diversa madre
Che ancella fu. Mandollo Enèo, siccome
D’età provetto, curator del figlio
245Che giovinetto al valoroso stuolo
Così entrò di que’ prodi; e ben cred’io
Che fra lor non sarebbe altri prestante
Più di lui, tranne Alcide, ove un sol anno
Rimasto fosse in fra gli Etóli ancora.7
250Materno zio lo seguitava Ificlo,
Di Testio figlio, in saettar non meno
Che in pugnar di piè fermo esperto assai.
Di Lerno Olenio indi veniva il figlio
Palemonio; di Lerno, al comun detto,
255Ma di Vulcano, invero; onde mal fermo
Era in piè; ma persona e forza in lui
Niuno ardiva spregiar, sì che fra gli altri
Anch’ei di gloria era a Giason fautore.8
Da’ Focensi convenne Ifito, figlio
260Di Naubolo Ornitìde. Ospite egli ebbe
In sua casa Giasone allor che a Delfo
Questi movea, l’oracolo del nume
A consultar su quel naval passaggio.
Zete e Calai da poi, di Borea figli,
265Vengon, che a Borea partoriti avea
L’Erettide Orizìa là nell’estremo
Della gelida Tracia, ov’ei, rapita
Dal Cecropio terren mentre che in riva
Roteava all’Ilisso in lieto coro,
270La portò presso al Sarpedonio sasso,
Del fiume Ergino in sulle sponde; e quivi
D’atre nubi l’avvolse, e la compresse.
Que’ due de’ piè sovra le punte in alto
Librandosi, dall’un lato e dall’altro
275Scotean brune ali (meraviglia al guardo!)
D’auree scaglie smaglianti, e su le spalle
Giù dal capo e dal collo qua e là
Svolazzavano all’aura azzurre chiome.
Nè il figlio pur d’esso re Pelia, Acasto,
280Nelle case restar volle del padre;
Nè restar volle della dea Minerva
Argo ministro. E l’un pertanto e l’altro
Fra il bello stuolo annumerar s’è fatto.
Tanti a Giason venner compagni, e tutti
285Minii eroi li nomâr gli abitatori
De’ lochi intorno, perocché di quelli
La più parte e i migliori esser del sangue
Delle figlie di Minia si dan vanto;
E allo stesso Giason madre era pure9
290Alcìmeda che nata è di Climene,
Figlia anch’essa di Minia. E poi che i servi
Ebber tutto apprestato il fornimento
Di che d’uopo han le navi essere instrutte,
Quando il bisogno a veleggiar l’uom tragge,10
295Mosser quei, la cittade attraversando,
Là dov’era il naviglio in su la spiaggia
Di Págase Magnesia. Una gran turba
Vi concorrea di popoli, e fra tutti
Brillavano gli eroi siccome stelle
300D’in framezzo alle nubi; e armati e presti
Li veggendo affrettarsi ogni uom dicea:
Quale, o Giove, di Pelia è mai la mente?
A che tanto d’eroi stuolo da tutta
Grecia fuor manda? Oh possan essi almeno
305Strugger col foco, incenerir la casa
D’Eeta re, tosto che nieghi ad essi
Dar l’aureo vello! Una ben lunga via,
E ben ardua è l’impresa, a cui ne vanno.
Correan per la città queste parole;
310E le donne, le mani alzando al cielo,
Facean priego agli dei che fausto a quelli
Concedano il ritorno. E l’una all’altra
Sì dicean, sospirando e lagrimando:
E a te pur anche, o Alcìmeda infelice,
315Tardi, sì, ma poi giunta è la sventura,
E non tocchi di vita a fin beato.
O miserando anch’ei non poco Esone!
Meglio per lui se co’ funébri onori
Già composto sotterra ei riposasse,
320Inscio di quanti ne verran travagli!11
Deh, quand’Elle peri, deh la negra onda
Anche Frisso sommerso avesse insieme
Con quel montone! Ah! ma dovea quel tristo
Fatal bruto pur anco umana voce
325Fuor mandar, perchè guai, perchè infiniti
Ad Alcìmeda poi vengan dolori.
Sì le donne dicean, mentre alla spiaggia
S’avvian quelli; e le ancelle ed i famigli
Intorno a lor s’affoltano. La madre
330Al corpo di Giason si tenea stretta:
Acuto duol feria ciascuna; e in letto
Giacente il padre per egra vecchiaia
S’avvoltò fra le coltri, e tutto ascoso
Gemea. Giasone d’acquetar s’adopra
335Il dolor loro, e d’affidarli; e a’ servi
Poi le marzie recargli arme comanda;
E muti e mesti ei le recâr: la madre
Come stese ha le braccia intorno al figlio,
Così restando, dolorosamente
340Piangea, qual la fanciulla che in disparte
Stringendosi amorosa alla persona
Di canuta nudrice, e geme e plora
Ch’altri non ha che cura abbian di lei.
Ma l’è d’uopo menar vita infelice
345Sotto madrigna che testè di molti
L’aspreggiava rimbrotti: addentro in cuore
Il dolor le fa groppo, e fuor di lagrime
Non può tanto sgorgar quanto n’ha brama.
Così miseramente, al proprio figlio
350Alcìmeda avvinghiata, sospirava,
E dicea lamentosa: Oh! almen quel giorno
Ch’io di re Pelia il fier comando udii,
Spirata fossi, e d’ogni affanno uscita;
Chè tu con le tue mani, o figlio mio,
355Posta in tomba m’avresti; e questo egli era
Il sol favor che aver da te mi resta,
Di mie cure in nutrirti, in allevarti
Satisfatta abbastanza. Or io fra tutte
Le donne Achee già in alto onor tenuta,
360Derelitta or vivrò, pari ad ancella,
In vuota casa, ahi lassa! del desio
Struggendomi di te, di te, per cui
Splendor tanto e diletto ebbi finora,12
Solo per cui la prima volta il cinto
365Sciolsi, e l’ultima fu, poi ch’Ilitìa
Il favor mi negò d’altri portati.
Oh sventura, sventura! Imaginato,
Nè in sogno pure, io non ho mai, che Frisso
Dovea tanta fuggendo a me dar pena.
370Così piangendo ella doleasi, e a lei
Gemean le ancelle intorno. Allor prendea
Con molti accenti a confortarla il figlio.
Troppo così non contristarmi, o madre,
Con lugubri lamenti: il mal, piangendo,
375Non impedisci, e duolo aggiungi a duolo.
Imprevedute agli uomini sventure
Mandan gli dei: tu, benchè assai ti gravi,
Fa’ di soffrir la parte tua da forte.
E di Pallade ancor nelle promesse
380T’affida, e negli oracoli che Febo
A noi fausti rendette, e spera inoltre
Di tanti eroi nella concorde aita.
Torna or dunque tranquilla alle tue stanze,
Quivi sta con le ancelle. Augurio infausto
385Non farti al nostro navigar: gli amici
Ne verran meco ed i famigli al porto.
Disse, e fuor del palagio il piè sospinse;
E qual ne va del profumato templo
Apollo in mezzo alla materna Delo,
390O a Claro o a Delfo, o dello Xanto all’acque
Per l’ampia Licia; egli così tra il folto
Popolo procedea. Scoppiò da tutti
Concorde un viva: una ministra antica
Della diva Diana, Ifiade, incontro
395Gli si fece, e la destra a lui pigliando
La bacia, e dire e dir volea, ma nulla
Dirgli potè per l’accorrente folla;
E si trasse da banda, e vecchia il loco
A’ più giovani cesse; ed ei, Giasone,
400Seguitando sua via, lungi lasciolla.
Dalla città poi fuor venuto e giunto
Di Pàgase alla spiaggia, accolto quivi
Fu da’ compagni che all’Argóo naviglio
Stavan presso attendendo. Egli arrestossi
405Sovra un rialto, e tutti a lui dinanzi
Si raccolsero; ed ecco Acasto ed Argo
Scorgon dalla città venir correndo,13
E stupîr che animosi essi a malgrado
Quivi accorran di Pelia. Una di tauro
410Pelle di bruno pel giù dalle spalle
Al piè l’Arestorìde Argo ricopre:
Bella clamide l’altro a doppio filo,
Cui la germana Pelopèa gli diede.
Nulla ad essi Giason; sol di sedersi
415Cennò lor nel concilio. A mano a mano
Su le vele ravvolte e su ’l corcato
Alber tutti s’assisero, e l’accorto
D’Eson figlio così lor parlamenta:14
Tutto ch’è d’uopo a corredar naviglio,
420Già tutto al nostro è provveduto e presto,
Sì che nulla al salpar ne fa ritegno,
Sol che spirin buon’aure. Ma se andarne
Dobbiamo, amici, alla città d’Eeta
Di buon conserto, e di conserto quindi
425Ritornarne alla Grecia, un capitano
Di tutti noi che lo miglior s’estìmi,
Francamente eleggete, a cui di tutto
Sia commessa la cura, e guerre e paci
Muover, fermar, con le straniere genti.
430Disse, e in Ercole tutti s’affissâro,
Sedente in mezzo, e ad una voce tutti
Proclamavanlo capo. Ei d’ivi stesso
Ove sedea, la destra man protese,
E fe’ queste parole: A me nessuno
435Tanto onor tribuisca; io non l’accetto;
E m’opporrò ch’altri di noi s’elevi
A tal grado. Sol quei che questo stuolo
Ha qui raccolto, a questo stuolo imperi.15
Tale spiegò nobil sentenza Alcide,
440E lodaronla tutti. Il valoroso
Giason sen piacque, e surto in piè, siffatto
Disse a quegli animosi incitamento:
Se del comando il glorioso incarco
Voi date a me, più alla partenza indugi
445Non frappongansi ormai. Tosto d’Apollo
Con sacrificii si propizii il nume,
Poi le mense apprestiamo. E mentre i servi
Che alle mie stalle attendono, verranno
Qua conducendo i miglior bovi eletti,16
450Noi variamo la nave e d’ogni arredo
Armiamla, e il posto a ciaschedun remante
Traggasi a sorte; ed un aitar su ’l lido
Alziamo a Febo Imbarcator, che sacra
Mi fe’ promessa che del mar le vie
455M’insegnerà, se dagli onori a lui
Comincerò la commendata impresa.
