Libro II

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Apollonio Rodio - Gli Argonauti (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Felice Bellotti (1873)
Libro II
Libro I Libro III
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LIBRO II.


Eran d’Amico quivi e il regio tetto
     E i presepi de’ buoi, d’Amico fiero
     De’ Bebríci signor, cui partoria
     La Bitìnide Melia in amoroso
     5Col Genetlio Nettun letto congiunta.
     Sovra gli uomini tutti oltracotante
     Avea quel re dura a’ stranieri imposta
     Una legge, che quinci alcun non parta
     Pria che fatto con lui non abbia prova
     10Del pugilato; e in quella pugna ucciso
     Molti avea de’ vicini. Invêr la nave
     Allor venne e sdegnò superbamente
     Chieder qual del viaggio era l’intento,
     Che gente è quella; e si fe’ presso, e a tutti
     15Gittò queste parole: Udite, o voi
     Vaganti in mar, ciò che saper v’è d’uopo.
     Nullo stranier che fra’ Bebríci arrivi
     Può per legge partir pria che sue mani
     Alzi contro alle mie, di cesto armate.

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     20Però scegliete un d’infra voi, che sia
     Il più valente, a venir tosto a prova
     Meco nel pugilato. Ove mie leggi
     Conculcar v’avvisaste, una possente
     Sopra voi piomberà sorte funesta.
25Sì parlò burbanzoso. Acre dispetto
     Prese tutti in udirlo, e più Polluce
     La disfida irritò. Subitamente
     Stette campion de’ suoi compagni, e disse:
     Sta; non usar, qual che tu d’esser vanti,
     30Forza iniqua con noi: noi le tue leggi
     Osserverem, siccome imponi; ed io
     Teco affrontarmi volentier prometto.
Impavido si disse; e l’altro in lui
     S’affissò, gli occhi roteando a guisa
     35Di ferito leone, a cui sul monte
     S’affaccendano intorno i cacciatori;
     E di tutta la torma, ond’è ricinto,
     Ei non cura nessuno, e guata solo
     Quel che primo il ferì, ma non l’ha domo.
     40Il Tindàride allora il ben tessuto
     Fino pallio depose, ospital dono
     Che taluna gli fêa donna di Lenno;
     L’altro il bruno sfibbiò largo mantello,
     E gittollo con esso il nocchioruto
     45Baston, che porta, di selvaggio olivo;
     Quindi, poi che squadrato ebbero il campo
     Scelto alla pugna, in su l’arene tutti1

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     Seder fêro i compagni, e i due nel mezzo
     Stetter, non di natura e non d’aspetto2
     50Simiglianti fra lor. L’uno del truce
     Tifeo progenie, o della Terra stessa
     Parto orrendo parea, di quei che un tempo
     Contro a Giove crucciata ella produsse;
     E il Tindàride eroe simile all’astro
     55Era del ciel che vêr l’occaso a sera
     Di bellissima luce acceso splende.3
     Tal di Giove quel figlio, a cui la gota
     Fiorìa bensì del primo pelo, e l’occhio
     Di giovanil serenità brillava;
     60Ma forze e cuor, qual d’una fiera, avea.
     Brandì le mani ad esperir se ancora
     Agili sono, o se dal faticoso
     Oprar del remo intormentite e pigre.
     Non Amico ciò fece: ei se ne stava
     65Taciturno in distanza, a lui guatando,
     E il cuor gli si struggea di fargli il sangue
     Sgorgar dal petto. Un de’ suoi servi allora,
     Licoréo, pose a’ piè di ciascun d’essi
     Due crudi cesti che risecchi e croi
     70Eransi fatti. In arrogante modo
     Amico all’altro: Ecco, dicea, di questi
     Quali tu vuoi, senza gittar le sorti,

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     Di buon grado io ti cedo, a fin che biasmo
     Non me n’abbi a dar poi. Ponli alle mani;
     75Provali, e quindi raccontar potrai
     Com’io ben so tagliar de’ buoi le dure
     Pelli, e a’ pugnanti insanguinar le guancie.
Nulla Polluce a lui. Pacatamente
     Ei sorridendo i due cesti raccolse,
     80Senza esitar, presso a’ suoi piè giacenti;
     E a lui Castore accorse, e di Biante
     Grande figlio Talao, che tosto al pugno
     Gli allacciarono i cuoi, e d’esser forte
     L’esortâr nel conflitto. Ornito e Areto
     85Ciò ad Amico facean, non prevedendo
     Che per l’ultima volta ora in mal punto
     Gli vestìano quell’armi. E poi ch’entrambo,
     L’un di qua, l’un di là, si fûr parati,
     Ratto l’un contra l’altro i poderosi
     90Pugni in alto levando, ad affrontarsi
     Venner con furia. E de’ Bebríci il Sire,
     Come fiotto di mar, che si trabocca
     Contra un’agile nave, e conquassarne
     Vuole il fianco, e sfondarlo, e mercè l’arte
     95Del perito nocchier quella il declina;
     Ei con pari furor Polluce insegue,
     Nè posar mai gli concedeva; e questi
     Per sua molla accortezza illeso sempre,
     L’impeto ne cansava, e della pugna
     100Ben gli artifici argomentando, e scorto
     In che più forte, o inferïor di lui

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     È l’avversario suo, man contra mani
     Mesceva ad uopo. E come i fabri intesi
     D’una nave a fermar legno con legno,
     105Co’ pesanti martelli i chiovi acuti
     Batton, ribatton da prora e da poppa,
     E de’ colpi echeggiar l’un sovra l’altro
     S’ode il rimbombo; in pari guisa ad essi
     Di qua, di là, le guance e le mascelle
     110Crocchiavano percosse, e un gran stridìo
     S’udìa di denti; e non cessâr le offese
     Fino a che l’angosciosa ansia del petto
     Non gli ebbe domi. Allor disgiunti alquanto
     Ristettero, tergendo dalla fronte
     115Il grondante sudore, e respirando
     Con affannato affaticato anelito.
     Ma tosto poi l’un contra l’altro a zuffa
     Insursero di nuovo, a par di tauri
     Che furenti d’amor fanno battaglia
     120Per giovenca nel prato. Amico allora
     Su l’estrema de’ piè punta elevandosi,
     E allungandosi ritto a simiglianza
     D’ammazzator di buoi, giù rovesciossi
     Su Polluce col braccio ponderoso;
     125Ma questi al colpo, declinando il capo,
     Sfugge, e sol su la spalla il peso alquanto
     Del cubito riceve; e a lui più presso,
     Frammettendo il ginocchio a’ suoi ginocchi,
     Con veemente forza lo percuote
     130Sovra l’orecchio, e l’ossa entro gli spezza.

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     Per lo spasmo cascò sulle ginocchia
     Quel superbo. Acclamando i Minii eroi
     Plausero; e l’alma a lui di vita uscìo.
Nè i Bebríci però senza vendetta
     135Lasciar vollero il re; ma clave e picche
     Alto levando, impetuosi incontro
     Fêrsi a Polluce, a cui di tratto innanzi
     Piantaronsi i compagni, i brandi acuti
     Traendo fuor delle vagine. E primo
     140Castore ad un, che sovra lui correa,
     Slancia al capo un fendente, e in due lo parte,
     Sì che di qua, di là cade diviso
     Su l’un ómero e l’altro. Ed ei Polluce
     L’immane Stimonèo fiede e Mimante,
     145A quel sotto lo sterno un forte colpo
     Di piè scagliando, che lo stese a terra;
     Colse l’altro, che presso l’assalìa,
     Con la man destra al manco sopracciglio,
     Ne stracciò la palpébra, e l’occhio nudo
     150Gliene lasciò. L’oltrapossente Oride,
     Un d’Amico seguace, ha nell’addòme
     Il Bïantide Tàlao ferito,
     Ma non l’uccise, anzi la cute sola
     Gli scalfì sotto il cinto, e lasciò intatte
     155Le intestina. Ed Areto con la dura
     Clava Ifito percosse, il forte figlio
     D’Èurito, lui che non dovuto a morte
     Era per anco; ed anzi ei stesso Areto
     Dovea morto cader fra pochi istanti

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     160Dalla spada di Clizio. Allor d’un tratto
     L’ardito figlio di Licurgo, Anceo,
     Con la destra brandendo una gran scure,
     E protendendo colla manca mano
     Dell’orsa il negro vello, impetuoso4
     165Saltò in mezzo a’ Bebríci, e in un con lui
     Gli Eàcidi pur anco, e vi si spinse
     Anco il marzio Giasone. E come in giorno
     D’invernal bruma i bigi lupi entrati,
     D’ascoso a’ cani ed a’ pastori, in piena
     170Stalla d’agnelli, un gran terror lor fanno,
     E cercano guatando fra la torma
     A qual pria dar di branca; e quei s’accalcano
     Tutti insieme, e su l’un l’altro s’addossano;
     Tal gittarono i Minii alto spavento
     175Fra i Bebríci insolenti. E qual se d’api
     Grosso sciame il pastore o l’apïajo
     Col fumo assale nella cava rupe,
     Esse nell’alvear pria constipate
     Vi fan rombo e tumulto, e sbucan poi
     180Sopraffatte dal fumo, e volan lungi;5
     Così più a lungo il vigoroso assalto
     Non sostenner coloro, e via si sparsero
     Per la Bebricia ad annunciar la morte

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     D’Amico re; nè, sciagurati! un altro
     185Sovrastante infortunio era lor noto;
     Chè vigneti e casali (Amico assente)
     Messi a ruba e a soqquadro eran dall’armi
     Di Lico e in un de’ Mariandini suoi
     Che osteggiavano ognor quella di ferro
     190Altrice terra. I Minii eroi fra tanto6
     Predâr capanne e stalle, e fêr di greggi
     D’ogni intorno raccolti ampio macello;
     E fu chi tra’ compagni anco dicea:
     Oh pensate mo’ voi qual fio costoro
     195Avrian di loro codardia pagato,
     Se qua gli dei pur conduceano Alcide!
     Bensì, desso presente, io mi prometto
     Che nè pur si saria del pugilato
     Fatto periglio. Allor che il re sue leggi
     200A intimar ne venìa, tosto e sue leggi
     Àvria per opra dell’Erculea clava,
     E l’arroganza sua messa in oblìo.
     Ah! troppo noi neglettamente a terra
     Quell’uom lasciammo, e senza lui del mare
     205Corriam le vie. Ciascun di noi pur troppo
     La sua mancanza sentirà funesta!7
Così l’uomo dicea; ma tutto avvenne
     Per consiglio di Giove. In quella notte
     Là restarono i Minii, e de’ compagni
     210Medicâr le ferite, e agl’Immortali

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     Fatto un pio sacrificio, una gran cena
     Apprestarono, e sonno in fra le tazze
     E le vittime ardenti alcun non colse.
     Poi le bionde lor chiome inghirlandati
     215Della fronda d’un lauro, a cui su ’l lido
     Del naviglio le amarre avean legate,
     Tutti concordemente in bel conserto
     Con la lira d’Orfeo cantâro un inno,
     E la placida spiaggia s’allegrava
     220Di quel concento che dicea le lodi
     Dell’eroe Terapnèo, figlio di Giove.
     Poi quando il Sol su i rugiadosi colli
     A splendere tornò dall’orizzonte,
     E i pastori svegliò, dappiè del lauro
     225Sciolte le funi, e tanta preda in nave
     Posta, quanta portarne era mestieri,
     Dirizzâr con buon vento al vorticoso
     Bosforo il corso. Ivi s’inalza il flutto
     Simile ad erto monte, e par che a’ legni
     230Fino d’in su le nubi piombi sopra,
     Nè possibil diresti a mal destino
     Scampar, così qual tempestoso nugolo
     Pende sovra il naviglio; e sì pur cala
     Giù innocuo al pian, se buon nocchiero incontra;
     235Ond’è che di timor bensì compresi,
     Ma pur salvi ei passâr, grazie all’accorta
     Arte di Tifi; e l’altro dì la nave
     Legâr nel lido alla Bilinia opposto.
Stanza su quelle spiaggie avea Fineo

