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I - L’ombra si addensa...

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I - L’ombra si addensa...
Seconda giornata Seconda giornata - II

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L’OMBRA SI ADDENSA....

I.

Torna, per la terza volta, il tenente del Genio, Fausto Ardore, dal Capo che, dall’inizio della guerra, conoscendone la schietta e forte coscienza patriottica, l’anima incandescente di apostolo della guerra, e la eloquente parola, gli aveva dato l’incarico di parlare ai soldati, in semplici ma convincenti conferenze, di questo loro grande dovere e della sua bellezza e della sua nobiltà. Con un vivace zelo spirituale, Fausto Ardore, si era dato a questa missione di propagandista, che, sulle prime, lo aveva entusiasmato, tanto l’animo suo era un focolare, che mai si consumava; ma, subito, ne aveva avuto una delusione, innanzi alla incomprensione di coloro che, attenti, intenti, a ogni sua parola, non davano, mai, nessun segno di aver capito. E, sempre, i giorni della primavera romana, in cui egli aveva inteso, nelle sale, nelle piazze, nei crocicchi, palpitare all’unisono con la sua, l’anima della folla, gli sembravano un sogno; innanzi a lui era la realtà di un’altra folla, più limitata, ma più nota, più vicina, a cui le più semplici parole, esplicanti la più semplice idea, nulla dicevano. Due volte, con animo sempre più sordamente scontento, egli era venuto a dar conto, al Capo, di quanto avea fatto; e non avea celato all’uomo dal volto severo e dalla parola netta e sobria, che la propria opera era, fino allora, re[p. 104 modifica]stata senza alcun profitto morale. Il Capo lo aveva incoraggiato a continuare, dicendogli di farsi più aderente alle anime dei soldati, di spogliarsi di ogni ornamento e di ogni artificio, di ridiventare un fanciullo, come fanciulli erano coloro che lo ascoltavano; e in atto di tacita obbedienza, l’apostolo della guerra, Fausto Ardore, aveva ripreso il suo vagabondaggio, di gruppo in gruppo, nelle primissime retrovie, avanzandosi sino alle zone di azione, per dire ai fanti, sovra tutto ai fanti, quanto fosse filiale la loro abnegazione, per la madre loro prima, l’Italia. Spesso, la voce del cannone, poco lontana, aveva sopraffatta la sua; spesso, un tragico passaggio di feriti e di morti, aveva interrotto la sua predicazione patriottica; e sempre più egli aveva sentito l’inanità del suo sforzo e la sterilità della sua opera.

Così, otto mesi sono trascorsi e in questa gelida sera invernale, Fausto Ardore aspetta, in una anticamera del Capo, nella villa che costui occupa e donde dirige tutte le vaste e possenti operazioni di guerra, di essere introdotto presso l’uomo che egli non solo ammira, ma venera. L’apostolo non fu mai scorato, come in questa ora dell’anno cadente, in cui egli non ha neppur domandato qualche giorno di licenza, per rivedere, in Roma, sua madre Marta e il suo diciottenne fratello Giorgio; sono otto mesi che non li vede. Non pensa a tutto questo, il tenente Ardore; ma è affranto dalla sconfitta spirituale, che è molto più forte, che è, forse, l’ultima e che egli deve confessare al suo Capo, chiedendogli di essere dispensato dal vano incarico. E il suo animo è pieno di tristezza e di miseria.

Il gran soldato italiano, l’uomo di pensiero e di fede, il Capo, accoglie con un gesto rapido ma cortese, il saluto militare del tenente Ardore. Col suo sguardo freddo e scrutatore, fissa il giovine ufficiale e pare che già abbia tutto letto in quell’anima, ferita nella sua più cara speranza.

— Non va, è vero, tenente Ardore? — dice la voce grave del Capo. [p. 105 modifica]

— Non va, Eccellenza — risponde il giovine, rauco di emozione. — ancor peggio di prima. Nessuno mi comprende. Nessuno viene a me; io non arrivo a nessuno di loro. Quel che dico, e quel che faccio, è completamente inutile.

— Lei domanda di esser dispensato? — chiede il Capo, fissando anche più intensamente il giovine. L’altro fa un cenno desolante con le mani, e il suo viso si contrae nella tristezza.