Tacque, e primier si volse all’opra. Sursero
Gli altri l’esempio a seguitarne, e tratti
Di dosso i pallii, su spianato sasso
460Li ammucchiâr, cui con l’onde il mar non copre,
E sol di salsa aspergine lo spruzza,
Quando gonfia in tempesta. E primamente,
Siccome Argo insegnò, con torto fune
Legâr forte la nave, e d’ambo i lati
465La strinser sì che nelle travi addentro
Ben figgendosi i chiovi, incontro a’ flutti
Salda si regga. Indi escavâr sì largo
Un canal, come larga è la carena,
Per lo qual dalle man spinta trascorrere
470Dee la nave nel mare, e il fan più cupo
Più procedendo; e steso in esso un letto
Di tondi curri, v’acconciâr sui primi
La nave sì che sdrucciolando scorra
Giù per la china. E d’ambe parti i giovani
475S’accinsero co’ petti e con le braccia
A sospingerla, e Tifi entro vi salse
Per comandarne e moderar gl’impulsi.
Alto un grido ei mandò: tutti un grand’impeto
Fêr con tutte lor forze in un congiunte,
480E la smosser di loco; indi pontando
Forte co’ piè, vie vie più in là la spingono.
Siegue celeremente Argo l’impresso
Moto, e acclamando da un lato e dall’altro
Instano i vigorosi: scricchiolavano
485Disotto alla carena ponderosa
Compressi i curri, e intorno a lor si leva
Un negro fumo: in mar la nave scivola,
E quei ne la ritennero, chè troppo
Non trascorresse; indi agli scalmi i remi
490Accomandan co’ stroppi; albero e vele
Vi portan dentro, e vittovaglia ad uopo.
Poi che ogni cosa ebbero acconcia, i banchi17
Pria partironsi a sorte, ad ogni banco
Due sedenti; e il di mezzo hanno ad Alcide
495Destinato; e ad Ancéo che di Tegéa
La cittade abitava. A lor due soli
Di concorde voler, non con le sorti,
Diêr distinto dagli altri il loco in mezzo;
E tutti poi del buon naviglio a Tifi
500Voller dato il governo. Indi raccolto
Un cumulo di pietre, in su quel lido
Ne fecero un altar sacro ad Apollo
Litoral detto e Imbarcator; poi rami
Vi steser sopra di risecco olivo.
505Di Giasone i bifolchi aveano intanto
Là condotti due buoi, cui presso all’ara
Tosto i giovani han tratto, e la lustrale
Acqua e le moli altri apprestâr. Giasone
Fe’ questo priego al patrio nume Apollo:
510M’ascolta, o re, che in Pégase soggiorni,
Ed in quella città che dal mio padre
Tragge nome d’Esonia, e a me che in Delfo
Ti consultava, hai d’insegnar promesso
Del gran viaggio il cammin destro e il fine;
515Tu che sei del cimento il motor primo,
Or tu stesso colà co’ miei compagni
Guida la nave a salvo porto, e salvi
Ne ritorna alla Grecia. A te su l’ara
Sacrificio farem di tanti tauri
520Quanti di là ritorneremo; ed io
Doni splendidi in copia a Delfo e a Delo
Ti recherò. Da noi benigno intanto,
O lungi-saettante, accogli questa
Che t’offeriam, di vittime primizia
525Al salir della nave. Or deh ch’io sciolga
Le funi, o re, con non infausta sorte
Per favor tuo! Spiri serena un’aura
Che ne veleggi per le vie del Ponto!
Disse e devotamente il salso farro
530Sparse. A’ due tauri il poderoso Anceo
Ed Ercole accostârsi; e questi all’uno
Diè con la clava in mezzo della fronte
Tale un colpo, che a terra piombò morto
Subitamente; Ancéo tagliò dell’altro
535Con la ferrea bipenne i grossi nervi
Del largo collo; e quel, sangue sgorgando,
Stramazza, e batte con le corna il suolo.
Tosto gli altri a sgozzarli ed a scuojarli
Ed a scinderli in parti, e via tagliate
540Le sacre cosce, e tutte avvolte in falde
D’adipe doppie, in su le schegge ardenti
Ad abbrostir le posero. Giasone
Sparge le prette libagioni; e il vate
Idmon gioisce in osservar di viva
545Luce su l’ara lampeggiar la fiamma,
E faustamente in bruni giri il fumo
Rapido alzarsi; e incontanente e senza
Timor la mente appalesò di Apollo:
A voi destino e volontà de’ numi
550È il Vello a Grecia riportar, ma in mezzo
Tra l’andarne e il tornar perigli e stenti
Havvi infiniti. E a me d’avverso fato
Forza è lungi morir dal patrio tetto
Là in terra d’Asia. Io già sapea mia sorte,18
555Da mali augurii instrutto, e sì pur volli
Uscir dal natìo loco e far con voi
Questo passaggio, a fin che per me resti
Orrevol nominanza alle mie case.19
Tanto ei disse; e all’udir del lor ritorno
560Il divin vaticinio, i pro’ garzoni
Ben si allegrâr, ma della sorte avversa
D’Idmon lor dolse. Allor che poi del giorno
Il medio punto ebbe varcato il Sole,
E nel suo declinar verso l’Occaso
565Copriansi d’ombra a piè de’ monti i campi,
Tutti lì su l’arene un alto letto
Si composer di frondi in faccia al mare,
E in ordine adagiârsi. In copia i cibi
Erano quivi, e lieto vino attinto
570Da’ coppier nelle brocche; e l’un con l’altro
Diêrsi a vicenda a favolar, siccome
È de’ giovani a desco e fra le tazze
Piacevole costume, ove una rea
Maldicenza stia lungi. In sè fra tanto
575Giason dubitabondo iva ogni cosa
Agitando in pensier, simile ad uomo
In gran cura sommerso. Ida lo scòrse,
E così ne ’l riprese, alto parlando:
Figlio d’Eson, che mai rivolgi in mente?
580Parla qui a tutti il tuo pensier. Ti stringe
Sopraggiunto timor, qual turbar suole
Anime imbelli? Io per la mia ti giuro
Asta possente, onde su gli altri in guerra
Gloria colgo (nè tanto è per me Giove
585Quanto quest’asta mia), per lei ti giuro
Che nè sventura t’avverrà funesta,
Nè cimento fallito andrà d’effetto,
Mentre ch’Ida ti siegue, anco se contro
Ne stésse un dio: tale hai d’Arene ajuto.20
590Disse; e aggrappando con ambe le mani
Nappo ripien di pretto vin giocondo,
Lo ingorgia, e dentro vi sguazza le labbra
E le guancie barbute. Alzossi un fremito
Di sdegno in tutti, e franco Idmón gli disse:
595Stolto! per altri e pria per te mal pensi.
Forse il pretto licor l’animo audace
Sì ti rigonfia, e ad insultar ti spinge
Anco gli dei? Ben v’ha parole ad uopo
Confortatrici, onde il compagno ispiri
600Nel compagno fidanza; e tu frastagli
Sacrileghe insolenze. Anco già tempo
Fama è che degli dei fean beffa e scherno
I figli d’Aloéo, cui tu di forza
Pur non pareggi; e, ben che forti, entrambo
605I presti dardi li domâr d’Apollo.
Tacque, ciò detto. Ida diè un ghigno, e gli occhi
Sbiecando, petulante a lui dicea:
Su via sciorina i vaticinii tuoi;
Di’ s’anco a me daran gli dei tal morte,
610Qual diè tuo padre agli Aloidi. Pensa,
Pensa al come però dalle mie mani
Potrai salvo scampar, se avvien ch’io poi
Oracolista menzogner ti colga.
D’ira sbuffò, così dicendo; e scorsa
615Più la lite sarìa, se tutti ad una
I compagni gridando, e Giason pure,
Non contenean que’ moti. Orfeo la cetra
Prese allor nella manca, e sciolse un canto.
Cantò come la terra e il cielo e il mare
620Prima in sola una massa eran confusi,
E ciascun poi da quel discorde misto
Fu partito e distinto; e come han sempre
Nell’etere le stelle un fisso lume,
E quale è della Luna e qual del Sole
625L’aerea strada, e come i monti in alto
Surser dal piano, e i fragorosi fiumi
Nacquero in un con le lor Ninfe, e tutti
I semoventi corpi. E cantò poi
Come Ofiòne a’ primi tempi, e seco
630L’oceanína Eurinome l’impero
Tennero insieme del nevoso Olimpo,
Ma poi quegli a Saturno, e questa a Rea
Cesser da forza astretti, e giù nell’onde
Precipitâr dell’Oceàno; e quelli
635Sui beati regnâr divi Titani
Infin che Giove ancor fanciullo, ancora
Immaturo di senno, avea ricovro
Nello speco Dittéo, nè lui puranco
Fatto forte i terrigeni Ciclopi
640Della folgore avean, del tuon, del lampo;
Doni che somma arrecan gloria al nume.
Qui della lira il suon cessò col suono
Di sua voce divina; e tutti ancora
Sporgean le teste, e ancor tendean gli orecchi,
645Non sazii d’ascoltar, sì di quel canto
Tutti molcea la melodia soave.