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     240D’Agenore figliuol, che delle tutte
     Sventure umane la maggior sofferse,
     Per la data già tempo a lui da Febo
     Profetic’arte, ond’ei mal cauto abuso
     Fe’, svelando a’ mortali anco la sacra
     245Mente di Giove. Irato il dio vecchiezza
     Diuturna gli diè, ma in un la cara
     Luce degli occhi a lui togliea, nè alcuno
     Concedeagli gustar di tanti cibi,
     Di che i vicini che il venìan chiedendo
     250Di vaticinii, gli fornian la casa;
     Chè dalle nubi repentinamente
     Giù piombando le Arpie, di man, di bocca
     Gli rapian sempre con gli adunchi artigli
     Ciò che a cibar prendea, talor la mensa
     255Disertando di tutto, e talor qualche
     Lasciandovi reliquia a fin che vivo
     Pur d’inedia languisse; e un odor tetro
     Vi spargean sopra, che nessun potea,
     Non che al labbro appressar quelle vivande,
     260Pur da lunge patirlo: un cotal puzzo
     Si diffondea da que’ lasciati avanzi.
     Or le voci egli udendo e il calpestìo
     Delle genti, avvisò giunti esser quelli,
     Dal cui venirne era da Giove a lui
     265Promesso che securo alfin potrebbe
     Fruir sue dapi. Si rizzò dal letto,
     Come spettro di sogno, e su’ piè grinzi
     Col baston sostenendosi, e tastando

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     Le pareti all’intorno, uscìa di fuori.
     270Le membra nell’andar tutte gli tremano
     Di fiacchezza e vecchiaja; ha di sozzure
     Scabra l’arida pelle, e questa è sola
     Che la compage gli contien dell’ossa.8
     Fuori uscendo sentì grave il ginocchio
     275Piegarglisi, e dell’atrio insù la soglia
     Stette, e assettossi. Una vertìgin buja
     Lo involse: sotto gli parve la terra
     Rigirarsi, e in sopor languido cadde
     Senza dir motto. A quella vista intorno
     280Gli si fecero i Minii, e ne stupîro;
     Ed ei dal fondo del petto a fatica
     Trasse un sospiro, e profetando disse:
Udite, o voi che della Grecia tutta
     Siete i miglior, se veramente siete
     285Quei che per duro del suo re comando
     Giason su l’Argo al Vello d’or conduce.
     Sì, quei voi siete: il dice a me la mia
     Mente divinatrice; e di ciò rendo
     Grazie a te, di Latona, o re, figliuolo,
     290Pur fra’ gravi miei mali. Ah per quel Giove
     Che de’ supplici ha cura, e a chi li sprezza
     È tremendo; per Febo e per la stessa
     Giunon vi prego, il cui favor vi guida
     Più che ogni nume, a me deh soccorrete!
     295Da miseria scampate un infelice;

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     Non partite di qua, me abbandonando
     Derelitto così, poi che non solo
     A me sugli occhi il piè calcò l’Erinne,
     E traggo interminabile vecchiaja,
     300Ma più acerba, più grave altra sciagura
     Anco m’affligge. A me le Arpie di bocca
     Strappano il cibo, con furor funesto
     Su me, d’onde non so, precipitando;
     Né consiglio ho che giovi; e più sarebbe
     305Facil cosa, quand’io penso a cibarmi,
     Che a me stesso ascondessi il pensier mio
     Che non a quelle: a sì rapido volo
     Scendon per l’aere. E s’egli avvien che un poco
     Di vivande ne lascino, da quella
     310Spira tal putre intollerando lezzo,
     Che nessun de’ mortali approssimarsi
     Pur vi potrebbe, anco se il cuor temprato
     Di ferro avesse. E nondimen la dura
     Necessità del pasto a restar quivi
     315Me costringe, e impozzar que’ putridumi
     Nel tristo ventre. A sterminar que’ mostri
     Oracolo divino i due disegna
     Di Borea figli. E non stranieri aita
     A straniero daran, s’io pur son quello,
     320Quel Finéo già tra gli uomini famoso
     Per opulenza e per profetic’arte;
     Ch’ebbi Agénore a padre; e la sorella
     Di que’ due Cleopatra, allor ch’io regno
     In Tracia avea, con suo dotal corredo

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     325Venne già di me sposa alle mie case.
Tanto ei diceva; e gran pietà di lui
     Sentì ciascuno, e più di tutti i due
     Di Borea figli. Essi dagli occhi il pianto
     Tergendo, a lui si fêr più presso, e Zete,
     330Presa al misero vecchio in man la mano:
     Oh infelice, gli disse, altr’uom non penso
     Ch’esser possa di te più sventurato!
     D’onde tanti malanni? Offesa hai certo
     Fatta agli dei, con mal consiglio usando
     335Dell’arte tua divinatrice; ed essi
     Son contra te sì acerbamente irati.
     Ben di giovarti è in noi desìo, ma turba
     Nostra mente il timor, che a noi quest’opra
     Non veramente imponga un dio: solenni
     340Gli sdegni son degl’immortali numi
     Verso i terrestri. Ond’è che noi le Arpie
     Non cacceremo, anco il bramando assai,
     Se non giuri tu pria, che a noi per questo
     Non corrucciati si faran gli dei.
345Sì disse, e il vecchio alzò vêr lui le aperte
     Vuote occhiaje, e rispose in questi accenti:
     Pace! di ciò non conturbarti, o figlio.
     N’attesto Apollo che insegnommi l’arte
     Del profetar; la rea sorte crudele
     350Che mi colpì, n’attesto, e questa buja
     Nube degli occhi, e i sotterranei numi
     (Che infausti in morte a me pur sian, s’io mento),
     Niuna avran del soccorso ira gli dei.

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Udito i due quel sacramento, l’opra
     355Anelâr dell’aita. Al vecchio innanzi
     Fu imbandita la mensa, ultimo pasto
     All’atre Arpie. Stetter lì presso entrambo,
     Presti a cacciar con le brandite spade
     Le assalitrici. Ed ecco, il vecchio appena
     360Tocco ha del cibo, e d’improvviso quelle
     In un balen, come procelle o fòlgori,
     Dalle nubi erompendo e schiamazzando
     Giù calarono a piombo, ansie di cibo.
     Gli eroi, ciò visto, alto sclamâr; ma, tutte
     365Depredate le dapi, esse per l’aere
     Lungi volâr con gran clangor su ’l mare,
     E un fetore insoffribile affannoso
     Ivi restò. Corser di Borea i figli9
     Dietro quelle co’ brandi, in lor da Giove
     370Tal venne infusa infaticabil lena;
     Chè non le avrìan senza il favor di Giove
     Inseguite così, poi che di Zefiro
     Precorrean desse i procellosi soffii,
     Quando a Finéo, quando da lui per l’aere
     375Veniano a volo. E qual ne’ monti i cani
     Di caccia esperti o le cornute capre
     E le damme inseguendo a fuga corrono,
     E raggiunte l’han quasi, e i musi allungano,
     E fan scricchiar nelle mascelle i denti;

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     380Zete e Càlai così già già da presso
     Seguonle, già con le protese mani
     Le aggrappan quasi, e ben le avrìan, malgrado
     Anco de’ numi, sgominate e morte,
     Poi che nelle lontane isole Plote
     383Le raggiunsero alfin; ma la veloce
     Iride che ciò vide, ivi dal Cielo
     Giù scorse, e sì parlando li rattenne:
     Non lice, olà! figli di Borea, morte
     Dar co’ brandi alle Arpie, cani del sommo
     390Giove. Ma io darovvi giuramento
     Ch’esse a Finéo non torneran più mai.
E giurò per la sacra onda di Stige
     (Reverendo e tremendo giuramento10
     A tutti dei), che in avvenir le Arpie
     395Non più dell’Agenòride Finéo
     Vedran le case, e che pur tale è il fato.
     Cesser quelli al gran giuro, e vêr la nave
     Ratto diêr volta; e da quel punto in poi
     Quell’isole che Plote eran nomate,
     400Han di Strofadi nome. Iride allora,
     E l’Arpìe si partîro; e queste a un antro
     Rifuggiron di Creta; Iri all’Olimpo
     Levossi a vol su le veloci penne.11
I prenci intanto, al vecchio re detersa
     405Dallo squallor la cute, i sacrificii,

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     Com’è rito, apprestâr con le predate
     D’Amico greggie. Entro il palagio poi
     Lauta cena imbandîro, e tutti assisi
     Banchettarno, e con essi anco Finéo
     410Che trangugiava avidamente, e in sogno
     Dar gli parea all’anima ristoro.
     Indi, poi che di cibo e di bevanda
     Ebber pago il desìo, tutta la notte
     Vigilando aspettâr di Borea i figli,
     415E in mezzo il vecchio al focolar seduto
     Così profeteggiando ad essi espose
     Del lor viaggio i vari casi e il fine:
Datemi ascolto. A voi tutto non lice
     Chiaramente saper; ma quanto ai numi
     420Aprirvi è in grado, io no ’l terrovvi ascoso.
     A dolermi ebbi già d’aver la mente
     Tutta di Giove appien fatta palese,
     Ahi troppo incauto! perocchè vuol egli
     Che gli oracoli suoi sol chiari in parte
     425Sieno a’ mortali, a fin che d’uopo in parte
     Sempre lor sia di consultar gli dei.
     Dipartiti da me voi primamente
     Là le due rupi Cianée vedrete
     Ove il mar più si stringe, e ancor fra quelle
     430Salvo, cred’io, non trapassò nessuno;
     Perocchè non si fondan su profonde
     Radici, e l’una sovente con l’altra
     A congiunger si vanno, e su lor l’onda
     S’accavalla bollendo, e la scogliosa

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     435Riva d’intorno orrendamente freme.12
     Però i nostri seguite ammonimenti,
     Se prudenza v’è scorta, e degli dei
     Pia riverenza: ir non vogliate incontro
     A tristi casi spensieratamente,
     440Nè dietro a foga giovanil correte.
     Pria fate prova: una colomba innanzi
     Della nave mandate. Ove per mezzo
     A’ due scogli passata il volo spieghi
     Salva nel Ponto, e voi pur anco allora
     445Non indugiate, e, i remi in man ben fermi,
     Fate forza di voga in quello stretto
     Fendendo il mar: non nelle preci allora
     Tanto starà l’andarne salvi, quanto
     Nel vigor delle braccia. In quel frangente
     450Via tutte cure, e a quel che importa, tutte
     Intendete le posse: io pria di quello
     Non vi disdico il far preghiere e voti.
     Che se l’augello antevolante in mezzo
     A que’ massi perì, retrocedete,
     455Retrocedete! Assai pur meglio è cedere
     Agl’Immortali. Un’impossibil cosa
     Vi sarebbe scampar da orribil morte
     Fra quelle rupi, anco il naviglio fosse
     Di tutto ferro. Ah! non ardite, o miseri,
     460Più oltre andar contro a’ presagi miei,
     Benchè me pur credeste in ira a’ numi
     Tre volte tanto ed anche più di quanto