— Perchè non comprendono, i fanti? Di chi è la colpa? Di chi parla o di chi ascolta? — E il tono è nitido, gelido.

— La colpa è mia, Eccellenza — dichiara, subito, Fausto Ardore. — Vi è fra me e i soldati che mi ascoltano, un ostacolo, non so quale, un ostacolo ignoto ma forte. È come se ci dividesse un’alta muraglia, Eccellenza; e le mie deboli unghie, non arrivano a sgretolarla. — E un’angoscia palpita in tutto quello che confessa, Fausto.

— Sì, vi è un grande ostacolo — riprende, pensoso, il Capo — e lei non lo scorge, mentre esso è alto e massiccio, appunto, come una muraglia.

— Eppure, eppure, Eccellenza — esclama, trambasciato, il giovine — in aprile, a Roma, a Milano, parlando alla folla, io ho sentito la sua anima fraternizzare con me.

— Sì, ma quelli erano uomini, tenente Ardore.

— Come?

— Questi sono soldati — dichiara, fermo il Capo.

Si stupisce e si sgomenta, anche, il tenente Ardore, e non interroga, e aspetta altra parola.

— Un soldato è qualche cosa di diverso, di maggiore, di migliore, di un uomo, tenente — chiarisce, severamente, il Capo, il vecchio soldato. — Vi è in lui, fante o generale, una idea, ora vibrante e ora sopita, una idea che i frivoli uomini non hanno o non vogliono avere.

— ....?

— L’idea della morte, tenente Ardore — pronunzia, austeramente, il vecchio soldato. — Con questa idea, che ingrandisce e migliora ogni co[p. 106 modifica]scienza umana, nasce il contrasto fra l’istinto della conservazione e il sentimento dell’abnegazione. Ogni più umile soldato ha, in sè, questa vita interiore: vivere, sacrificarsi, morire.

Ascolta, a testa bassa, l’apostolo della guerra; e intensa è la sua dolorosa confusione.

— Ha lei mai pensato a questo, parlando ai soldati? È lei penetrato in quelle rudi, ma schiette coscienze? Ha scorto in loro il desiderio della vita, il terrore della morte e, infine, il senso del sacrificio? No, è vero? Ecco l’ostacolo fra la sua anima e quella del fante, tenente.

— È giusto. Lo riconosco. Sono stato io, un incosciente.

— E si rammenti, tenente, l’idea semplice: in guerra, si muore. È il giuoco tragico e sublime della morte. Se lo ricordi! Torni ai fanti: si accosti più al loro cuore, che alla loro mente; viva con loro, sia loro amico e loro fratello....

— È difficilissimo, Eccellenza, vincere e trasformare il mio spirito!

— Migliaia di miei ufficiali l’han fatto; e sono amici e sono fratelli dei loro soldati. Si vinca.

— Tenterò, tenterò!

— Ne vale la pena — soggiunge, accigliato, il Capo. Sono soldati, costoro, gente di popolo e, forse, plebe; ma portano in sè, misteriosa, una forza innumerevole. Nulla capiscono, nulla sanno; ma, domani, si batteranno con impeto, con furore, contro un nemico che non conoscono, per una causa che ignorano; e cadranno, per questa causa, che è fuori di loro, ma che li sospinge, li trascina e li travolge. Tenente Ardore, questi fanti valgono più di me, più di lei, più di noi tutti!

— È vero, Eccellenza — consente, raumiliato, l’apostolo della guerra.

— Questa nostra Italia adorata.... Essi sono il segreto della sua vita o della sua morte — e la voce del Capo, si fa profonda e solenne.