Poi, riscossi, a libar, siccome è rito,
Diêrsi, e de’ buoi le rosolate lingue
Aspersero di vino: alfin del sonno
650Ricordar la notturna ombra li fece.21
Ma tosto poi che la raggiante Aurora
Co’ lucid’occhi l’eminenti cime
Guardò del Pelio, e dalla brezza il mare
Sommosso diguazzava il queto margo,
655Surse Tifi, e i compagni incontanente
A montar su ’l naviglio, ad alligarne
Il remeggio incitò. D’alto clamore
Rimbombò il Pegaséo porto e la stessa
Presta a salpar Pelìaca nave un grido
660Mandò, poi che Minerva inserto avea
Del fondo in mezzo una divina trave
Di quercia dodonèa. Ciascun ne’ banchi
Prese il posto che dianzi avea sortito,
E tutti con le proprie armi dappresso
665S’assettâro in bell’ordine. Nel mezzo
Ancèo sedette, e d’Ercole la grande
Persona: presso egli ha la clava, e sotto
A’ suoi piè la carena ponderosa
Più s’affondava. E già tiran le amarre
670Entro il legno, e su ’l mar fan libamento
Di pretto vino. Lagrimosi gli occhi
Togliea Giasone dalla patria terra;
E siccome i garzoni a Febo in Delfo
O in Ortigia, o d’Ismeno in su le sponde
675Cori intrecciando, intorno all’ara insieme
Co’ presti piè batton la terra al suono
Della cetra in cadenza; i remiganti
Batton così concordemente al suono
Della cetra d’Orfeo l’acque del mare,
680E le spezzan co’ remi; e d’ambo i lati
Levan alto la spuma i salsi flutti,
A que’ validi colpi cupamente
Mormoreggiando. Incontro a’ rai del Sole
Scintillavano l’arme a par di fiamme
685Nell’andar della nave, e il mar di retro
Le biancheggiava in lunga riga, a modo
Di sentier procedente in verde campo.
Tutti in quel dì dall’alto cielo i numi
Miravano alla nave e a que’ prestanti
690Di cuor, di possa semidei che arditi
Perigliavansi al mare; e su le vette
De’ monti intorno le Pelìadi Ninfe
Stupìano contemplando la grand’opra
Dell’Itonia Minerva, ed essi stessi
695Con le lor mani remigar gli eroi.
Anco dall’erto suo monte il figliuolo
Di Fìlira, Chiron, giù scese in riva22
Sì presso al mar che nella bianca spuma
I piè s’intinse; e il grave braccio in alto
700Agitando, e acclamando, animo a quelli
Fece, ed augurii di felice andata
E di salvo ritorno. E con lui venne
Quivi la donna sua recando in braccio
Il fanciulletto Achille, e, per mostrarlo
705Al caro padre, lo sporgea dal lido.
Quelli, poi che del porto ebber la curva
Spiaggia lasciata, obbedïenti al senno
E alla parola dell’Agniade Tifi,
Che i ben politi con la dotta mano
710Volgea timoni a governar la nave,
Il grand’albero alzâro, entro all’incavo
L’infissero e il legâr co’ tesi stragli
Da banda a banda, e su tirâr le vele
Fino alla gabbia. Immantinente il vento
715Vi diè dentro fischiando: essi le sarte
Co’ bruniti fermagli a’ tavolati
Accomandâro, e già correndo placida-
Mente il lungo passâr capo Tiseo.
D’Eagro il figlio con la cetra intanto
720Armonizzando sua voce soave,
La di navi tutrice alma Diana
Inneggiava, che quelle ivi sporgenti
Rupi ha in guardia, e d’Iolco il suol protegge;
Ed emergean piccioli e grandi i pesci
725Dall’imo fondo, e per l’ondoso piano
Venian dietro guizzando a quel concento,
Qual dietro l’orme dell’agreste duce
Ne va d’agnelli un numeroso branco,
Quando dal pasco al pecoril ritorna;23
730E quegli innanzi a lor va con l’arguta
Sampogna dolcemente modulando
Pastoral cantilena; in simil guisa
Lui seguian quelle frotte; e il vento intanto
Vie più sempre la nave oltre spingea.
735Già de’ Pelasgi l’ubertosa terra
Tramontava al lor guardo, e già le cime
Via trascorrean del Pelio, e si celava
Di Sepia il capo, e Scìato fra l’onde
Apparve, e di Piresia anco da lunge,
740E di Magnesia la serena spiaggia,
E la tomba di Dòlope. Su l’ora
Quivi del vespro dalla forza spinti
Fûr di contrario vento; ed a placarlo24
Nel bujo della notte agne scannate
745Arsero. Gonfio il mar fremea: due giorni
Stettero inerti in quella riva: il terzo
Spiegâr di nuovo alto le vele, e spinsero
Nel mar la nave, e quella riva ancora
D’Argo le Afete usan nomar le genti.2526
750Pria passar oltre a Melibea; col raggio
Poi del mattin vider dappresso al lido
Omole, e via quinci scorrendo, un lungo
Non fêr cammino a tragittar del fiume
Amiro le correnti. Indi veduto
755Hanno Eurímene, e d’Ossa indi e d’Olimpo
Le acquose valli; e le Pallenie balze
Che fan col capo Canastréo confine,
Spinti dal vento oltrepassâr di notte;
E al nuovo dì surse al lor guardo il monte
760Ato di Tracia, che protende l’ombra
Dell’eccelsa sua cima infino a Lenno,
Ed a Mirina, che lontana è tanto
Quanto viaggio un ben vogante legno
Fa da mane a meriggio; e a tese vele
765Tutto quel giorno se ne gìan col vento
Che forte in poppa ognor soffiò; ma insieme
Cessò co’ rai del Sole, onde all’alpestre
Sintìade Lenno indi approdâr vogando.
Quivi, un anno era corso, a crudel morte
770Dal furor delle donne ogni uom fu tratto.
Per le giovani mogli avean concetto
Odio i mariti, e ne aborrian gli amplessi,
Dacchè insano li prese amor di schiave,
Ch’ei dalla Tracia, che di contro è posta,
775Traean predando; e ciò lo sdegno acerbo
Di Venere facea, chè da gran tempo
Lei di Lenno le donne avean negletta
D’onoranza e di doni. Oh sciagurate,
D’insaziabil gelosìa furenti!
780Non sol ne’ letti trucidâr con quella
I lor proprii mariti: uccisa han tutta
La progenie virile, a fin che nullo
Ultor poi fosse della strage orrenda.
Sola fra tutte Issipile pietade
785Sentì del vecchio genitor Toante,
Ch’era de’ Lennii re. Chiuso entro un’arca
Diello al mare a portar, se scampo forse
Trovar potesse; e pescatori in salvo
Trasserlo poi nell’isola ch’Enóe
790Detta fu prima, e Sìcino di poi
Da Sìcino, ch’Enóe Najade Ninfa
Partoriva a Toante, a cui nel letto
La si congiunse. Ora il governo e il pasto
Curar de’ bovi, arme vestir di ferro,
795I frugiferi campi in solchi aprire,
Esercizii a lor tutte eran più cari
De’ lavori di Pallade, a cui sempre
Use eran pria; ma ad ora ad or su ’l mare
Spingean gli occhi a guatar per ansia tema
800Che a lor vengano i Traci. Ond’è che visto
Vêr l’isola vogar l’Argóo naviglio,
In arme, in torme, impetuosamente
Fuor delle porte di Mirina tutte
Corsero al lido, simili a furenti
805Crudivore Baccanti; i Traci, i Traci
Dicean venirne. Issipile del padre
Cinse l’armi, e con elle anco v’accorse;
E attonite là tutte, e senza voce
Restâr; tale un terror le soprapprese.
810Ma della nave i condottieri a terra
Etálide avviâro, esperto araldo,
Al qual delle ambasciate e degli annunzii
L’incarco, e di Mercurio era lo scettro
Dato a portar, del padre suo che a lui
815Immancabile avea di tutte cose
La memoria largito, a tal che oblìo
Nè pur ora occupò l’anima sua,
Che dai gorghi venìa dell’Acheronte,
Poi che in sorte ella avea, sempre alternando,
820Or giù fra’ morti, or su del Sol fra’ vivi
Nella luce aggirarsi.... Ma che giova
Qui d’Etàlide far molte parole?
Basta ch’ei seppe Issipile co’ detti
Sì addolcir, ch’ivi a proda a lor concesse
825Quella notte restar; ma scioglier poi,
Per ria bufera aquilonar, le funi
Pur non potero alla vegnente aurora.
Le Lennie donne, alla città tornando,
In parlamento s’adunâr, siccome
830Lor fe’ Issipile invito; e poi che tutte
Fûr congregate, essa così le incita:
Oh amiche, or via! Graditi doni a queste
Genti mandiam quai si convengon loro
Seco in nave recar, vivande e vino,
835Perchè fuor delle mura abbiano tutti
A rimaner, nè per bisogno a’ nostri
Tetti venendo, abbian di noi, di nostro
Stato contezza, e mala voce intorno
Ne vada poi; chè fatto abbiam gran fatto,
840E giocondo per certo a lor non fia,
Se ciò sapranno. Il mio consiglio è questo;
Ma se tra voi v’ha chi un miglior ne tenga,
Sorga: qui v’ebbi a questo fin raccolte.
Ella sì disse, e s’assettò nel seggio
845Marmoreo del padre. Allor Polisso,
La sua cara nudrice, su levossi,
Che su i rugosi piè per la vecchiezza
Tentennante, a un baston tiensi appoggiata,
Ma gran voglia ha di dire; e alla canuta27
850Stan quattro intorno vergini fanciulle.
Ella in mezzo si trasse all’assemblea,
Ed a fatica alzando la cervice
D’in su le curve spalle, a dir sì prese:
Mandiam pur doni allo straniero stuolo,
855Come a Issipile piace: offrirli è il meglio,
Ma voi, dite, ma voi come pensate
Della vita goder, quando o di Traci
Sopraggiunga un’armata o qualcun altro
De’ nimici? chè tali avvengon molti
860Casi nel mondo; ed enne esempio or questo
D’estranee genti inopinato arrivo.