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     In ira ei m’hanno: ir non osate innanzi
     Senza l’augurio di quel vol felice.
     465Ma tal sarà, qual esser dee, l’evento.
     Che se l’urto scansar di que’ cozzanti
     Scogli potrete, e salvi entrar nel Ponto,
     Tosto a destra tenete, ove la terra
     È de’ Bitinii, e non radete i lidi,
     470Fin che lo sbocco del veloce Reba
     Oltrepassato, e rigirato intorno
     Il Capo Nero, giungerete al porto
     Dell’Isola Tineide. Al lido opposto
     De’ Mariandini per cammin non molto
     475Verrete poi: quivi è la scesa a Dite,
     Ed alto sorge l’Acherusio capo,
     Cui dal piede fendendo il vorticoso
     Acheronte, da cupa ampia vorago
     Getta fuor l’onde sue. Quinci da presso
     480Costeggerete i molti colli intorno
     De’ Paflagóni, a cui signor primiero
     Fu Pelope Enetéo, dello cui sangue
     Esser quelli si vantano. A rincontro
     Poi dell’Orsa maggiore è una gran rupe
     485Con altissima punta, e di Carambi
     Nome le danno; e tanto in mar s’eleva
     Su verso il Ciel, che intorno alla sua vetta
     Vanno a spezzarsi d’Aquilone i turbini.
     Rivoltato quel capo, una si stende
     490Lunga spiaggia, e nel fin di quella spiaggia
     Su la riva sporgente impetuose

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     Le correnti si versano dell’Ali;
     E presso a quel, ma minor fiume, al mare
     L’Iri si volve con sue bianche spume.
     495Grande un cubito poi sorge di terra,
     E la foce è colà del Termodonte,
     Che per late campagne trascorrendo,
     In un golfo tranquillo appresso al capo
     Temiscirèo poi cade. È la pianura
     500Là di Deante, e tre città vicine,
     Delle Amazoni stanza. Abitatrice
     Segue di poi d’un’aspra terra indoma
     La più di tutte miseranda gente
     De’ Calibi operosi, a cui del ferro
     505È commesso il lavoro. I Tibareni
     Ricchi d’agnelli han quivi presso albergo,
     Di là dal capo Genetéo che sorge
     Sacro a Giove Ospitale. A’ lor confini
     In selvoso paese a piè de’ monti
     510Entro torri di quercia i Mossineci
     Fanno soggiorno. Oltre passando, ad una
     Piana isola afferrate, ogni arte quivi
     Adoprando a cacciarne i sozzi augelli
     Infestanti con numero infinito13
     515Quelle sponde deserte. Ivi di Marte
     Un marmoreo delubro Antíope e Otrera,
     Amazoni regine, eresser quando
     Là poser campo. E là dal mare a voi
     Giovamento verrà grande, insperato;

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     520Ond’io che intendo con amico affetto
     All’util vostro, io v’accomando quivi
     Approdar.... Ma perchè di nuova colpa
     Reo mi farò, partitamente a voi
     Rivelando ogni cosa? In là da quella
     525Isola e dall’opposto continente
     È de’ Filiri il suolo, e insù di loro
     Stanno i Macroni, ed oltre lor le folte
     De’ Bechiri tribù, quindi vicine
     Le de’ Sapiri e confinanti poi
     530I Bizéri, e sovr’essi han sede alfine
     I belligeri Colchi. Il cammin vostro
     Però in nave seguite infin che giunti
     Siate all’ultima proda. Ivi da lunge
     Da’ monti Amarantei scendendo il Fasi,
     535Scorso il Citaico ed il Circeo terreno,
     Volve in seno del mar l’ampio dell’acque
     Vorticoso volume. Entro sua foce
     Voi spingendo il naviglio, le torrite
     D’Eeta Citeéo mura vedrete,
     540E il bosco ombroso a Marte sacro. Appeso
     Quivi in vetta d’un faggio è il vello d’oro,
     E orribile a vedersi a guardia un drago
     Vi sta, che sospettoso intorno sempre
     Guata, nè dì nè notte i truculenti
     545Occhi mai non gli doma un dolce sonno.
Tale ei parlò. Tutti in udirlo presi
     Fûr da timore, e attoniti gran pezza
     Stettero. Alfin l’eroe Giasone, anch’egli

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     Conturbato la mente, a lui sì disse:
550Buon vecchio, a noi ben del passaggio nostro
     Disegnasti la mèta, e in qual segnale
     Fidar dobbiam di valicar nel Ponto
     Fra i due temuti orridi scogli. Or io,
     Se da quelli tornar salvi n’è dato
     555Di Grecia ai lidi, udir da te vorrei,
     E che far deggio, e come ancora, ignaro
     Del cammino, rifar tanto viaggio
     Con gl’ignari compagni? Ed Ea di Colco
     Del mare è posta e della terra in fondo.
560Gli fe’ il vecchio risposta in questi accenti:
     Figlio, com’abbi degl’infesti scogli
     Trapassato il periglio, animo prendi;
     Poichè, d’Ea ritornando, al tuo cammino
     Fia guida un nume, e per andarne ad Ea
     565Molti saranno insegnatori e duci.
     Ma oprate, amici, a procacciar lo scaltro
     Di Venere favore: il glorïoso
     Fin de’ vostri cimenti è posto in lei.
     Altre di ciò più non mi fate inchieste.
570Tacque a tanto; e là presso, ecco, del trace
     Borea i due figli per l’aere calando
     Posan su ’l suolo le veloci piante.
     Surser gli eroi dai seggi lor, veggendo
     Giunti i divi garzoni; e Zete ad essi
     575Di saper desiosi, ansante ancora
     Ed anelante ancor del faticoso
     Corso, narrò quanto lontan le Arpie

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     Spinsero, e come impedimento pose
     Iride al farne scempio, e qual la diva
     580Fe’ amichevole giuro, e nel Ditteo
     Antro corser le triste a incavernarsi.
     S’allegrâr del racconto i prenci tutti,
     E Fineo primamente, a cui rivolse
     Questi Giasone affettuosi accenti:
585Certo, o Fineo, fu un qualche iddio che prese
     Pietà del tuo misero stato, e noi
     Qui da lunge mandò, perchè soccorso
     Ne recassero a te di Borea i figli.
     Oh se la luce agli occhi tuoi rendesse
     590Quel dio pur anche, avrei, cred’io, tal gioia
     Qual se salvo tornassi al patrio tetto!
A que’ detti benigni mestamente
     Replicò l’altro: O buon figliuol d’Esone,
     Ciò non puote esser più; più non è modo
     595A rallumar questi occhi miei: consunte,
     Vuote son le pupille. Oh! presta morte
     Un dio mi mandi in quella vece: estinto,
     Di tutte gioje avrò mia parte anch’io.14
Mentre alternan fra lor queste parole,
     600Non tardò guari ad apparir l’aurora;
     E per uso i vicini ogni dì sempre
     A Fineo concorrevano a recargli
     Parte ciascun di sue vivande; ed egli
     A ciascun che con poco anco venisse,
     605Predicea le sue sorti; e da sventure

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     Molti scampò co’ vaticinii suoi,
     Onde grati venian sempre di cibo15
     A rifornirlo. Era più caro a lui
     In fra gli altri Parebio; e questi lieto
     610Fu di veder quivi que’ prodi accolti,
     Cui già tempo Fineo gli profetava
     Che dalla Grecia alla città d’Eeta
     Avviandosi un giorno, avrian, sostando,
     Amarrato la nave al Tinio lido
     615E cessato le Arpie che l’ira ultrice
     Gli mandava di Giove. Il vecchio agli altri
     Satisfacendo di prudenti avvisi,
     Li accommiatò: solo a Parebio invito
     Fe’ di restar co’ Greci eroi; ma tosto
     620Gl’ingiungea di condurgli il più perfetto
     Agnel delle sue greggie; e, lui partito,
     Dolce all’ospite stuolo ei così parla:
Amici miei, tutti non son cattivi
     Gli uomini, no, nè immemori son tutti
     625Di ricevuto beneficio. E tale
     Questi non è, che a me sen’ venne un giorno
     Per saper di sua sorte. Ei più fatiche
     Sosteneva e travagli, e più di vitto
     Inopia lo stringea. L’un dì più tristo
     630Dell’altro ognor gli succedea, nè mai
     Dal duro affaticarsi avea respiro.
     Ei pagava così pena d’un fallo
     Del proprio genitor, che un dì ne’ monti

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     Piante troncava, e disprezzò la prece
     635D’un’Amadriade Ninfa che gemendo
     Con pietose parole il deprecava
     Che non metta la scure ad una quercia
     Coetanea di lei, già da gran tempo
     Grata sua stanza. E nondimen colui16
     640Con giovanile improvida insolenza
     Ne la tagliò, sicchè la Ninfa un grave
     A lui destino e a’ figli suoi n’impose.
     E ben quando Parebio a me ne venne,
     Io sapea quella colpa, e l’esortai
     645Ergere un’ara alla Finiade Ninfa,
     E sovr’essa con ostie espiatrici
     Implorar dalla dea che la paterna
     Pena a lui perdonasse. Ed ei redento
     Poi che si fu da quel divin castigo,
     650Mai più di me non si scordò, nè in pregio
     Cessò tenermi; e di mia casa a stento
     Rimandarlo poss’io che non gl’incresca;
     Tanto egli ama star presso all’infelice.
L’Agenóride re ciò disse appena,
     655Quando Parebio ritornò traendo
     Una coppia d’agnelle. Allor Giasone
     Surse, ed ambo con lui di Borea i figli,
     Come il vecchio accennò. Tosto invocando
     Il fatidico Apollo, i sacrificii
     660Fecer su l’are al declinar del giorno;

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     E i più gioveni intanto una gioconda
     Cena apprestâro; e ben cenato poi,
     Altri presso alle amarre insù la spiaggia,
     Altri raccolti nelle regie case,
     665Adagiaronsi al sonno. Al dì novello
     L’aure etesie soffiâr, che sovra tutta
     Spiran la terra per voler di Giove;
     E la cagion di quel voler fu questa.
A’ tempi antiqui una Cirene è fama
     670Che nelle lande del Penéo le agnelle
     Guardava al pasco; e il suo virgineo fiore
     E serbar lo suo letto immacolato
     Le piacea: ma la vide in ripa al fiume
     Pascer la greggia Apollo, e via rapita,
     675Lungi d’Emonia, a custodir la diede
     Alle Ninfe di Libia abitatrici
     Presso al monte Mirtosio. Ivi ella a Febo
     Aristeo partorì, cui Nomio e Agreo
     Appellano gli Emonii; e Febo lei,
     680Per l’amor che n’avea, Ninfa esser fece
     Di lunga vita, e cacciatrice, e il figlio
     Infante ancora ad allevar nell’antro
     L’asportò di Chirone. Adulto poi,
     Nozze a lui procurâr le dive Muse,
     685E de’ morbi la cura, e la scïenza
     Gl’insegnâr de’ profeti, e il fecer capo
     De’ greggi lor quanti pascean di Ftia
     Nell’Atamanzio campo, e intorno all’alto
     Otri e del sacro Assidano alle sponde.