— Lo so — replica, contrito, raumiliato, il tenente Fausto Ardore. [p. 107 modifica]

Plumbeo, algido crepuscolo di gennaio, che declina rapidamente a sera, sotto una pioggia che si fa sempre più fitta, velando i carriaggi dell’artiglieria che salgono, salgono ininterrottamente, per la larga, fangosa, fumante di umidità, via maestra, a una lontana mèta di montagna, celando i camions lucidi e neri automobili, celando la massiccia forma dei muli, sul pesante carico che ondeggia sui loro fianchi quadrati. Ombre umane, nere, in larghi cappotti fatti tesi, come legno, come metallo, dalla pioggia, sotto larghi cappucci che sembrano grondaie, salgono, scendono, conducono carriaggi, conducono automobili, camminano a lato dei muli, e tutto è nero, tutto è lucente di acqua che scivola, sulle cose, sulle persone; e il gran fiato umido dell’aria, aumenta l’ombra crepuscolare. Sulla porta, socchiusa, di una lunga e bassa baracca, sta il tenente Fausto Ardore, seduto sovra una pancaccia; ha gli stivaloni incrostati di fango; infangatissimo il cappotto, sino al collo; non ha berretto e prende la pioggia sul capo e sulla fronte, quasi senza accorgersene. Dentro, nella baracca, è un grosso tramestìo di persone, è un vocìo alto e concitato che, ogni tanto, si abbassa, si estingue, ripigliando improvvisamente. Il tenente Ardore, distratto, assorto, guarda il cielo basso e pallido, donde cade, sempre, la freddissima pioggia. Ritto, accanto a lui, è un altro ufficiale, tutto chiuso nel suo mantello pesante di pioggia, tanto ne è immollato, nel colletto folto di pelliccia, che nasconde il mento e quasi la bocca, lasciando vedere solo un grosso mustacchio, tagliato all’antica, tutto brizzolato; sotto la visiera del berretto, sformato dalla umidità, si scorgono due sopracciglie nere, ispide, e due occhi torbidi. [p. 108 modifica]

— Capitano Borgatti, si può dire, stasera, qualche parola amica ai suoi fanti? — domanda il tenente Ardore.

— Che vuol dir loro, di grazia? — interroga, brusco, rozzo, il capitano Borgatti.

— Qualche semplicissima idea, qualche parola fraterna, sul loro dovere.

— Dovere? Dovere? Lo sa, lei, signor tenente, che questi miei fanti e io, con loro, domattina, si va in trincea? A Sainette? Ne ha inteso parlare? A Sainette si deve fare molto, ma molto più del proprio dovere.

Il capitano Borgatti, burbero, parla freddamente; ma ciò che dice, ha un senso profondo.

— Sì — risponde il tenente Ardore. — So. So bene il loro grave rischio, rischio di morte.

— Anche i fanti lo sanno. Ci pensano, forse; non lo dicono. I miei uomini, più tardi, si batteranno e si faranno uccidere, senza tante chiacchiere.

Nell’animo del tenente Ardore si profila la figura marmorea, austera del Capo; l’oscuro capitano Borgatti ripete quel che l’altro diceva.

— Cercherò di accostarmi a loro, capitano....

Il tenente Ardore, triste, stanco, rientra nella sordida baracca, ove son vissuti quei fanti, nei giorni di loro tregua e donde debbono andar via, fra poche ore, al loro ignoto destino di combattimento. Tutto vi è sossopra, lì dentro; paglia, coltri, tavolacci sgangherati, mastelli; e tutti gli uomini sono alla loro bisogna di partenza, in confusione e in tumulto. Chi si leva, chi si accovaccia, chi è ginocchioni, chi si butta sull’altro, volendo accatastare la roba nello zaino, brontolando, dialogando, a scatti violenti, fischiando, canticchiando, bestemmiando. Invano il tenente Ardore vorrebbe dirigersi a qualcuno di loro; nessuno si occupa di lui, non è del loro reggimento, e nessuno vuol accorgersi di questo tenente del Genio, appartenente a un corpo superbo e sprezzante, quindi odiato dal fante. Ardore è seduto in un cantuccio [p. 109 modifica]della sudicia, fumosa, puzzolente baracca; e aspetta, paziente, fra il disgusto e la nausea dei suoi sensi. Egli si sente affogare dai cattivi odori, dal fumo dell’acetilene, dal puzzo della paglia; vorrebbe andar via.... A poco a poco il fracasso cede, quasi si cheta, poichè la truppa umana ha compiuto il suo bagaglio ed è pronta a partire. Qualche grido di fastidio; qualche sbadiglio animalesco; qualche brontolìo sospiroso; e un continuo parlottìo, nei dialetti diversi. I fanti escono, ad uno ad uno: il tenente Ardore è obliato nel suo cantuccio. Una voce fresca lo interpella, a lui dappresso:

— Ardore?