Che se pur qualche dio da ciò ne scampi,
Ma ben restano cento altri malanni
Peggio ancor d’ogni guerra. E poi che morte
865Fian le donne che vecchie or sono, e voi
Ancor giovani adesso, senza figli
Arriverete alla trista vecchiaja,
Come, o meschine, allor vivrete? O forse
Da sè stessi aggiogati i buoi l’aratro
870Vi trarranno a solcar de’ vostri campi
Il profondo terreno, e su ’l finire
Dell’anno poi vi mieteran le spighe?
Io già, benchè le Parche ebber paura
Fino ad ora di me, credo che ormai
875Nel volger del venturo anno sotterra
N’andrò composta co’ funebri onori,
Com’è dover, pria che sinistro avvenga;
Ma le giovani a questo (io ’l dico aperto)
Mettano mente: or la ventura innanzi
880Vi si dà, se le case e i vostri averi
A queste genti, e di cotesta illustre
Città la cura accomandar vorrete.
Tacque, e di plauso in tutta l’adunanza
Si diffuse un fragor; chè la proposta
885Piacque a tutte. Di nuovo allor levossi
Issipile, e ripiglia: Or ben, se a tutte
Attalenta il consiglio, a quella nave
Un’ambasciata incontanente io mando.
E ad Ifinoe che presso a lei sedea:
890Sorgi, Ifinoe (le disse), ed a quell’uomo
Vanne, che capo è dello stuolo, e a noi
Di’ che venga per ch’io del popol nostro
Cosa gli esponga, che gli fia gradita;
E gli altri ancor nella contrada e dentro
895Alla città venir fidatamente,
Se il voglion pur, siccome amici, esorta.
Sciolse, ciò detto, l’adunanza, e mosse
Ritornando a sue stanze. Ifinoe giunse
A’ Minii, e questi a domandarle tosto28
900Per qual uopo venisse; ed ella tosto
Satisfece all’inchiesta in tali accenti:
Me di Toante or qui la figlia invia,
Issipile, a chiamar chi del naviglio
È capitan, perchè del popol nostro
905Cosa gli esponga, che gli fia gradita;
E gli altri ancor nella contrada e dentro
Alla cittade in contenenza amica
Tosto venir, se il pur volete, esorta.
Tanto disse, e ad ognun piacque la fausta
910Ambasciata; e ragion fecer che morto
Fosse Toante, e l’unica sua figlia
Issipile regnasse. Il duce a lei
Ne mandâr tosto, ed a seguirlo anch’essi
S’accingeano. Giason purpureo manto
915Addoppiato su gli omeri affibbiossi,
Della Tritonia Pallade lavoro,
Che il diede a lui quando all’Argóo naviglio
Commettere le coste, e i banchi a filo
Ordinar gl’insegnava. A te più lieve
920Sarìa nell’orbe del nascente Sole
Gli occhi affissar, che in quel color di rossa
Fiamma viva; e di rosso erane tutto
Smagliante il mezzo, e n’eran gli orli in giro
Di porpora splendenti, e ciascun lembo
925Di dédalo trapunto avea lavoro.29
Stanvi i Ciclopi affaccendati in opra
D’incorrutlibil tempra: al sommo Giove
Stan fabbricando un fulmine: compiuto
Quasi è già; già lampeggia; un raggio solo
930Ancor manca, e di foco acre bollente
Co’ lor ferrei martelli il van battendo.
D’Antiope, a cui padre è l’Asopo, i due
Figli eran quivi, Anfione e Zeto, e presso30
Era Tebe di mura ancor non cinta,
935Chè di poco n’avean le fondamenta
Gittate; e Zeto d’un’alta montagna
Il vertice portava su le spalle,
E parea faticante. Il siegue appresso
Anfión d’aurea cetra al suon cantando,
940E spontanea di retro un’altra rupe
Due tanti grande gli venìa su l’orme.31
Quindi espressa con l’ago è Citerea
Foltichiomata, che di Marte imbraccia
Il versatile scudo. Al manco lato
945Su ’l cubito dall’omero e dal petto
La tunica le casca; e al ver simile
Nel lucido brocchier riverberata
Era a vedersi della dea l’imago.
Anco di buoi v’è un pasco erboso, e quivi
950Per quella mandra combatteano i figli
D’Elettrïóne e i Teleboi, tentando
Quei difenderla, e questi intera farne,
Sendo Tafii ladroni, una rapina;
E i molti oppresso aveano i pochi, e il verde
955Prato di sangue era cosperso e molle.
Istorïati anco apparian due cocchi
Gareggianti nel corso. A quel dinanzi
Pelope è auriga, e ne scotea le redini,
E seco ha Ippodamìa: Mirtilo spinge
960I cavalli dell’altro, e ad Enomáo
Ch’è a lui da lato, e l’asta ha in man protesa,
Mentre intende a ferir Pelope a tergo,
Spezzasi l’asse, e a terra ei giù precipita.
Evvi pur Febo Apollo ancor non molto
965Alto garzon, che d’uno stral già fiede
Tizio gigante che di lui la madre
Tira a sè per lo velo audacemente;
Tizio d’Elara figlio, e cui produsse
Dal proprio grembo, e il nutricò, la Terra.
970V’è il Minio Frisso alfin che orecchio porge
Del montone alla voce; e veramente
Ascoltar sembra quegli, e parlar questo.
Stupiresti in mirarli, e udir da loro
Nell’illusa tua mente aspetteresti
975Qualche savia parola, in quella speme
Stando lunga ora a contemplarli attento.
Tale ei vestì della Tritonia diva
Lavoro egregio; e con la destra impugna
L’asta possente che Atalanta a lui
985Diè su ’l Ménalo un dì, dono ospitale,
A lui fattasi incontro; e avea gran brama
Di seguirlo; ma savio ei la contenne
Dal venir, chè temette in fra’ compagni
Importune eccitar gare d’amore.32
985Così s’avvia vêr la città, simìle
A fulgid’astro, che novella sposa
Chiusa in sue nuove stanze ascender vede
Sovra la casa: per lo cielo azzurro
Quel fiammeggiando le lusinga il guardo,
990E l’amorosa vergine s’allegra,
Che n’augura il venir del giovin caro
Fra’ stranieri abitante, a cui la serbano
Già fidanzata i genitori suoi:
Tal presso alla città muove l’eroe,
995E poichè fu di quella entro le porte,
Con plaudente tumulto a lui da tergo
S’affollaron le donne. Ei grave, e gli occhi
Al suol bassi, procede infin che giunge
D’Issipile al palagio. Al suo mostrarsi
1000Spalancaron le ancelle ambe le d’assi
Con bel lavor compaginate imposte;
Indi Ifinoe l’addusse in bel loggiato,
E in lucido l’assise agiato seggio
Di contro alla regina. Ella, abbassando
1005L’onesto sguardo, colorò le gote
Di virgineo rossore, e con modesto33
Garbo queste parlò blande parole:
Ospite, a che fuor delle mura ancora
State indarno così? D’uomini è priva
1010Questa città, poi che di qua migrando
Iti sono ad arar fertili campi
Su ’l Tracio continente. E dirò tutta
Qual veramente la sventura avvenne,
Perchè nota pur anco a voi ben sia.34
1015Mentre Toante, il padre mio, su questi
Cittadini regnava, essi con navi
Uscìan le ville a corseggiar de’ Traci
Che rimpetto ne stanno, e con gran prede
Adducean ritornando anco lor donne.35
1020Ma un funesto consiglio allor Ciprigna
Maturò, che del cuore indusse in loro
Una rea corruttela. Odio li prese
Delle proprie lor mogli, e a tal cedendo
Senso perverso, han le consorti espulso
1025Da’ maritali alberghi, e, sciagurati!
Giaceansi poi con le predate schiave.
Noi ciò durammo a tolerar gran tempo,
Se mai l’animo lor vòlto a buon senno
Si fosse alfin; ma in quella vece sempre
1030Doppio crescea la mala colpa. A vile
I legittimi figli eran tenuti,
E nascean di furtivi. Derelitte
Vedove madri e vergini fanciulle
Per la città vagavano; nè cura
1035Prendeasi alcuna della propria figlia
Il genitor, se sotto agli occhi suoi
Pur dalle mani di matrigna iniqua
Strazïar la vedea; nè più qual pria
Da indegna offesa difendeano i figli
1040La madre lor; nè de’ fratelli a cuore
Stava più la sorella: era per sole
Quelle giovani schiave e in casa e fuori,
Ne’ convivii e ne’ balli, ogni pensiero.
Ma un iddio, qual che fosse, alfin ne infuse
1045Oltrepossente ardir di non accorli
Nella città, quando di Tracia un tratto
Facean ritorno, o perchè senno ormai
Mettan debitamente, o con le schiave
Volgano altrove a lor talento il corso.
1050Ei chiedettero allor que’ che lasciati
Qua figli avean di maschio sesso, e indietro
Là tornâr dove ancor della nevosa36
Tracia le spiaggie ad abitar si stanno.
Voi qua dunque venite; e se a te piace
1055Qui soggiornar, del padre mio Toante
Il regal grado anco otterresti poi.
Nè mal pago, cred’io, punto saresti
Di questa terra: di feconda gleba
Essa è più di quant’altre isole ha in seno
1060Tutto l’Egèo. Dunque su via, t’affretta
Alla nave, e riferti a’ tuoi compagni
I sensi nostri, alla città ritorna.37
Così, il ver falseggiando, essa la strage
Che degli uomini han fatta, ricoperse;
1065E a lei tosto così l’altro rispose:
Issipile, ben caro (e assai buon grado
L’accettiam) n’è il soccorso, onde a nostr’uopo
Tu ne sei sì cortese. Io qui ritorno
Tosto farò che tutto avrò di punto
1070Conto a’ compagni miei. Ma tuo sia ’l regno;
Tua quest’isola sia: non io disprezzo,
No, la profferta tua, ma faticosi
Me sospingono altrove aspri cimenti.