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     690Quando poi Sirio arse in sua vampa il suolo
     Dell’Isole Minoidi, e gli abitanti
     Più non avean riparo alcun, da Febo
     Inspirati Aristeo propulsatore
     Invocâr del flagello; ed ei del padre
     695Obbedendo al comando uscì di Ftia,
     E andò sua stanza a porre in Ceo, seguìto
     Dal popolo Parrasio che discende17
     Da Licaone. Un grande altar vi pose
     A Giove Pluvio, e instituì ne’ monti
     700Sacrificii devoti a Sirio ardente,
     E allo stesso Saturnio; e da quel dio
     Quindi mandati a rinfrescar la terra
     Per ben quaranta dì soffiano ogni anno
     Gli etesii venti; e i sacerdoti in Ceo
     705Quindi compiono ancor, pria che la stella
     Sorga del Cane, i sacrificii santi.
Tale origin si canta aver quell’aure,
     E da quelle impediti a far cammino,
     Attendean gli Argonauti; e i Tinii intanto
     710In gran copia ogni dì doni ospitali
     Porgean loro, a Fineo gratificando.
     Alfin gli eroi, poi che un altare eretto
     Hanno a’ dodici dei del mar sul lido
     Presso al lembo dell’acque18 e sacrificio

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     715Fattovi sopra, insù la nave ascesi
     Diêr mano a’ remi, e non li prese oblio
     Di seco aver la pavida colomba;
     Ma stretta in mano, e tutta trepidante
     La si teneva Eufemo; e dalla riva
     720Sciolsero l’addoppiato attorto fune.
Non isfuggì la dipartenza loro
     Di Pallade allo sguardo. Immantinente
     Salse co’ piè su nuvola leggiera,
     Che lei, grave quantunque, a ratto corso
     725Agevole portasse, al mar si volse,
     Favoreggiante a’ naviganti. E come
     A chi dal patrio suolo erra lontano
     (Che spesso avviene all’uom) terra nessuna,
     Per cui passò, dal suo pensiero è lungi,
     730Le vie percorse ha innanzi agli occhi, e a sue
     Case pensando, e terra e mare in mente
     Volge, e lo sguardo acutamente intende;
     Così dal ciel celeremente scesa
     L’alma figlia di Giove a posar venne
     735Su ’l Tinio lido inospital le piante.
Venian fra tanto i Minii a quell’angusto
     Difficil passo in fra que’ scabri scogli,
     Da cui d’ambe le parti è chiuso in mezzo.
     Già l’onda vorticosa scorrea sotto
     740Alla carena, e quei con timor molto

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     Spingeansi innanzi; e già delle cozzanti
     Rupi il fracasso a lor ferìa gli orecchi,
     E i lidi intorno ne rendean rimbombo.
     Eufemo allor con la colomba in pugno
     745Sorge, e va su la prora: i remiganti
     Per comando di Tifi a doppia lena
     Diêrsi a vogar, di trapassar fidando
     Nella lor forza in fra que’ massi; ed ecco,
     Allo svoltar d’un gomito, disgiunti
     750(E fia l’ultima volta) a sè dinanzi19
     Veggonli starsi. A quella vista l’animo
     Si turbò ne’ lor petti: Eufemo al volo
     Slanciò allor la colomba, e tutti ad una
     Alzâr le teste a riguardar; per mezzo
     755Volò quella a’ due scogli che l’un l’altro
     Con gran fragor si raccozzâro; in alto
     Saltò l’onda estuante in tal volume,
     Che una nube parea; terribilmente
     Rintronò il Ponto, e tutt’intorno il vasto
     760Aere fremè, sotto i ronchiosi scogli
     I cavi antri dal flutto ripercossi
     Fêan dentro un cupo murmure, e dell’onde
     Bianca la schiuma si sbattea su ’l lido;
     E i ritrosi dell’acqua in giro volgersi
     765Facean la nave. Al riserrarsi insieme
     Le rupi Cianée l’ultime penne
     Smozzicar della coda alla colomba;
     Ma n’uscì salva. Alto di gioja un grido

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     Mandâr tutti, ciò visto, ed a gran voce
     770Comandò Tifi che di tutta forza
     Desser ne’ remi, perocchè di nuovo
     Aprivansi le rupi. Assalse un tremito
     I remiganti allor che l’onda in mezzo
     Rifluendo di quelle, a quelle in mezzo
     775Portò la nave; e di terror, d’orrore
     Tutti rabbrividîr, pender veggendo
     Su le lor teste irreparabil morte.
     Di qua, di là già fuor s’intravvedea
     Il lato Ponto, e d’improvviso ad essi
     780Ecco sorgere innanzi un gran maroso
     Curvo e pari a stagliata immane roccia.
     Chinaron essi obliquamente il capo,
     Chè quel tutta la nave, arrovesciandosi,
     Promettea ricoprir; ma lo prevenne
     785Tifi cessando il remigar, che peso
     Al naviglio cresceva. Il fiotto enorme
     Si voltolò sotto la stiva, e tanto
     Alto la poppa ne levò, che sopra
     Pur di que’ scogli mareggiava. Eufemo
     790S’accostando a ciascun, tutti incitava
     A gittarsi sui remi a tutta possa;
     E quei l’acqua battean, forte acclamando;
     Ma quanto il legno ad arrancata voga
     Innanzi si spingea, due tanti indietro
     795Respingevalo il mar: vedeansi i remi
     Incurvarsi come archi per lo sforzo
     Degli eroi contendenti. Ed ecco un altro

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     Cavernoso gran fiotto alto levarsi;
     E il naviglio sovr’esso ruzzolando,
     800Come cilindro, impetuosamente
     Scorse; ma l’onda vorticosa il tenne
     Fra le due Cianée che d’ambo i lati
     Scotendosi fremeano; e in mezzo stava
     Impacciata la nave. Allor Minerva
     805Con la man manca dalle scabre rupi
     Disimpedilla, e con la destra al corso
     Fuor ne la spinse, onde leggiera e celere
     Scampò, siccome alato stral per l’aere;
     Se non che quelle immantinenti entrambe
     810Riserrandosi insieme, il lembo estremo
     Le cimâr dell’aplustro. Al ciel Minerva
     Risalì, poi che i Minii usciron salvi;
     E que’ scogli poi sempre in un congiunti
     Poser ferme radici: era di numi
     815Fisso così tosto che in nave alcuno
     Fosse vivo passato in mezzo ad essi.
     Dalla fredda paura i naviganti
     Respiraron, l’aperto aere veggendo,
     E l’ampia insieme di quel mar distesa;
     820Chè argomento facean d’esser dall’Orco
     Salvi scampati; e Tifi il primo a dire
     Incominciò: Ben or m’avviso al certo
     Esser noi con la nave in salvamento;
     Nè merto altri ha di ciò quanto Minerva,
     825Però ch’essa alla nave una divina
     Forza inspirò, mentre a chiavarne insieme

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     Le travi Argo intendea: quindi perduta
     Andar non puote. Or tu, figliuol d’Esone,
     Tanto più non temer ciò che t’impose
     830Il tuo signor, dacchè un iddio n’ha dato
     Di scampar da que’ scogli. A compier lievi
     Gli altri cimenti a te Finéo predisse.20
Ei, così favellando, il cammin volse
     Di mezzo al mar vêr la Bitinia terra;
     835E l’Esónide a lui fe’ di rincontro
     Con benigno sermon questa risposta:
Tifi, a che nel mio duol sì mi conforti?
     Errai; soggiacqui a troppo duro e grave
     Incarco. Io ricusar dovea di colpo,
     840Quando Pelia l’impose, una tal gesta,
     Se per castigo ancor tocco mi fosse
     Disbranato morir miseramente.
     Ora in gran tema, in opprimenti angoscie
     Io sto, del mar le tempestose vie
     845Navigar paventando e paventando
     Alle terre approdar; chè dappertutto
     Genti v’ha scelerate. Io da quel punto
     Che raccolti vi siete in favor mio,
     Sempre la notte ad ogni dì seguente
     850Veglio in sospiri, ad un ad un pensando
     I perigli a venire. Agevol cosa
     È a te sermoneggiar, che di tua vita
     Solo hai pensier; ma io che di me stesso

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     Sollecito non son punto nè poco,
     855Io per questo e per quel, per te, per tutti
     Tremo i compagni miei, se ricondurne
     Non potrem salvi al patrio suolo Elleno.
Con siffatto parlar de’ suoi campioni
     Tentar l’animo ei volle; ed essi un grido
     860Acclamâr di coraggio. A quelle voci
     Sentì l’alma Giason dentro allegrarsi,
     E con aperto ragionar soggiunse:
Amici, io pongo ogni fidanza mia
     Nel valor vostro; e se pur d’uopo fosse
     865Anco giù andar ne’ baratri dell’Orco,
     Più timor non avrò, quando voi fermi
     Ne’ cimenti terribili restate.
     Ma dacchè salvi trapassate abbiamo
     Le Simplégadi rupi, altro siffatto
     870Terror, cred’io, più non v’avrà, se quella
     Via seguirem, che ne tracciò Finéo.21
Tacque, e tosto ogni voce anco fu muta,
     E all’incessante del vogar fatica
     Inteser tutti. E giunto han già del Reba
     875La veloce corrente, e di Colone
     Lo scoglio, e quindi il Capo Nero, e poi
     Del Fillide lo sbocco, ove già tempo
     Dipsaco accolse entro sue case il figlio
     D’Atamante, che in un con l’ariéte

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     D880’Orcómeno fuggia, Dipsaco nato
     Da una Ninfa pratense. A lui superbo
     Fasto non piacque, e di suo grado elesse
     Abitar con la madre e pascer greggi
     Del Fillide paterno appresso all’acque.
     885Ora il delubro suo le larghe rive
     Di quel fiume, e quel piano, e del profondo
     Calpe visto han la foce oltrepassando,
     E dopo il dì nella tranquilla notte
     Le forze oprâr su gl’indefessi remi;
     890E qual solcando uliginoso campo
     S’affaticano i buoi laborïosi,
     E pioggia di sudor giù per lo collo
     E per li fianchi grondano, e i grandi occhi
     Strabuzzano di sotto al grave giogo,
     895E nell’aride fauci rantoloso
     Freme il fiato anelante, e pur calcando
     L’ugne dentro al terren per tutto il giorno
     Producono il lavoro; in mar que’ prodi
     Sì van battendo e ribattendo i remi.
     900Quando ancor poi nè la diurna luce
     Rifulgea, nè la notte era più fitta,
     Ma su l’ombre spandeasi un chiaror fioco,22
     Lo qual dall’uom, che al suo lume si desta,
     È crepuscolo detto; allor la voga
     905Più rinforzando, nel deserto porto

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     Entrâr della Tiniade isola, e quivi
     Scesero a terra. Di Latona il figlio
     Che, di Licia venendo, al numeroso
     Degl’Iperbórei popolo tendea,
     910Ad essi apparve. All’alternar de’ passi,
     Giù cascanti su l’ una e l’ altra gota
     Gli ondeggiavano a ciocche inanellati
     I capei d’oro: nella manca mano
     Lucid’arco vibrava, e la faretra
     915Da tergo gli pendea: sotto a’ suoi piedi
     Tutta scoteasi l’isola ed i flutti
     Frangeano gonfii a terra. Un terror sacro
     Tutti gl’invase a quella vista: alcuno
     Non osò nell’aspetto almo del nume
     920Intender gli occhi, e tutti al suolo il capo
     Tenean dimesso. Ei s’involò nell’aere
     Lungi su ’l Ponto; e quindi Orfeo rivolse
     Agli attoniti eroi queste parole:
Compagni, or sacra al matutino Apollo
     925Quest’isola nomiam, quando qui a tutti
     Matutino n’apparve; e qua su ’l lido
     Eretta un’ara, un sacrificio a lui,
     Qual che si può, si faccia: ov’egli poi
     Salvo ritorno al patrio suol ne doni,
     930Allor le cosce di cornute capre
     Gli porrem sugli altari; ora v’esorto
     Con adipe odoroso e libamenti
     Propizïarlo. — Oh fausto e buono a noi,
     Sii sempre a noi nume presente, o sire!