Tacque, e la destra a lei toccò; poi mosse
1075Tosto a partenza, e intorno a lui giulive
Di qua, di là mille donzelle aggiransi,
Fin ch’è fuor delle porte, indi su celeri
Carri gran copia d’ospitali doni
Alla spiaggia recâr, quando già tutte
1080Giason le cose avea racconte a’ suoi,
Che Issipile gli disse; e agevolmente
Gl’indussero a venirne ospizïanti
Nelle lor case, perocchè d’amore
Dolce in essi desìo destò Ciprigna
1085All’industre Vulcan gratificando,
Perchè a lui di viril prole novella
Si rintegri di poi la sacra Lenno.
Allor Giasone alle regali soglie
D’Issipile n’andò: gli altri ove a caso
1090Venne ciascun, ma non Alcide e pochi38
Scelti compagni che restar con lui
Voller presso alla nave. Immantinente
Tutta fu lieta la città di danze
E di convivii, e l’àer di fumanti
1095Dapi odorava; e sovra ogni altro iddio
L’inclito di Giunon figlio, e la stessa
Dea Ciprigna con inni e sacrificii
Venian propizïando. Indugio intanto
Di giorno in giorno al navigar si fea,
1100E a lungo ancor lo producean, se ad essi
Dalle donne appartati in questi accenti
Non arringava acerbamente Alcide:
Miseri, e che? Dal patrio suolo in bando
Forse colpa ne tien di cittadino
1105Sangue versato? o delle donne nostre
Schivi qua veleggiammo bisognosi
Di connubii stranieri? e qua ne piace
Metter soggiorno, e gli ubertosi campi
Arar di Lenno? In bella fama al certo
1110Non verrem noi, con peregrine donne
Stando qui a lungo accovacciati, e nume
Non v’è alcun, che rapir quell’aureo vello
Voglia, e donarlo a’ prieghi nostri. Or via,
Torniam ciascuno alle sue case, e lui
1115Star lasciate d’Issipile nel letto
Fin che di maschia razza abbia ancor Lenno
Rimpopolata, e gran fama glien’ venga.
Così lo stuolo egli garrì. Nessuno
Osò gli occhi da terra alzargli in faccia,
1120Nè rispondergli verbo. In fretta tutti
Sorsero dal convegno, e alla partenza
S’apprestâr; ciò le donne inteso appena,
Loro accorrono in folla, a par dell’api
Che fuor sbucate da una cava pietra,
1125Volan ronzando a’ vaghi gigli, e il molle
Prato s’allegra; e qua e là suggendo
Ne van quelle de’ fiori il dolce umore:
Tal pressavansi intorno a que’ lor cari
Querelando le donne: e ognuna ognuno
1130Con le man salutava e con le voci,
E pregavan gli dei che fausto e salvo
Lor concedan ritorno. E sì dicea
Issipile che strette nelle sue
Di Giasone ha le mani, e duolsi e piange:
1135Va, parti, e te co’ tuoi compagni illeso
Riconducan gli dei, dell’auree lane
Portatore al tuo re, com’è tua voglia,
Come t’è caro. E se di là qui ancora
Tornar vorrai, quest’isola e lo scettro
1140Del padre mio t’attende; e qua potresti
Anco assai genti di leggier raccôrre39
D’altre città. Ma tal di brama ardore
Tu non l’avrai: ciò presagisco io stessa
Che non sarà. Ma ovunque sii, deh! serba
1145D’Issipile memoria, e a me deh! lascia40
Un tuo qualche voler, ch’io poi fedele
Compia, se un figlio a me daranno i numi.
E commosso Giason le rispondea:
Issipile, deh tutto a fausto fine
1150Giunger faccian gli dei! Ma tu ben pensa
Ch’io d’abitar la patria mia son pago,
Pelia ciò permettente, e più non bramo,
Sol che me dagl’imposti ardui cimenti
Scampino i numi. E s’è destin che a greca
1155Terra più da sì lunge io non ritorni,
E che a luce tu metta un maschio figlio.
Mandalo a Solco, appena adulto ei sia,
Conforto al padre mio di me dolente,
E alla madre, se vivi ancor trovarli
1160Potrà, sì ch’essi, a Pelia re d’ascoso,
Lo nutrano in lor case, il tengan caro.41
Detto ciò, salse innanzi a tutti in nave;
Gli altri appo lui. Tutti al lor loco assisi
Diero ai remi di piglio. Argo le amarre
1165Sciolse dal masso in mar sorgente, e quindi
Tutti l’onda tagliâr co’ lunghi abeti
Validamente. Al tramontar del giorno
Per consiglio d’Orfèo l’isola han tocco
Dell’Atlantide Elettra, a fin che quivi
1170Inizïati di que’ blandi riti
A’ misterii ineffabili, per essi
Più l’arduo navigar venga securo.
Ma di ciò più non parlo, e Salve, io dico
A quell’isola insieme ed a’ suoi numi
1175Indigeni che onore hanno di sacre
Orgie, onde a noi non è il cantar concesso.
Di là, vogando, del Melàno golfo
N’andâr per le cupe onde, e quinci il lido42
Avean de’ Traci, e sorgea quindi in faccia
1180D’Imbro la terra; ed alla punta estrema
Venìan del Chersoneso al sol cadente.
Spirando allora agevol noto, al vento
Dispiegaron le vele, e sì nell’alte
Correnti entrâr dell’Atamantid’Elle;
1185E dietro nel mattin l’Egeo lasciato,
Nella notte solcâr l’onda rinchiusa
Dalla spiaggia Retèa, tenendo a destra
L’Idea contrada. E la Dardania riva
Oltrepassando, spinsero la prora
1190Verso Abido e Percote, e via l’arene
Varcâr d’Abarni e Pitièa divina;
E la notte, poggiando ed orzeggiando,43
Ita innanzi la nave, alfin da’ cupi
Bruni flutti uscì fuor dell’Ellesponto.
1195Alta nella Propòntide s’avanza
Un’isola, che un istmo all’ubertoso
Suol di Frigia congiunge. Ha doppia spiaggia
Di buona rada ove l’Esepo ha foce;
Evvi anche il monte, a cui degli Orsi nome
1200Dan li presso abitanti, e stanza in quello
Han selvaggi Terrigeni feroci,
Meraviglia a veder, poi ch’è ciascuno
Di sei fornito poderose braccia.
Due nelle late spalle, e l’altre quattro
1205Inserte sotto negli enormi fianchi.
L’istmo e il piano aggiacente i Dolïoni
Abitavano, e regno avea sovr’essi
D’Enèo Cizico Aglio, a cui fu madre
La prole un dì del divo Eusóro, Eneta.44
1210Nè que’ giganti, anco sì forti e fieri,
Punto ad essi nocean; chè li protegge
Il favor di Nettuno, onde già tempo
De’ Dolïoni originò la schiatta.
A questo lido Argo afferrò sospinta
1215Da’ Tracii venti, in un bel porto accolta;
Quivi al senno di Tifi obbedïenti,
La gomena slegâr dall’ancorale
Troppo picciola pietra, ed appo il fonte
Lasciaronla d’Artace, e un altro sasso
1220Preser più ponderoso e meglio ad uopo;
E quella un giorno poi, giusta un responso
Del Lungi saettante, e come è rito,
Fu da’ Jonii Nelìdi consacrata
A Pallade Giasonia. Amicamente
1225I Dolïoni e Cizico egli stesso
Iti incontro, e che gente erano quelli
Inteso appena, e qual passaggio, ad essi
Ospizio offrîro, e gl’invitâr più innanzi
A venir con la nave, e dentro al porto
1230Legarne i cavi. E quei discesi un’ara
A Febo sbarcator poser su ’l lido,
E gli fêr sacrificio. Il re donolli
Di che avean d’uopo, e vin giocondo e agnelli,
Poi che imposto un oracolo gli avea,
1235Quando giunga d’eroi nobile stuolo,
Tosto movergli incontro umanamente,
Nè pensar contrastargli. A lui le gote,
Come a Giasone, il primo pel fiorìa;
Nè di prole allegrarsi ancor la sorte
1240Gli concedea: nuova del parto al duolo
Era ancor Clite dalla bella chioma.
Figlia al Percosio Merope, che moglie
D’assai doni dotata ei dalla casa
Del padre suo novellamente addusse45
1245Dal paese a rincontro. Ed or dal letto
Pur si togliendo della cara sposa,
Diessi con quelli a convivar, gittata
Via dal cuore ogni tema. E qui l’un l’altro
Interrogar; lui del viaggio il fine
1250E di Pelia i comandi inchieder loro;
Essi contezza dimandar de’ luoghi
Circonvicini, e di quell’ampia tutta
Propontìaca marina. Il re non seppe
Satisfar pienamente a tante inchieste;
1255E de’ Minii, al mattin, parte su l’alto
Dindimo ascese ad esplorar le vie
Di quel mar da sè stessi; altri la nave
Dallo scavato porto, in ch’era entrata,
Fuor tradussero all’alto, e quel percorso
1260Tratto da lei, Giasonia via fu detto.
D’altra parte del monte impetuosi
Scesi intanto i Giganti eran del Chito
L’ampia bocca a turar con gran macigni,
Quasi a far caccia di rinchiusa fiera,
1265Abbarrandone il varco. Ma rimaso
Era colà co’ più robusti Alcide,
Che presto sovra lor l’arco scoccando,
Cader li fea l’uno appo l’altro; e quelli
Avventavano a lui pezzi di roccia;
1270E ben par che Giunon, moglie di Giove,
Sì terribili mostri anco nudrisse
Per travaglio d’Alcide. Intanto gli altri
Compagni eroi che discendean dal monte,
Scontrandosi con lor, mentre di quello
1275Ricorrean vêr la cima, a farne strage
Diêrsi di fronte e con dardi e con aste,
Fin che tutti, quantunque battaglianti
Con assiduo furor, gli han morti a terra;
E qual gettan su ’l lido i tagliatori
1280L’alte piante abbattute, a fin che meglio
Ricevan rammollite i duri cogni,
Così quelli a ridosso l’un dell’altro
Giacean nel porto, altri nell’acqua immersi
Le teste e i petti, e su l’arene il resto;
1285Altri sovra la sabbia il capo e il busto,
E i piè dentro nell’onde, e questi e quelli
Pasto de’ pesci e degli augelli insieme.
Gli eroi, compiuta intrepidi la pugna,
Sciolti i cavi alla nave, il mar si danno
1290Novamente a solcar con agil’ aura.
Tutto quel giorno veleggiâr di corso;
Ma non durò, giunta la notte, il vento
A lor secondo: una bufera avversa
Li rapì retro, e li respinse al lido
1295Di que’ buon Dolïoni. All’äer bujo
Scesero, e sacro ancor si noma il sasso,
A cui d’attorno, a rattener la nave,
Avvolsero le amarre. E niun di loro
L’isola riconobbe; e i Dolïoni
1300Non ravvisâr, colpa la notte oscura,
I ritornati eroi: Pelasga torma
Li stimâr di Macresi a lor nimici;
Onde in arme accorrendo, incontro ad essi
Levâr le mani, ed aste e scudi a un tratto
1305Azzuffaronsi insieme; e a par di rapida
Fiamma che investe un’arida boscaglia,
E v’infuria per entro, egual furore
De’ Dolïoni al popolo s’apprese;
Nè il re stesso da tanto aspro conflitto
1310Più tornarne in sue case al maritale
Talamo, e al letto genïal dovea;
Chè a lui Giasone, a cui si volse incontro,46
Infisse l’asta in mezzo al petto, e l’osso47
Dello sterno gli ruppe. In su l’arene
1315Ei compiea, traboccando, il suo destino,
Il destin che a’ mortali non è dato
Sfuggir giammai: tale un gran vallo intorno
Tutti asserraglia. Ed ecco or lui che immune
D’ogni danno da quelli esser credea,
1320Ecco, il destino in quella notte il colse
Combattente con loro. Altri pur molti
Caddero, accorsi a dargli aita. Alcide
A Telecle diè morte, e a Megabronte;
Acastro a Sfodri; da Pelèo percossi
1325Fûr Zeli e il forte Gèfiro; valente
Vibrator d’asta Telamone uccise
Basilèo; Clizio al suol prostrò Giacinto;
Ida, Promèo; di Tindaro i due figli
Megalòssace han morto, e Flogïone;
1330Meleagro all’ardilo Itimonèo
Spense la vita, e ad Artacèo, guerriero
Pur de’ più prodi. A questi tutti ancora
Danno quegli isolani onor d’eroi;
Cessero gli altri alla paura, e in fuga
1335Via scampâr, come a’ rapidi sparvieri
S’involano le pavide colombe.
Alle porte, alle porte in torme corrono
I fuggitivi, e la città di grida
Tosto fu piena, e di terror di guerra;
1340Ma conobbero poi, surta l’aurora,
L’inganno irreparabile, funesto,
Ambe le parti; e acerbo duolo assalse
I Minii eroi, d’Enèo veggendo il figlio,
Cizico innanzi a lor giacer travolto
1345Nella polve e nel sangue. Ed essi insieme
E il popol Dolïòn tre giorni interi
Ne fêr corrotto, e si stracciâr le chiome;
Tre volte, di brunite armi vestiti,
Rigirandosi intorno alla sua tomba,
1350Gli fêro onor funèbre, e giusta il rito
Solenni ludi in quell’erboso campo
Celebrâr, dove ancora il monumento
Sorge, e i tardi nepoti anco il vedranno.
Nè all’estinto marito sopravvisse
1355Clite la moglie: essa all’orribil caso
Altro ne aggiunse orribil più: si strinse
D’un laccio il collo. Anco le Ninfe istesse
Di que’ boschi ne piansero la morte;
E quante allor dagli occhi alla meschina48
1360Piovver lagrime a terra, in un raccolte
Tutte l’han quelle dive, e fatto un fonte,
Cui per onor dell’infelice sposa
Nomano Clite. E fu quel dì, fra quanti
Ne dà Giove, il più infausto a’ Dolïoni
1365Uomini e donne, e non osò nessuno
Pur cibarsi in quel dì; nè a lungo poi,
Attoniti di duol, poser pensiero
Della macina all’opra, e cibi a caso
Prendean non cotti a sostentar la vita;
1370Ed oggi ancor, quando ritorna ogni anno
Di quell’esequie il dì, gl’Ionii a stanza
In Cizico venuti usan focacce
Schiacciar di grano a comun mola infranto.
Allor dodici dì, dodici notti
1375Fiera procella imperversò, che tolse
A’ Minii il navigar. Domi dal sonno
Su ’l fin di quella dodicesma notte
Dormian gli altri campioni, Acasto e Mopso
Soli a guardia veglianti; ed ecco, aleggia
1380Un alcïon sovra la bionda testa
Di Giasone, e col suo stridulo verso
Presagisce il cessar della tempesta.
Udì Mopso, e comprese il fausto canto
Dell’augello marin, cui di là tosto
1385Via scacciò qualche nume; ed ei svolando
S’andò in alto a posar sovra l’oplustro
Della nave. Allor Mopso incontanente
Scuote e sveglia Giason su molli pelli
D’agnei giacente, e così a lui favella:
1390Figlio d’Esone, è d’uopo a te su l’alto
Dindimo entrar nel sacro loco, e all’alma
Degli dei tutti glorïosa madre
Orar devoto. Or fine avran le fiere
Procelle: or ora ho cotal voce udita49
1395Di marino alción che a vol discese
Su te dormente, e presagì la calma.
Da quella diva i venti, il mar, la terra
Tutta si regge, e il nevicoso Olimpo;
E innanzi a lei, quando da’ monti ascende
1400All’ampio ciel, Giove Saturnio ei stesso
Recede, e gli altri ancor numi immortali50
Onor le fanno di terribil dea.
Tanto disse, ed a lui che l’ascoltava
Venner grati que’ detti, e lieto surse,
1405E surger fe’ tutti i compagni, e ad essi
In assemblea dell’Ampicide Mopso
Raccontò i vaticinii. Immantinente
I più robusti dalle stalle i buoi
Trassero, e al sommo li cacciâr del monte,
1410Mentre che gli altri dalla pietra Sacra
Sciolto il fune, co’ remi al Tracio porto
Guidâr la nave, indi essi ancor, nel legno
Pochi lasciando, s’avviâro all’erta.
Di là de’ Mecrïesi a lor le vette,
1415E la Tracia di contro estesa terra
Parve sotto la man; la bocca oscura
Del Bosforo al lor guardo, e i Misii colli
Si fêr palesi, e d’altra parte il corso
Del fiume Esepo, e l’Adrastéa cittade,
1420Ed il campo Nepéo. Dentro alla selva
Era un grosso di vite e per vecchiezza
Secco pedale; ed ei l’han tronco a farne
Della diva de’ monti un simulacro.
Argo il foggiò con bel lavoro, e in cima
1425Il locâr d’un rialto in mezzo a faggi
Che altissimi di quanti eran d’intorno
Ergeansi; e un’ara di macerie innanzi
Vi costrussero; e quindi incoronati
Con le fronde di quercia il sacrificio
1430Incominciâr, la gran Dindimia madre
Invocando, di Frigia abitatrice,
E in un con lei Tizia e Cilleno, i soli,
Fra quanti son Dattili Idei Cretensi,
Duci e consigli della madre Idea,51
1435Ambo cui partoriva Anchiale Ninfa
Nello speco Ditteo, con ambe mani
Per l’acerbo dolor forte aggrappandosi
All’Oásside terra. Assai, libando
Su l’ostie ardenti, supplicò Giasone52
1440Che via volgan da lui turbi e procelle;
E al comando d’Orfeo l’armato ballo
I giovani saltavano, battendo
Su gli scudi le spade a fin che sperso
Vada all’aer de’ lamenti il suono infausto,
1445Che su l’estinto re metteano ancora
Di Cizico le genti; e d’indi in poi
Con cembali e timballi i Frigi sempre
Fanno a Rea lor preghiere. Ed or la Diva
Benignamente il sacrifizio accolse,
1450E n’apparvero i segni. Immensa a un tratto
Copia di frutti effusero le piante;
Sotto i lor piè spontanea la terra
Molle produsse erba fiorita, e i boschi
E i covili le fiere abbandonando,
1455Venner con lieto dimenìo di code
A far corteggio. Ed altro ancor portento
La Diva oprò. Non d’acqua un filo avea
Il Dindimo dappria: sgorgò repente
D’in su l’arida cima innanzi a loro
1460Linfa perenne, che Giasonia fonte
Nomaron poi le convicine genti.
E su ’l monte degli Orsi i Minii allora
Imbandîro alla Dea sacro convito,
La veneranda augusta Rea cantando;
1465Quindi, i venti racqueti, alla novella
Alba vogando abbandonâr quel lido.
Spirto d’emula gara allor ciascuno
Incitò degli eroi chi più del remo
Duri all’opra. Il tranquillo aere allettate
1470Avea già l’onde, e addormentato il mare;
E in quella calma essi spingean di tutta
Lena la nave che scorrea sì celere,
Che nè raggiunta di Nettun l’avrebbero
I corsier procellipedi. Ma poi,
1475Ridestatesi l’onde al veemente
Soffio dell’aure che da’ fiumi a sera
Usan levarsi, ormai stanchi dall’opra
Si posavano: tutti Ercole solo
Gol vigor di sue braccia poderose
1480Traeasi dietro, e del naviglio, agl’impeti,
Fea scricchiolar le ben commesse travi.