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935Sì disse, ed altri a costruir con pietre
     Tosto un’ara; girando altri si diêro
     Per l’isola a cercar se damma o alcuna
     Lor venisse veduta agreste capra,
     Animanti che in copia hanno covile
     940In cupe selve. E il Lalonide ad essi
     Dienne a far cacciagione; e, come è rito,
     Essi di tutti in doppio zirbo avvolte
     Arsero su la sacra ara le cosce
     Alto invocando il matutino Apollo;
     945E in largo giro intorno all’ostie un ballo
     Danzâr, devotamente il bello a Febo
     Scoccapeán, Scoccapeán, cantando.
     E d’Eagro il buon figlio un inno arguto
     Sciogliendo al suon della Bistonia cetra,
     950A intonar cominciò com’egli, il dio,
     Sotto l’erto Parnaso il mostruoso
     Delfine immane co’ suoi dardi uccise,
     Impube ancora, ancor godente e vago
     Di sua chioma ricciuta. — Oh fausto aspira!
     955Sempre, o signor, son le tue chiome intonse,
     Sempre intatte: è tuo dritto; e sol Latona
     Con le care sue mani le accarezza;
     E seguì come le Coricie Ninfe,
     Del Plisto figlie, a quell’eccidio ardire
     960Gli fêan gridando: Scocca; e d’indi in poi
     Sonò quel grido entro al bell’inno a Febo.
Poi che i prodi onorato ebbero il Dio
     Con danzate canzoni, un sacramento

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     Fêan con pii libamenti e col devoto
     965Toccar dell’ostie, che l’un l’altro aita
     Si daran sempre. E sta quel tempio ancora
     Della buona Concordia, ond’essi onore
     Rendean di quella al venerando nume.
Surta di poi la terza luce, al forte
     970Di Zefiro spirar l’erma lasciâro
     Isola montuosa, ed alla foce
     Giunsero quindi del Sangario fiume,
     Quindi de’ Mariandini al verdeggiante
     Suolo, e del Lico alle correnti, ed oltre
     975Passâr l’Antemoíside laguna;
     E sotto al vento il sartiame, e tutto
     L’armamento naval si dibattea,
     Finchè lungo la notte racquétossi
     Quel soffiar forte, e buon lor grado all’alba
     980Nel porto entrâr dell’Acherusio capo
     Che il Bitinico mar guarda e con erte
     Rupi in alto si spinge; ha liscie al piede
     E lustre pietre, intorno cui si volvono
     Con gran fremito i flutti; e su la vetta
     985Selva di larghi platani frondeggia.
     Di verso il continente una s’adima
     Cupa convalle, e v’è dell’Orco in essa
     L’antro oscuro di sassi e di boscaglia,23
     D’onde sempre un vapor freddo esalando
     990Dal tetro fondo, ognor vi sparge intorno
     Bianca una brina, che al meriggio il Sole

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     Dissolve poi. Silenzio non possiede
     Mai quel truce dirupo: il mar che frange,
     Ivi echeggia con esso il frascheggìo
     995Delle piante commosse ed agitate
     Da’ sotterranei venti. Ivi pur sono
     D’Acheronte le foci, il qual dall’alto
     Promontorio sbucando, in mar si getta
     Verso orïente, e il mena giù dall’erta
     1000Un profondo borrone. A dì più tardi
     I Niséi Megarensi a lui diêr nome
     Di Salvanauti, allor che fèan passaggio
     De’ Mariandini ad abitar la terra,
     Poi che in fiera tempesta periglianti
     1005Li salvò con le navi. Or quivi, il vento
     Testè cessato, all’Acherusio capo
     Afferrâr gli Argonauti. A lungo ignoto
     Non fu a Lico, signor di quella terra,
     Nè al popol Mariandino, esser là giunti
     1010D’Amico gli uccisori, onde già udito
     Avean correre il grido; e per quel fatto
     Si strinser tosto in amistà con essi,
     E d’ogni parte una gran folla accorsa,
     Orrevolmente salutâr Polluce
     1015Come un Iddio, poi che da tempo assai
     Co’ Bebríci insolenti aveano guerra.
     Allor presti in città tutti venuti,
     Nelle case di Lico amicamente
     Banchettaron quel giorno, e con alterni
     1020Favellamenti s’allegrâr gli spiriti.

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     E l’Esónide a Lico ad uno ad uno
     La schiatta e il nome de’ compagni suoi
     Esponeva, e di Pelia il fier comando,
     E come ospizio dalle Lennie donne
     1025Ebbero, e quanto in Cìzico, soggiorno
     De’ Dolïoni, oprâro, e venner quindi
     In Misia, e a Cío, dove il prestante Alcide
     Lasciâr spensatamente; e gli ridisse
     Di Glauco i vaticinii, e come a morte
     1030Amico han tratto, e la Bebricia gente;
     Nè i profetici detti e il tristo stato
     Di Finéo tacque, e il venturoso scampo
     Di mezzo alle Simplegadi, e lo scontro
     Che in un’isola quindi ebber d’Apollo.
     1035All’udir quel racconto in cuor diletto
     Lico prendea, ma del lasciato Alcide
     Gli dolse, e a tutti in questi accenti il disse:
Oh amici, oh di qual uom senza l’aita
     Vi cimentate ad un tanto viaggio,
     1040Quanto è quinci ad Eeta! Io ben quel forte
     Vidi e conobbi in queste case istesse
     Di Dáscilo mio padre allor ch’ei venne
     Qua pedestre il suol d’Asia attraversando,
     Apportatore ad Euristeo del cinto
     1045Della guerriera Ippolita. Trovommi
     Ombrante allor del primo pel le gote;
     E di Príola qui allora (un mio fratello
     Da’ Misii ucciso e la cui morte ancora
     Con lugubri canzoni il popol piange)

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     1050Ne’ funebri certami il poderoso
     Vinse pugile Titia, il qual su tutti
     Primeggiava i garzoni in eccellenza
     E d’aspetto e di forza; e Alcide a lui
     Cacciò di bocca insù la terra i denti.24
     1055Co’ Misii poi fe’ al padre mio soggetti,
     E i Frigi che le terre hanno con noi
     Conterminanti, e le tribù Bitine
     Col tenimento lor fino alla foce
     Del Reba e di Colone all’erto scoglio;
     1060E i Pelopèi Paflàgoni la fronte
     Anco piegâr, quanti ne cinge intorno
     La bruna acqua del Billo. Ma lontano
     Ito Alcide, i Bebríci e l’insolente
     D’Amico prepotenza a me ciò tutto25
     1065Han ritolto, e il mio regno assai reciso,
     E del loro il confin lungi promosso
     Fin dell’Ipio alle lande. Or voi la pena
     Ben pagar lor ne fêste, e sì cred’io
     Che non senza de’ numi assentimento
     1070Il Tindàride eroe portò battaglia
     A’ Bebríci quel dì che il maledetto
     Lor sire uccise. Io di favor sì grande
     Quella tutta mercè che render posso

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     Renderò volentier; chè ben s’addice
     1075A’ deboli ciò far, quando i più forti
     Recan lor giovamento. A voi compagno
     Darò Dàscilo mio figlio diletto,
     E ospitali accoglienze in ogni dove
     Troverete con lui sino alla foce
     1080Pur là del Termodonte. Ed io su ’l vertice
     Dell’Acherusio promontorio un alto
     A’ Tindàridi tempio ergerò sacro,
     Cui d’assai lunge per lo mar veggendo
     Venereranno i naviganti; ed anco
     1085Innanzi alla città, siccome a numi,
     Lor farò dono di feraci campi.
Fra le mense così favoleggiando
     Consumarono il giorno; e tutti poi
     Solleciti al mattin verso la nave
     1090Scesero; e Lico ei pur venìa con molta
     Copia di doni, e seco il figlio avea,
     Di casa addotto a navigar con loro.
Quivi un fiero destin Idmon, d’Abante
     Figliuol, colpì che di profetic’arte
     1095Dotto era pur; ma la profetic’arte
     Non lo salvò, poi che il poter del fato
     A perir lo traea. Dentro a un cannoso
     Padul della riviera a raffrescarsi
     Nella melma la pancia immane e i fianchi
     1100S’acquattava un cignal di bianche zanne,
     Orrido mostro, onde avean tema anch’esse
     In quell’acque le Ninfe; ed uom veduto

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     Non l’avea mai, chè solitario, occulto
     Nel lagume vivea. Ma, mentre Idmone
     1105Su i rialti lo stagno attraversava,
     Ecco, d’onde che fosse, ecco la belva
     D’in fra le canne spiccando un gran salto,
     L’ischio gli addenta furïosa, e i nervi
     Ne squarcia e l’osso. Alto diè un grido il misero,
     1110E cadde. Un grido al suo cader da tutti
     Alto echeggiò. Ratto uno stral Peléo
     Scoccò contra il cinghiai che nel marese
     Rifuggìa: si ritorse impetuoso
     Il feroce animale ad assaltarlo;
     1115Ma d’asta Ida il ferì, sì che ruggendo
     Stramazzò su l’infitto acuto ferro.
     Quivi spento il lasciâro, ed alla nave
     Mesti i compagni ne portâr quel prode
     Già boccheggiante, che de’ cari amici
     1120Fra le braccia spirò l’ultimo spiro.
Quindi al pensier della partenza imposto
     Fu indugio, e tutti attesero dolenti
     L’estinto a funerar. Tre interi giorni
     Lo piansero, e nel quarto sepoltura
     1125Gli diêr solennemente, e in un concorse
     Con lo stesso re Lico il popol tutto
     Alla pia cerimonia, e mortuali
     Agnelle assai sgozzaron su la tomba,
     Cui di terra ammontarono, e (segnale
     1130Anco a veder da’ posteri) piantato
     Poco di sotto all’Acherusia vetta,

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     Nautico palo di selvaggio olivo
     Frondeggiante verdeggia. E se ancor questo
     Col favor delle Muse io cantar deggio,
     1135Dirò che Febo apertamente impose
     A’ Beoti e Nisei render di culto
     Onoranza al sepolto, e una cittade
     Fondar là intorno all’oleastro antico;
     E quei, mutato al Divo Idmone il nome,
     1140Agamèstore ancor van celebrando.
Ma chi altri morì? poichè d’un altro
     Morto compagno alzâr gli eroi la tomba,
     E due tuttor funerei monumenti
     Appajon quivi. — Anco l’Aguìade Tifi
     1145Fama è ch’ivi cessò: non era a lui
     Dato da’ fati il navigar più lunge.
     Breve morbo il sopì d’eterno sonno
     Quivi lontan dal patrìo tetto, intanto
     Che de’ Minii lo stuolo esequïava
     1150D’Abante il figlio. Per tanta sventura
     Prese tutti gran duolo; e poi che tomba
     Diêro a lui presso all’altro, in faccia al mare
     Caddero in abbandono, e taciturni,
     Stretto il corpo ne’ pallii, nè di cibo
     1155Più ad alcun sovvenìa, nè di bevanda,
     E di tristezza si struggean; chè molto
     Già la speranza del tornar lontana.26
     E durati in quel cruccio, in quella cura
     Sarìan più ancor, se non che Giuno infuse