Ma quando poi, già della Frigia alquanto
Trapassato il confine, e al Misio suolo
Intendendo il viaggio, avean le bocche
1485Del Rindaco vedute, e d’Egeone
Il gran sepolcro, ei fortemente incontro
Ai marosi pontando, il remo a mezzo
Spezzò: con l’un de’ due tronconi in mano
Cadde traverso, e l’altro il mar travolse
1490Via ne’ suoi flutti. Rassettossi Alcide
Senza far motto, e guatò tristo intorno,
Che ozïose le mani aver non suole.
Nell’ora che a tornarne all’abituro
Bifolco o zappator punge del pasto
1495Il bramoso bisogno, e su l’ingresso
Piegando le ginocchia affaticate
Siede brutto di polve, e alle man croje
Si guarda, e molto all’importuna fame
Maledice del ventre; in quella al lido
1500Ciánide afferrâr, là dove il Cìo
Ha foce, e il monte Argantonèo s’inalza.
Li accolser quivi con maniere amiche
D’ospital cortesia di quella terra
I Misii abitatori, e vittovaglia,
1505A supplirne il difetto, agnelli e vino
Diêr loro in copia; ed altri arida frasca
Porta a far foco, altri de’ prati un molle
D’erbe e foglie volume a compor letti;
E chi legno aggirando in cavo legno,
1510Fuor ne trae la scintilla; e chi mescendo
Viene il vin ne’ crateri, e preparando
Ne va la cena, al disbarcante Apollo
Poi che fatto ha su ’l vespro il rito sacro.53
Ma di Giove il figliuolo, a far buon pasto
1515Eccitati i compagni, ir volle al bosco
A ricercarvi un maneggevol tronco
Per rifarsene un remo; e, alquanto errando,
Un abete trovò non d’assai rami
Carco, nè in molto vegetal vigore,
1520Ma quale il fusto è d’alto pioppo, e tale
Alto e grosso era quello. Immantinente
Pose egli a terra e la faretra e l’arco
E del leon la pelle, e con la greve
Ferrata clava in su ’l pedale al basso
1525Diè all’albero una scossa; indi, fidato
In sue forze, abbrancò con ambe mani
Volte retro quel tronco,54 il lato dorso
V’appontò contro, e si piantò ben fermo
Su le gambe allargate, e dal terreno,
1530Pur giù addentro, com’era, abbarbicato,
Lo sterpò con le stesse, in ch’era fitto,
Piote di terra. E come allor che al verno,
Del maligno Orïon presso al tramonto,
Irrompendo dall’alto una di vento
1535Furïosa bufera, di repente
Svelle un alber di nave in un co’ suoi
Cunei confitti; egli così l’abete55
Svelse, e l’arco ripreso, e la faretra
E la pelle e la clava, a ritornarne
1540Avviavasi al lido. Ila fra tanto
Con rámeo vaso iva da solo in cerca
Di viva acqua fontana, a lui volendo
Provvederne la mensa, e far che tutto
Ben preparato al suo ritorno ei trovi;
1545Chè così costumato avealo Alcide
Fin da fanciullo, allor che pria lo trasse
Dalla casa del padre, del Divino
De’ Drïopi signor Tëodamante,
Cui di morte ei punì, perchè conteso
1550Gli ebbe il possesso di un arante bue.56
Fendea Tëodamante in cuor crucciato
Con l’aratro un maggese; e quei gl’intima
Che pur contra sua voglia uno a lui doni
Degli aggiogati buoi, qualche pretesto
1555Porre in campo volendo a romper guerra
Sterminatrice a’ Driopi che nullo
Di giustizia in lor opre avean contegno. —
Ma tal racconto divagar farebbe
Troppo lunge il mio canto. — Prestamente
1560Ila venne a quell’acque, a cui di Fonti
Dieron nome i vicini; e quivi appunto
Dovean lor cori instituir fra poco
Del bel monte le Ninfe abitatrici,
Tutte a cui sempre celebrar Diana
1565Con notturne canzoni era costume;
E già quante a soggiorno han quelle vette
Sortito, o gli antri, e le silvestri anch’esse
Convenian d’ogni parte. Allor da quelle
Chiare e bell’acque una fontana Ninfa
1570Fuor sorgendo, da presso il giovinetto
Scòrse, che tutto di beltade apparve
Radïante, e di grazie allettatrici,
Poi che piena la luna a lui dal cielo
Rifulgea nell’aspetto; a lei Ciprigna
1575Sì d’amor ne colpì, che potè appena
Attonita gli spirti a sè raccôrre.
Ma tosto ch’ei dal margo in giù curvandosi
Tuffò il vase nell’onda, e l’onda in quello
S’infondea gorgogliando, ella d’un tratto
1580Gli gittò sovra il collo il manco braccio,
Tutta bramosa di baciarlo in bocca,
E con la destra man presogli a forza
Il cubito, giù giù seco lo trasse,
E l’immerse in quel gorgo. Un grido mise
1585Ila, e sol de’ compagni udìa quel grido
L’eroe d’Élato figlio, Polifemo,
Che vêr là s’inoltrava a farsi incontro
Al ritornar del magno Alcide. Ei ratto
Corse allora alle Fonti, come fiera
1590Che ad un lontan belar d’agnelli accorre
Di fame ardendo; e non però del gregge
Pasto può far, poi che il pastor l’avea
Chiuso già nel presepe; orribilmente
Quella, fin che n’è stanca, ulula e freme.
1595Sì l’Elatìde alto gemeva, intorno
Aggirandosi quivi, ed era indarno
Il gemer suo. Si spinse allor più innanzi,
Sguaïnato il gran brando a far difesa
Che nè belve l’assalgano, nè solo
1600Quivi essendo, le ree genti del loco
L’impiglino d’agguato, e facil preda
Ne ’l traggan seco, onde vibrando ei giva
La nuda spada; e si scontrò per via
Ad Ercole, che il passo invêr la nave
1605Sollecitava. Il riconobbe in mezzo
Pur dell’ombre; e si fece il tristo caso57
Tosto a narrargli con lena affannata:
Signor, t’annunzio un doloroso evento.
Ila per acqua ito a una fonte, indietro
1610Non tornò più. Preso i ladroni, o l’hanno
Le belve ucciso: io ne sentii le grida.
Disse, e in udirlo dalla fronte un largo
Sudor piovve ad Alcide, e l’atro sangue
Gli bollì ne’ precordii. A terra irato
1615Gitta l’abete, e via s’invola a corsa
Ove portanlo i piè, siccome quando
Morso dall’estro infuria il toro, e fugge
Prati e paduli, e nè il pastor più cura,
Nè più cura la mandra; ed or via corre
1620Senza posa, or s’arresta, e suso alzando
L’ampia cervice, mugola per duolo
Della morsura; egli così furente
Or continuo le celeri ginocchia
Spingea con fretta in suo cammino, or lasso
1625Soffermavasi, e lungo con gran voce
Un rimbombante gemito mettea.
Spuntò frattanto del mattin la stella
D’in su i monti più eccelsi, e spirâr l’aure.
E Tifi incontanente a rimbarcarsi
1630Lo stuolo esorta, e a bene usar del vento.
Tutti buon grado entrano in nave, e l’àncora
Su tirano dal fondo; alzan l’antenna;
Si gonfiano le vele; e già dilungansi
Lieti i Minii dal lido oltre alla punta
1635Del Posidèo. Ma poi che in ciel l’aurora
Dall’orizzonte irradïando alzossi,
E schiaransi le strade, e luccicanti
Di rugiadoso umor brillano i campi,
Allor si fûro i naviganti accorti
1640De’ mancanti compagni, e fra lor nacque
Acre contesa e un tempestar di voci
Per aver di lor tutti abbandonato
Il più prestante. Attonito, confuso
Giason non una proferìa parola,
1645Ma sedea, dentro rodendosi il cuore
Per sinistro sì grave. Ira ne prese
A Telamon, che tal gli fe’ rampogna:58
Tu seduto ne stai così tranquillo,
Perchè ben ti facea non più compagno
1650Ercole aver: da te il pensier ne venne,
Perchè poi per la Grecia il suo splendore
Te non oscuri, ove alle patrie case
Tornar ne dien gli dei. Ma che più dico?
Parto ancor io da’ fidi amici tuoi
1655Che con te fabbricata han questa frode.
Disse, e di lancio invêr l’Agníade Tifi
Corse. Ambo gli occhi si parean scintille
Di vivo foco; e ritornati addietro
Tosto sariéno al Misio suol, pur contro
1660Al mar lottando e all’incessante vento,
Se di Borea i due figli aspre parole
Non movean, per ostargli, a Telamone.
Sventurati! che poi dura pagarne
Pena dovean sotto le man d’Alcide,
1665D’aver fatto al cercarlo impedimento.
Nel tornar dai certami, onde onorate59
Fûr di Pelia l’esequie, Ercole uccisi60
Gli ha nell’isola Teno, e posti in tomba,
E su i tumuli lor due cippi eresse,
1670Di cui l’uno (a veder gran meraviglia)
Dondola ai soffi d’aquilon sonori.
Tanto avvenir dovea col tempo. Or Glauco
Su dall’onde frementi a’ Minii apparve,
Del divino Nerèo saggio profeta.
1675Alto levò l’ispido capo e il petto
Su fino a’ fianchi; e, con possente mano
Abbrancata la chiglia, a lor sì disse:
Perchè contra il voler del sommo Giove
Sì a cuor vi sta di pur condurre Alcide
1680D’Eeta alla città? Fato è che in Argo
Egli al tristo Euristéo compia le tutte
Dodici imposte ardue fatiche, e quando
Poi le poche restanti avrà compiute,
Salga co’ numi ad abitar. Di lui
1685Non più dunque la brama in voi s’alletti;
E Polifemo, egli è destin che presso
Alle foci del Cío fondi un’illustre
Cittade a’ Misii, e chiuda poi nel vasto
Suol de’ Cailibi i giorni. Ila, che i due
1690Fûr lasciati cercando, innamorata
Una Ninfa divina il fe’ suo sposo.
Detto così, giù in mar tuffossi, e l’onda
Vorticosa aggirandoglisi intorno
Porporeggiante spumeggiò, la cava
1595Nave aspergendo61 di marino spruzzo.
Gli eroi gioîro; e Talamon di tratto
Venne innanzi a Giasone, e nella mano
La man gli pose, ed abbracciollo, e disse:
Figlio d’Esón, non mi serbar rancore,
1700Se imprudente t’offesi. Il duol mi spinse
A dir cosa arrogante e immoderata;
Ma diamo ai venti a via portar la rea
Parola, e noi torniam, qual prima, amici.
E saggiamente a lui d’Esóne il figlio:
1705Oh! mio caro, d’oltraggio acerbo in vero
Mi feristi, dicendo in faccia a tutti
Che traditor del generoso amico
Io fui. Trafitto di dolor ne stetti,
Ma non però l’amaro sdegno a lungo
1710Io serberò; che contra me tu irato
Non inveisti per subjetto vile
Di greggia o di poder, ma per un caro
Compagno nostro; e in caso egual con altri
Tu in mio favor contenderesti, io spero.
1715Tacque, ed ambo, qual pria, concordi amici
Si rassisero. I due che dallo stuolo
Scevri restâr, per lo voler di Giove
Dovean, l’un (Polifemo) una cittade
Fondar tra’ Misii, che conforme il nome
1720Avrà col fiume ivi scorrente; e l’altro
Riedere in Grecia a consommar le imprese,
Onde il grava Euristéo: ma tutta pria
La Misia terra minacciò di tosto
Esterminar, se d’Ila o vivo o spento
1725Non gli trovan contezza. E i Misii a lui
Diêr pegno i figli in fra i migliori eletti
Del popolo, e giurâr che mai cessata
Del rintracciarlo non avrian la cura.
D’indi in poi tuttavolta i Cíani vanno
1730D’Ila in cerca, figliuol di Tèodamante,
E Trachine hanno in cuor, dove que’ figli
Dati ad ostaggi addotti Alcide avea.
Tutto intanto quel dì, tutta la notte
Forte il vento soffiando, a corso pieno
1735Ne portava la nave; ma più fiato
Su ’l presso del mattin non ne spirava,
Sì che scorgendo i naviganti un molto
Ampio lido che innanzi a lor si stende,
Quivi col sole andâr vogando a proda.
Note
- ↑ Var. al v. 11. Sol calzato d’un piè; nè guari poi,
- ↑ Var. al v. 17. Al convito che il Sire imbandia sacro
- ↑ Var. al v. 121. Un’isola s’avea presso d’Atene
- ↑ Qui si omette la versione dei versi 111-114 per le ragioni addotte dal Wellauer nella nota.
- ↑
Var. ai v. 184-185. L’avvisar degli augelli, e su gli altari
Delle vittime ardenti i varii segni.
- ↑ Var. al v. 233. Piante sfiorava, e via ne gìa di volo.
- ↑
Var. ai v. 247-249. Che, tranne Alcide, altri fra lor prestante
Stato fosse in Etolia ad afforzarsi.
Più non v’avrebbe, ove un sol anno ancora
- ↑ Var. al v. 258. Fautor di gloria era a Giasone anch’egli.
- ↑ Var. al v. 289. E allo stesso Giasone era pur madre
- ↑
Var. ai v. 293-294. Di che d’uopo han le navi a far viaggio,
Quando il bisogno a naveggiar trae l’uomo,
- ↑ Var. al v. 320. De’ futuri travagli ignaro appieno!
- ↑ Var. al v. 363. Gloria tanta e diletto ebbi finora,
- ↑
Var. ai v. 406-407. Si raccolsero, e a corsa ecco venirne
Veggon dalla cittade Acasto ed Argo,
- ↑ Var. al v. 418. Esonide così lor parlamenta:
- ↑
Var. ai v. 437-438. A tal grado. Sol quegli che raccolto
Ha questo stuolo, a questo stuolo imperi.
- ↑ Var. al v. 449. Qua conducendo i meglio eletti buoi,
- ↑ Si è omessa la traduzione de’ versi 378-379 per ciò che ne dice il Matthiae nelle Observat. crit., pag. 26.
- ↑ Var. al v. 554. Là in terra d’Asia. Io presapea mia sorte,
- ↑ Var. al v. 558. Alle mie case nominanza illustre
- ↑
Var. ai v. 588-589. Mentre ch’Ida è con te, ne stésse contro
Anco un iddio.
- ↑
Var. ai v. 649-650. Aspersero di vino: indi li fece
L’aere oscurato ricordar del sonno.
- ↑
Var. ai v. 696-697. Anco il figliuol di Filira, Chirone,
Giù dall’erto suo monte al lido scese
- ↑ Var. al v. 729. Quando torna dal pasco al pecorile;
- ↑ Non al morto Dolope, con lo Scoliaste, col Flangini e seguaci, ma bensì al contrario vento è da intendere che i Minii ora sacrificassero. Vedi Erodoto, lib. VII, 191, e la nota 465 del Mustoxidi a quel luogo.
- ↑ Var. al v. 749. Afete d’Argo usan nomar le genti.
- ↑ Qui si omette la versione del verso 593, giudicato intruso dal Beck e dal Wellauer.
- ↑ Vedi la nota del Wellauer.
- ↑ Var. al v. 899. A’ Minii, e questi immantinente a chiederle
- ↑
Var. ai v. 924-925. D’ostro splendenti, ed ogni falda in fondo
Di dedalei ricami avea lavoro.
- ↑ Var. al v. 933. Figli, Anfióne eranvi, e Zeto, e quivi
- ↑ Var. al v. 941. Grande due tanti gli venìa su l’orme.
- ↑ Var. al v. 984. Gare importune suscitar d’amore.
- ↑ Var. al v. 1006. Di virgineo pudore,
- ↑
Var. ai v. 1012-1014. Nella Tracia contrada. E dirò tutto
Qual veramente il tristo caso avvenne,
Sì che noto a voi stessi anco ben sia. - ↑ Var. al v. 1019. Pur di là n’adducean giovani donne.
- ↑
Var. ai v. 1051-1052. Là tornâr dove ancor le nevicose
Tracie campagne ad abitar si stanno.
- ↑
Var. ai v. 1061-1062. Alla nave, e a’ compagni i sensi nostri
Porta, nè più restar fuor delle mura.
- ↑ Var. al v. 1090. Venne ciascuno, Ercole eccetto, e pochi
- ↑ Var. al v. 1141. Di leggier molte genti anco raccôrre
- ↑ Var. al v. 1145. D’Issipile memoria, ed or mi lascia
- ↑
Var. ai v. 1157-1161. Mandalo adulto alla Pelasga Solco,
In lor case nudrito il tengan caro.
Al dolente per me padre conforto,
E alla madre, se vivi ancor gli avvenga
Ritrovarli, sì ch’essi, al re d’ascoso.
- ↑
Var. ai v. 1177-1178. Poi del Mélano golfo andâr vogando
Via per l’acque profonde, e quinci il lido
- ↑ Var. al v. 1192. E nella notte poi poggiando, orzando,
- ↑
Var. ai v. 1207-1209. Abitavano, e re v’era d’Enèo
Eneta, figlia dell’illustre Eusoro.
L’eroe Gizico figlio, a cui fu madre
- ↑ Var. al v. 1244. Del padre avea novellamente addotta,
- ↑ Var. al v. 1312. Chè Giasone, a cui vòlto erasi contro,
- ↑ Var. al v. 1313. L’asta gl’infisse in mezzo al petto, e l’osso
- ↑ Il Brunek, il Flanzini, il Beck e il Fawkes intendono delle lagrime sparse dalle Ninfe; ma il pronome οἱ è del singolare, e il verbo attivo χεῦαν può stare per medio. Vedi lo Scoliaste.
- ↑ Var. al v. 1394. Procelle: ho dianzi una tal voce udito
- ↑ Var. al v. 1401. Si ritragge, e i beati altri immortali
- ↑ Var. al v. 1434. Fidi Ministri della Diva al fianco,
- ↑
Var. ai v. 1438-1439. All’Oásside suolo. In su le ardenti
Ostie libando, assai pregò Giasone
- ↑ Var. al v. 1513. Poi che sul vespro un sagrificio han fatto.
- ↑ Così credo doversi intendere il come Ercole abbrancò l’albero, poichè siegue che vi appoggiò contro le spalle.
- ↑
Var. ai v. 1536-1537. Strappa via dalle funi alber di nave
Pur co’ suoi cogni; ed ei così l’abete
- ↑
Var. ai v. 1549-1550. Cui di morte ei multò, perchè d’un bue
Arator dinegato ebbegli il dono.
- ↑
Var. ai v. 1604-1606. Ad Ercole, che il passo studiava
Pur fra l’ombre, e si fece il tristo caso
Ritornando alla nave. Il riconobbe
- ↑ Var. al v. 1647. A Telamon, che tal parlar gli volge:
- ↑ Var. al v. 1666. Redian essi dai ludi, onde onorate
- ↑ Var. al v. 1667. Fûr di Pelia l’esequie, e quegli uccisi
- ↑ Altri traducono in altro senso questo verso, preso il verbo ἔκλυσε da ἑκλὑω, altri da κλὐζω.