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     1160Una nobil baldanza in cuor d’Anceo,
     Di lui che presso dell’Imbruso all’acque
     A Nettun partoriva Astipalea,
     Ed era assai del ben guidar navigli
     Maestro esperto. Ei di repente innanzi
     1165A Peléo se ne venne, e sì gli disse:27
O d’Èaco figlio, è bella cosa or dunque
     Cessar d’ogni fatica, ed ozïosi
     Qua rimanerne in forestiera terra?
     Me Giason da Partenia al Vello adduce,
     1170Me non tanto guerrier, quanto perito
     Condottier di navigli; onde nè lieve
     Per la nave un timore in voi non sia.
     Ed altri ancor di nautic’arte instrutti
     Stavvi qui, che qualunque insù la poppa
     1175Al governo porremo, a buon viaggio
     Non fallirà. Su dunque, esorta, e lutti
     L’assunta impresa a rammentarsi incita.
Disse, e a Peléo brillò di gioja il cuore,
     Nè si posò che de’ compagni in mezzo
     1180Venne, e parlò: Prodi campioni illustri,
     A che inutil cordoglio ormai qui stiamo
     Covando inerti? Soggiacean que’ due
     Al mortal caso, a cui sortilli il fato;
     Ma noi nocchieri a ben guidar la nave
     1185Altri abbiamo, e non pochi. Il tempo adunque
     Non logriam negl’indugi: or via gittate

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     I pensier tristi, e risorgete all’opra!
Mesto Giasone a lui risponde: O figlio
     D’Éaco, ove son questi nocchieri esperti?
     1190Quei che periti della nautic’arte
     Vantavamo fra noi ve’ come a terra
     Chine han le fronti, e son di me più afflitti.
     Io con la morte di que’ due preveggo
     Mala sorte a noi pur, se nè concesso
     1195Sarà l’andarne alla città d’Eeta,
     Nè fuor da’ scogli Cianèi ritorno
     Far di Grecia alla terra, e in ozio vano
     Noi qua invecchiando, inonoratamente
     Misera morte coprirà d’oblio.
1200Tacque; ed Ancéo con pronta voglia il legno
     Guidar promise; e l’animava al certo
     D’un dio lo spirto. E dopo lui bramosi
     Di quel governo Ergin, Nauplio ed Eufemo
     Sursero pur; ma dello stuolo il voto28
     1205Quella gara contenne, e scelse Ancéo.
     Poi su ’l mattin del dodicesmo giorno
     Salsero in nave. A lor soffiava in poppa
     Un zefiro gagliardo. Prestamente
     L’Acheronte vogando oltrepassato,
     1210Sciorinarono alacri i lini al vento,
     E a gonfie vele e con sereno cielo
     Molto corsero innanzi, e giunti in breve
     Son del fiume Callìcoro alle foci,
     Là ’ve di Giove il Nisio figlio è grido

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     1215Che dall’Indiche genti alla natìa
     Tebe tornando, celebrò sue feste,
     E danzar fe’ suoi cori innanzi all’antro
     Che a lui d’aula fu in vece a riposarsi
     Le sacre notti; onde quel fiume poi
     1220Callìcoro fu detto, Aulio quell’antro.
Dell’Attóride Stenelo la tomba
     Videro poi, di lui che dalla guerra
     Delle Amazoni, ov’ito era compagno
     Ad Alcide, tornando, di saetta
     1225Estinto giacque in quel marino lido.
     Non ancor trapassati, ecco la stessa
     Dea Proserpina a lor suscitò l’ombra
     Dell’Attóride eroe, che lagrimando
     La pregò di poter quelle un istante
     1230Genti mirar compatriote. E surta29
     Del tumulo su ’l colmo contemplava
     L’Argóo naviglio. Era in sembianza tale,
     Quale a battaglia andar soleva; e bello
     Di quattro coni e di purpurea cresta
     1235Gli sfolgorava adorno un elmo in fronte.
     Tale apparve, e nel bujo atro d’Averno
     S’affondò nuovamente. A quella vista
     Stettero i Minii di stupor colpiti;
     E d’Ampico il figliuol, Mopso profeta,
     1240Quivi gli esorta a soffermarsi, e l’ombra
     Propizïar con libamenti; ed essi
     Strinser tosto la vela, e fuor su ’l lido

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     Le gomene gittâr; quindi al sepolcro
     Fûr di Stenelo intorno, e libagioni
     1245Sparser su quello, e vittime d’agnelli
     Sagrificâro. Indi un altar da parte
     Eretto a Febo salvator di navi,
     Ostie v’arsero sopra, e Orfeo sua lira
     V’appese; e Lira indi fu detto il loco.
1250Tosto poi, come urgea prospero il vento,
     Rimbarcaronsi i Minii, e la distesa
     Vela fermâr con poggia ed orza, e celere
     Correa la nave a fior di mare, in guisa
     Di sparvier che su l’ali aperte e quete,
     1255Senza batterle al vol, via via veloce
     Va per lo ciel dall’aere portato.
     E già innanzi al Partenio ei son trascorsi,
     Placido fiume, che colà s’insala,
     Di cui la diva di Latona figlia,
     1260Quando vien dalla caccia, e sale al cielo,
     Rinfresca pria le faticate membra
     Nelle piacevol’acque. E innanzi ognora30
     Spingendo il corso per tutta la notte,
     E Sésamo e gli eccelsi oltrepassâro
     1265Monti Eritini ed il Crobìalo e Cromna
     E il selvoso Citoro. Indi co’ nuovi
     Raggi del sol rigirano il Carambi,
     E co’ remi di poi battono il mare
     Tutto il dì piaggia piaggia, e la seguente

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     1270Notte pur anco. Dell’Assiria terra
     Sorgon quindi alle coste, ove a Sinòpe,
     Figlia d’Asopo, un dì Giove diè stanza,
     E col prometter suo fraude a sè stesso
     Da sè tessendo, a lei serbar concesse
     1275Verginità. Fruir con lei volendo
     I diletti d’amor, darle promise
     Tutto ch’ella chiedesse; e scaltra a lui
     Ella serbar verginità richiese.
     Anco frodò con simil tratto Apollo
     1280Dell’amplesso di lei desideroso,
     E non men l’Ali fiume; ed uom nessuno
     Fra sue cupide braccia unqua la strinse.
     Là del Trinéo Deímaco a soggiorno
     I tre figli venian, Deïleonte
     1285Ed Antólico e Flogio, allor che privi
     Restâr d’Alcide. Essi appressar veggendo
     Quello stuol navigante, iti all’incontro,
     Diêr di sè conto a’ Greci eroi; nè quivi
     Più star volendo, entrâr con quelli in nave,
     1290Allo spirar d’un forte Argeste; e spinti
     Da quell’aura veloce, oltre dell’Ali
     Passâr lo sbocco, e si lasciâr di retro
     Le correnti dell’Iri e dell’Assìra
     Terra le dune; e in quel medesmo giorno
     1295Svoltâr da lungi l’Amazonio Capo
     Che di porto è fornito. Ivi l’eroe
     Alcide avea la marzia Melanippe,
     Che incontro gli si fe’, presa d’agguato;

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     Ed Ippolita a lui per lo riscatto
     1300Di quella suora sua cesse l’adorno
     Suo cinto; e intatta ei la rendette a lei.
     Di quel capo nel seno, appo le foci
     Del Termodonte approdano; chè il mare
     Si corrucciava a’ naviganti. Un altro
     1305Non v’ha simile fiume al Termodonte,
     Nè che fuor del suo letto in su la terra
     Sparga tante fiumane, che se tutte
     Numerarle vuol l’uom, quattro ne conta
     Sol di manco alle cento, e n’è di tutte
     1310Una sola la fonte, che dagli alti
     Monti, a cui d’Amazonii il nome han posto,
     Discende a valle, e poi che a batter viene
     Su un’erta opposta, ivi si rompe in molti
     Vaganti rivi, e qual di lor va lunge,
     1315Qual dappresso s’affonda, e di non pochi
     Anco ignorasi il dove; ed esso il fiume
     Con non molti seguaci apertamente,
     Spuma intorno sbruffando, entra nel Ponto.
     Con le Amazoni preso avrìan conflitto
     1320Quivi indugiando i Greci, e senza sangue
     Non saria stato il battagliar; chè molto
     Miti non son, nè di giustizia amiche
     Le abitatrici del Deantio suolo;
     Ma insolenza di pianto eccitatrice,
     1325E i travagli di Marte a lor son cari,
     Schiatta essendo di Marte e della Ninfa
     Armonia, che in amor col dio congiunta

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     Entro a’ recessi dell’Almonia selva,
     Quelle a lui partoria figlie di guerra
     1330Desiderose. Ma d’Argeste ancora
     Tornâr l’aure a spirar, mercè di Giove,31
     E con prospero vento essi la curva
     Spiaggia lasciâr, dove cingean già l’armi
     Le Temiscirie Amazoni; chè tutte
     1335Una sola città non le accogliea,
     Ma per tribù divise in tre diverse
     Regïoni avean sede. In Temiscira
     Stavan coteste, a cui regina allora
     Era Ippolita; ed altre abitatrici
     1340Son di Licasto, e di Cadesa l’altre
     Saettatrici esperte. Il dì che siegue
     E la notte di poi venian dappresso
     De’ Cálibi alla terra. Una tal gente
     Nè suole i campi arar co’ buoi, nè alcuna
     1345Util pianta allevar di dolce frutto,
     Nè guidar greggi a rugiadosi paschi,
     Ma scavando il terren sodo, di ferro
     Producitor, vitto si merca, e mai
     Non sorge aurora di fatiche immune
     1350A lor di fumo e di fuligin nera
     Sozzi mai sempre, e al lavor duro intesi.
Tosto poi, volteggiati intorno al capo
     Di Giove Genetèo, scorron lunghesso
     La Tibarenia terra, ove de’ parti

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     1355Tosto che il grembo alleviâr le donne
     I mariti s’allettano, e rinvolti
     Di fasce il capo fan gemiti e omei;
     E quelle a lor di confortevol cibo
     Porgon ristoro, e apprestano i lavacri
     1360Puerperali. Il sacro monte poi
     E il paese passâr, dove fra balze
     I Mossinéci han le mossìne a stanza,
     D’onde traggono il nome. E leggi ed usi
     Da ogni gente han diversi. Atto che altrove
     1365Far del popolo in mezzo, in mezzo al foro
     Lice palesemente, entro lor case
     Ei fanno occulti, e quanto in chiuse stanze
     Opriamo noi, fuor senza biasmo ei tutto
     Fanno all’aperto nelle vie frequenti,
     1370Nè pubblico pudor vela del letto
     Le lascive opre, e come ciacchi in branco,
     Nulla pur de’ presenti vergognando
     Stesi giù su ’l terren mesconsi insieme
     Con le donne in amore. Il re sedendo
     1375In altissima torre imparte a tutti
     Giusta ragione, e se dal retto un punto
     Pur devìa, sciagurato! entro il rinchiudono
     In quel dì stesso, e il fan perir di fame.
Già in là trascorsi, e giunti incontro ormai
     1380Sono di Marte all’isola, co’ remi
     Tutto il giorno attendendo a fender l’onda,
     Perocchè del mattin la facil’aura
     Più non soffiava. Ed ecco in alto correre

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     Veggono a volo un marzïale augello
     1385Che nell’isola ha nido, il qual dell’ale
     Data una scossa, insù ’l naviglio acuta
     Una penna scagliò, che al divo Oilèo
     Si conficcò nell’omero sinistro.
     Il ferito scappar fuor dalle mani
     1390Lasciossi il remo, e di stupor fûr tutti
     Còlti al mirar di quel pennace strale.32
     Glielo svelse Eribòte, che seduto
     Gli stava al fianco, e del suo brando sciolta
     La pendente tracolla, a lui con quella
     1395Ne fasciò la ferita. Un altro intanto
     Di que’ volanti apparve, e Clizio, il prode
     D’Eúrito figlio, che già teso in mano
     L’arco tenea, scoccò veloce un dardo
     Alla sua mira, e il colse, e roteando
     1400Quel cadde giù presso alla nave in mare.
     Allor disse a’ compagni Afidamante:
     Certo di Marte è l’isola vicina;
     L’avvisate voi stessi alla veduta
     Di questi augelli; ed io sperar non oso
     1405Che a salvarne da lor, quivi approdando,
     Ne bastino le freccie. Altro si prenda
     Util consiglio, se afferrar volete
     A quella terra, e le avvertenze saggie
     Di Finéo rimembrate. Ercole anch’esso
     1410Pur non potè, quando in Arcadia venne
     (E il vidi io stesso), con le sue saette

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     Gli stinfàlidi augei fugar dal lago.
     Bensì salito ad alta balza in cima,
     Tamburò con le mani un assordante
     1415Bronzeo strumento, e a quel fragor sorpresi
     Quei da spavento orribile, lontano
     Fuggîr stridendo. Ed anche noi partito
     Pigliam conforme; anzi dirò quel ch’io
     Già in mente divisai. Tutti sul capo
     1420Gli elmi poniam d’alto cimiero instrutti,
     E a vicenda co’ remi il legno spinga
     Metà di noi, metà di lucid’aste
     E di scudi a difesa armi la nave,
     E tutti poi concorde un grido alzate,
     1425Tal che quelli spavento abbian di tanto
     Scoppio inusato, e de’ cimier che ondeggiano,
     E delle in aria aste vibranti; e quando
     Giunti all’isola siamo, urla farete,
     E picchiando gli scudi un gran fracasso.
1430Disse, e il provido avviso a tutti piacque;
     E di bronzee celate orribilmente
     Rilampeggianti arman le teste, e sventolano
     Rossi all’aure i cimieri. Altri alternando
     Vogano, e con gli scudi altri o con l’aste
     1435Ricoprono la nave. E qual se l’uomo
     Di cotte argille un edificio attetta,
     Delle pioggie riparo ed ornamento,
     L’un con l’altro via via congiunge e intesse
     Gli émbrici insieme, in simigliante forma
     1440Commettendo gli scudi essi alla nave

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     Fecer coperchio. E come scoppia un fiero
     Clamor nel campo allor che squadre ostili
     Irrompono a battaglia, un tal di grida
     Fragor levossi dalla nave all’aere;
     1445Nè augel videro più; chè all’appressarsi
     A quell’isola i Minii insù gli scudi
     Percosser forte, e di repente in fuga
     Di qua, di là quell’infinito stormo
     Via ne volò; se non che al par di quando
     1450Giove fa un nembo di gragnuola spessa
     Piombar della città sovra le case,
     E gli abitanti l’odono su i tetti
     Crepitante saltar, ma stan sicuri,
     Perocchè non li colse improvveduti
     1455L’aspra intemperie, e la magion munita
     Han di salda coperta; una di penne
     Fitta grandin così su i naviganti
     Scagliâr giù quegli augelli, alto volando
     Di là dal mare alle montagne opposte.
1460Ma qual ebbe Finéo mente di quivi
     Far lo stuolo approdar? Qual pro venirne
     All’intento dovea de’ Greci eroi?
Di Frisso i figli in Colchico naviglio
     Fêan, d’Ea partiti e da quel sire Eeta,
     1465Alla città d’Orcómeno viaggio,
     Per le ingenti ricchezze ivi raccôrre
     Del padre lor, che avea, morendo, ad essi
     Di ciò fatto comando. E già quel giorno
     Eran presso a quell’isola pur giunti,

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     1470Quando Giove a soffiar di Borea mosse
     La veemenza, con acquoso nembo
     Accompagnando il sorgere d’Arturo.
     Dappria nel dì solo de’ monti il vento
     Le foglie in vetta alle più eccelse piante
     1475Lieve scotea, ma nella notte immenso
     Piombò su ’l mare, e levò i flutti in alto
     Fieramente fischiando. Atra caligine
     Ravvolse il ciel; chiuso da nubi al guardo
     Più degli astri il fulgor non apparia,
     1480E fuso è intorno un tenebroso bujo.
     Maceri e in paventosa ansia di morte
     Gìan que’ figli di Frisso trasportati
     Qua e là dall’onde, e già strappate il turbo
     Avea le vele, ed ecco in mezzo or spezza
     1485La dai marosi conquassata nave.
     Inspirati da’ numi allor que’ miseri
     S’abbrancâr tutti quattro a un grosso legno,
     Uno de’ molti che con chiovi acuti
     Pria ben commessi, ora, il naviglio infranto,
     1490Galleggiavan disgiunti; e l’onda e il vento
     Li sospinsero all’isola, di forze
     Spenti, e a poco da morte. Allor di pioggia
     Un gran torrente si versò, che il mare
     Prese, e l’isola tutta e il continente
     1495Che a rincontro vi sta, dagli oltraggiosi
     Mossineci abitato; ed essi i figli
     Di Frisso in un con la gran trave l’impeto
     Della gonfia marea sovra le sabbie

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     Dell’isola gettò nel fitto bujo
     1500Della notte. Cessò l’orrido nembo
     Col sol nascente, e quelli a caso errando
     Si scontraron co’ Minii, ed Argo, un figlio
     Di Frisso, il primo a favellar prendea:
Deh noi per Giove Altiveggente or voi
     1505Preghiam, quali che siate, a raccettarne
     Benignamente, e ad aitarne in tanta
     Nostra sventura! Imperversando in mare
     Una fiera procella, i legni tutti
     Della nave, in che noi lassi! eravamo,
     1510Sconfisse, sperperò barbaramente;33
     Sicchè noi vi preghiam, se d’esaudirne
     Pur v’aggrada, che un qualche a ricoprirne
     Panno ne diate, e che pietà vi prenda
     D’uomini a voi d’età pari, e infelici!
     1515Deh per Giove Ospitale e protettore
     De’ supplici, rispetto a noi portate:
     Supplici e peregrini a Giove cari
     Sono, e benigno anco riguarda a noi.34
E d’Esone il figliuol che di Finéo
     1520Già compirsi avvisava i vaticinii,
     Con accorta dimanda a lui rispose:
     Tutto a voi tostamente e di buon grado
     Presterem noi; ma dimmi or tu verace
     Di che terra voi siete, e qual bisogno

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     1525Vi fa correre il mare; e di voi stessi
     Il lignaggio ne dite, e il chiaro nome.
Argo compreso di dolor soggiunse:35
     Un Eòlide Frisso ad Ea venuto
     Esser di Grecia un dì, certo voi pure
     1530Già l’udiste, cred’io, Frisso che venne
     D’Eeta alla città su ’l dorso assiso
     D’un montone, a cui d’oro il vello fece
     Mercurio (e tale aurea sua pelle ancora
     Veder potreste); e per comando poi
     1535Dello stesso monton sacrificollo
     Al tutor de’ fuggenti eccelso Giove.36
     L’accolse Eeta in suo palagio, e caro
     L’ebbe sì, che Calcíope, una sua figlia,
     Sposa gli diè senza alcun dono averne;
     1540E di lor noi siam prole. Il vecchio Frisso
     Quivi a morte poi venne, e noi del padre
     Obbedendo al voler, tosto alla vòlta
     D’Orcómeno partimmo, il ricco avere
     A redar d’Atamante. E se di noi
     1545Saper brami anco i nomi, è Citissóro
     Questi, e Fronti quest’altro, e questi è Mela,
     Ed Argo alfin me chiamerete a nome.
Disse: e gli eroi dell’opportuno incontro
     Allegraronsi, e a lor meravigliando
     1550Si raccolsero intorno, e questi ad essi
     Volse Giason convenïenti detti:

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     Voi paterni congiunti a me voi dunque
     Siete, e ben fate di soccorso inchiesta
     A chi a voi già ben vuole. Eran Creteo
     1555E Atamante fratelli, e di Creteo
     Nipote io son, che alla città d’Eeta
     Vo di Grecia con questo amico stuolo....
     Ma di ciò poi ragioneremo insieme:
     Pria di vesti copritevi. De’ numi
     1560Fu, cred’io, per voler, che voi di tutto37
     Indigenti a scontrarvi in me veniste.
Detto ciò, dalla nave a rivestirli
     Fe’ panni addurre, e tutti insieme poi
     N’andâr di Marte al tempio a far d’agnelli
     1565Un sacrificio; e con pio zelo intorno
     Si raccolsero all’ara, che costrutta
     Di picciole sorgea pietre di fuori
     Di quel tempio scoverto; e dentro un sacro
     V’era gran masso, sovra cui lor voti
     1570Compieano un dì le Amazoni; nè ad esse,
     Quando quivi movean dal lido opposto,
     Lecit’era di pecore o di buoi
     Far sacrificii su cotesto altare,
     Ma cavalli scannavano già pria
     1575Lautamente pasciuti. Or poi che il sacro
     Rito i Minii han compiuto, e le spartite
     Carni gustate, incominciò Giasone
     Co’ Frissidi a parlar queste parole:

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Giove è tutto veggente, e occulti a lui
     1580Non rimangono i giusti e pii mortali;
     E com’egli scampò dall’omicida
     Crudel matrigna il padre vostro, e lungi
     Da quella immense gli largì ricchezze,
     Salvi così da una feral tempesta
     1585Ha voi pur anche; e su la nave nostra
     Dato v’è d’avviarvi a quella parte
     Che vi talenta, o ritornarne ad Ea,
     O veleggiar d’Orcòmeno divino
     Alla ricca città. Fu del naviglio
     1590Architetta Minerva, e al Pelio in cima
     Con la bipenne ne tagliò le travi,
     E di lei con l’aita Argo il costrusse.
     Ma il vostro legno i procellosi flutti
     Spersero infranto anzi che pur giungesse
     1595A quelle rupi che all’angusta foce
     Laggiù del Ponto tutto giorno al cozzo
     Vengon l’una con l’altra. Or via! compagni
     Fatevi e duci del viaggio a noi
     Che di Grecia bramiamo alle contrade
     1600Tornar con l’aureo Vello; ond’io di Frisso
     Co’ santi riti ad espïar vo l’ombra,
     Che agli Eolidi irato esser fa Giove.
Ei così gl’incitava. Essi, ciò udendo,
     Rabbrividîro; chè benigno Eeta
     1605Non istimâr che troverian, volendo
     Asportargliene il Vello. E contristato
     Che a ciò intendano i Minii, Argo rispose:

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O amici, quanto è in noi potere, a voi
     Mai nè d’un punto pur non verrà meno
     1610L’aita nostra ov’uopo fia; ma ferve
     Sì di spirti feroci il crudo Eeta,
     Che d’està impresa io temo assai. Del Sole
     Figlio ei si dice; intorno a lui di Colchi
     Stanzia un popolo immenso; ed ei per tuono
     1615Di terribile voce e per gran possa
     Anco potrebbe appareggiarsi a Marte.
     Senza d’Eeta assentimento, il tôrre,
     No, non fia quelle lane agevol cosa:
     Tal d’ogni parte è a custodirlo intento
     1620Vigile sempre ed immortale un drago,
     Cui la Terra produsse in fra le selve
     Là del Caucaso presso al Tifoneo
     Sasso, ove fama è che Tifon percosso
     Dalla folgor di Giove, allor che ardìto
     1625Fu alzar contr’esso le possenti braccia,
     Caldo sangue versò dalla piagata
     Fronte, e di là n’andò ferito a’ monti
     Ed al piano Niséo, dove ancor giace
     Nell’acque immerso del Serbonio lago.
1630Disse, e a molti di subito pallore
     Smorîr le guancie, apparecchiarsi udendo38
     Tanto cimento. Ma con franco ardire
     Gli fe’ tosto Peléo questa risposta:
Troppo così non ti smarrir di cuore,

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     1635Onorando compagno. A noi le forze
     Non mancan sì ch’esser crediam d’Eeta
     Nel periglio dell’arme inferïori.39
     Ben di guerra periti anzi là stimo
     Che n’andrem noi, noi che per poco nati
     1640Non siam del sangue degli dei. Se quindi
     L’aureo Vello quel re cortesemente
     Non ne darà, nulla potran de’ Colchi
     A lui giovar tutte le genti, io spero.
A vicenda così seguìa fra loro
     1645L’alterno ragionar, fin che di cibo
     Sazii poi s’addormîro. Al primo albore
     Risvegli e surti, aura proprizia ad essi
     Tosto spirò. Le vele issâr, che a’ soffi
     Si tesero del vento, e in breve il lito
     1650Dietro lasciâr dell’isola di Marte.
     Sopraggiunta la notte, oltrepassâro
     L’isola Filireide. Ivi Saturno,
     Figliuol d’Urano, allor che impero in cielo
     Avea sopra i Titani, e Giove infante
     1655Nell’antro in Creta da’ Cureti Idei
     Venia crescendo, un amoroso frodo
     A Rea fe’ un dì, con Filira giacendo,
     Ma la dea si fu accorta, e i due nel letto
     Colse improvvisa. Ei, su balzando, a fuga
     1660Ratto via ne scampò, trasfigurato
     In giubato cavallo; e di vergogna
     L’Oceánida Filira compresa

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     Lasciò quel loco e quelle sedi, e venne
     De’ Pelasghi nei monti, ove il concetto
     1665In quel connubio partorì di forme
     Portentoso Chiron, che ad un cavallo
     Era simile in parte, e in parte a un dio.
Quindi il suol de’ Macroni, e quindi il vasto
     De’ Bechìri paese, e gli arroganti
     1670Passarono Sapiri, indi via via
     De’ Bizèri le coste, il mar fendendo
     Sempre celeremente in là portati
     Da un agevole vento. E già l’estremo
     A’ lor guardi apparìa seno del Ponto,
     1675E già l’eccelse de’ Caucasei monti
     Cime innanzi sorgean, dove con saldi
     Ferrei lacci legato a scabra rupe,
     Col suo fegato ognor Prometeo pasce
     Un’aquila che sempre a morsellarlo
     1680Vola e rivola; e ben veduta or l’hanno
     Insù la sera con acuto strido
     Alto sul legno svolazzar: dappresso
     Era alle nubi, e nondimen, con l’ale
     Ventando, tutte dibattea le vele;
     1685Chè non d’aereo augello avea natura,
     Ma gran vanni con forza iva squassando,
     Pari ad agili remi. Indi a non molto
     Intesero il lamento doloroso
     Di Prometeo che il fegato strapparsi40

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     1690Sentia da quella; e l’äere di gemito
     Echeggiò fin che via vider dal monte
     Il volator crudivoro tornarne.
     Fatto poi notte, al Fasi amplio fluente
     D’Argo con la rettrice accorta guida,
     1695E all’ultimo confin giunser del Ponto.
     Immantinente allor vele ed antenna
     Ammainâro, e le composer dentro
     Al lor cavo ricetto; e giù chinato
     L’albero anch’esso v’adagiâr; co’ remi
     1700Tosto del fiume nella gran corrente
     Si spinsero, che gonfia gorgogliando
     Cesse la via. Dalla sinistra mano
     Gli eccelsi avean Caucasei gioghi, e d’Ea
     La Citeide città; dalla man destra
     1705Di Marte il piano, e di quel nume i sacri
     Luchi, ove il drago, attento ognor guatando,
     Il Vello custodìa, che d’una quercia
     Agl’irti rami dipendea sospeso.
     Da un’aurea coppa allor d’Esone il figlio
     1710Libò nel fiume con puretto vino
     All’alma Terra ed agl’iddii del loco,
     E all’ombre anch’esse degli estinti eroi,41
     Li supplicando di benigna aita,
     E concedano quivi al suo naviglio
     1715Ben auspicate accomandar le amarre.
     Disse; e Ancéo gli soggiunse: Or sì, venuti

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     Siam di Colco alla terra, e alle correnti
     Del Fasi; e consultar vuolsi or fra noi,
     Se con soavi amici modi Eeta
     1720Tentar dobbiamo, o se miglior partito
     Forse fia l’assalirlo in altra guisa.42
Egli così. Giason seguendo intanto
     D’Argo i consigli, comandò la nave
     Su l’àncora fermar, là dove il fiume
     1725Impaluda fra l’ombre. Il loco è presso:
     Quivi stetter la notte, e al lor desìo
     Non fu poi tarda ad apparir l’aurora.






Note

  1. Var. al v. 47. Che sceglier piacque, in su l’arena tutti
  2. Var. ai v. 48-49. Seder fêro i compagni, ed essi in mezzo

    Stetter, non di natura e di persona
  3. Var. ai v. 55-56. Era del ciel, che all’ore vespertine

    Di bellissima luce arde e sfavilla.
  4. Var. ai v. 162-164. Sua gran scure brandendo, e con la manca
    Protendendo a difesa il bruno cuojo,

    Ch’ei vestiva, dell’orsa, impetuoso
  5. Var. ai v. 178-180. Pria nell’arnia stivate esse vi fanno
    Rombo e tumulto, e sbucan poi dal tetro

    Suffumigio stordite, e volan lungi;
  6. Var. al v. 190. Producitrice terra. I Minii intanto
  7. Var. al v. 206. Sentirà grave del suo manco il danno
  8. Var. ai v. 272-273. Scabra l’arida cute, e dalla pelle

    Sol contenute son le scarnate ossa.
  9. Var. ai v. 367-368. E di puzzo affannoso ivi appestata

    L’aria restò. Corser di Borea i figli
  10. Var. al v. 393. (Giuro il più reverendo e più tremendo
  11. Var. ai v. 402-403. Di Creta rifuggîr; quella all’Olimpo

    Si rilevò su le veloci piume.
  12. Var. al v. 435. Riva intorno ne freme orrendamente.
  13. Var. al v. 514. In infinito numero infestanti
  14. Var. al v. 598. Anch’io godrò di che laggiù si gode.
  15. Var. al v. 607. Onde grati venian di nutrimento
  16. Var. ai v. 638-639. Pari ad essa d’età, già da gran tempo

    Nata e cresciuta in un con lei, sua stanza.
  17. Var. ai v. 696-697. E andonne a stanza in Ceo, seco adducendo

    Stuol di popol Parrasio, ond’è la stirpe
  18. Il D’Orville, il Buttmann e il Wellauer spiegano il vocabolo πέρην per ex adverso, cioè su la costa asiatica; ma, poichè nel verso seguente si dice che gli Argonauti montarono in nave dopo eretto l’altare, ciò avrebbero dovuto far prima, essendo essi su la riva europea. Vedi Heyne, Homer. Iliad., vol. vii, pag. 23.
  19. Var. al v. 750. (Qual mai più non saranno) a sè dinanzi
  20. Var. ai v. 831-832. Lo scampar da que’ scogli. A te Finéo

    Lievi a compier dicea gli altri cimenti.
  21. Var. ai v. 869-871. Le simplegadi rupi, altro, cred’io,
    Tal terror non v’avrà, se navigando

    Seguiamo i saggi di Fineo consigli.
  22. Var. ai v. 900-902. Quando poi nè del dì la luce ancora
    Splendea, nè ormai più fitta era la notte,

    Ma spandeasi su l’ombre un chiaror fioco,
  23. Var. al v. 988. Lo speco atro di rupi e di boscaglia,
  24. Var. ai v. 1053-1054. E d’aspetto e di forza; e Alcide a terra

    Gli cacciò fuor delle mascelle i denti.
  25. Var. ai v. 1061-1064. Anco piegâr quanti il Billeo ne cinge
    Con la bruna acqua intorno. Ma da noi
    Lui partito, i Bebríci e l’insolenza

    D’Amico prepotente a me ciò tutto
  26. Var. al v. 1157. Si féa la speme del tornar lontana.
  27. Var. ai v. 1164-1165. Maestro esperto. Egli a Peléo dinanzi

    Si piantò di repente, e sì gli disse:
  28. Var. al v. 1204. Sursero pur; ma degli eroi lo stuolo
  29. Var. al v. 1230. Genti mirar di sua contrada. E surta
  30. Var. ai v. 1261-1262. Rinfresca pria nelle piacevol’acque

    Le faticate membra. E ognor più innanzi
  31. Var. ai v. 1330-1331. Desiderose. Ma d’Argeste ancora,

    La di Giove mercè, spiraron l’aure,
  32. Var. al v. 1391. Còlti al mirar di quello strale alato.
  33. Leggo, non νηὸς ἀεικελίης, come tutti leggono, ma ἀεκελίως, avverbio, usato da Omero in simile concetto. Come epiteto, qui non ha buon senso.
  34. Var. al v. 1518. Sono, e tien fisso anco su noi lo sguardo.
  35. Var. al v. 1527. Argo in suo turbamento a lui soggiunse:
  36. Var. al v. 1536. De’ profughi al tutor Saturnio Giove.
  37. Var. ai v. 1559-1560. Pria di vesti copritevi. Consiglio

    Fu, cred’io, degli dei che or voi di tutto
  38. Var. ai v. 1630-1631. Disse, ed a molti un subito pallore

    Prese le guancie, udendo apparecchiarsi
  39. Var. al v. 1637. Inferïori al paragon dell’armi.
  40. Male il Flangini, e i due traduttori che lo seguono, rendono il passivo ἀνελκομένοιο in senso dell’attivo ἀνέλκοντος.
  41. Var. ai v. 1711-1712. All’alma Terra, agl’inquilini dei,

    E all’ombre anch’esse degli eroi defunti
  42. Var. al v. 1721. Altramente assalirlo esser può forse.