È un altro tenente, molto più giovine di Fausto, appena venticinquenne: volto imberbe, ma virile: persona magra, ma muscolosa. Dal colletto arrovesciato, si scorgono le modeste stellette di fanteria.

— Borgatti ti ha malmenato? — e ride benignamente.

— Abbastanza, Cinisello.

— Abbi pazienza. È un bravissimo uomo; un soldatissimo. Viene dalla gamella e odia le armi dotte. Tu vuoi parlare a questi fanti?

— Debbo. Lo desiderano, in alto....

— A te piace, però, Ardore!

— Mi piaceva, un tempo.... — egli risponde, con malinconia. — Ora, son comandato.

— Usa bontà, con questi uomini, Ardore. Sai bene dove andiamo, domattina, con Borgatti, con loro. Si va: e forse non si torna più indietro.

Il tenente Cinisello non è triste, parlando così; ma i suoi begli occhi chiari si fissano, vagamente, verso un punto lontano.

— Ma voi altri pensate spesso alla morte, Cinisello? — domanda, trambasciato, Fausto Ardore.

— Sempre, amico mio — risponde il bel giovane, fresco, sano, simpatico.

Fausto Ardore ricorda, novellamente, il colloquio di sera, nel cadente dicembre, col Grande soldato. Tace.

— .... ma ci siamo abituati, a questo pensiero [p. 110 modifica]di morte. Ti assicuro che si può vivere benissimo, in sua compagnia. — E nel sorriso giovanile di Cinisello, appare il suo sereno stoicismo.

Ecco, adesso, Fausto Ardore, il tribuno del popolo, il propagandista di guerra, parla ai fanti che nell’alta notte iemale, partiranno alla volta della maledetta plaga di Sainette, in una di quelle infernali trincee, a dare il cambio ai camerata della loro compagnia, che discendono, fieramente decimati. Quanto egli aveva pensato, per dir loro, gli è sfuggito dalla mente: e da non so quale voce interiore, che egli sente ma non distingue, sale alle sue labbra, trascorre nelle sue parole, il ricordo delle madri lontane di quei fanti; alta si erge, nella sua memoria filiale, la nobile figura di Marta Ardore. È lei che ha suggerito? Parla a quei soldati di quelle donne che li procrearono, che li nutrirono del proprio latte, che li cullarono nelle braccia, sani o infermi, che sopportarono stenti e privazioni, per crescerli robusti e buoni, che tutto dettero e tutto farebbero, pei loro figliuoli... Ed ecco che questi fanti, disattenti, distratti, annoiati, si fanno attentissimi; i loro volti opachi, quasi si colorano, quasi prendono una lucentezza viva; e i loro occhi brillano; e quasi par che si muovanp le labbra, a pronunziare quel nome, un sol nome, l’unico nome:

— .... mamma.... mamma.... mamma.

Per la prima volta, Fausto Ardore si trova in fraterna comunione di affetti, coi suoi ascoltanti. Adesso, egli vuole giovarsi di questa fusione di cuori; e invoca la devozione filiale di questi soldati, per la loro seconda madre, la patria, che domanda ai suoi valorosi figliuoli di essere difesa ed esaltata; e per essa, per l’onore di costei, per la sua grandezza, tutto debbono offrire, i figliuoli... Ecco, un velo grigio di pensiero, pare sia venuto a spegnere il vivo lume degli scintillanti occhi dei soldati; è scomparso l’infantile sorriso; il volto è di pietra. Di nuovo essi sono straniati, assenti, lontani da colui che parla. [p. 111 modifica]

— Hanno pensato alla morte — dice, tra sè, desolato, affranto, l’apostolo della guerra.

E non sapendo come concludere, soggiunge, confusamente:

— Sono certo di voi, fratelli miei; domani sarete degni del nome d’italiani...

Niente. Nulla risponde, nulla corrisponde, in quelli che sono innanzi a lui, visi immoti, occhi spenti, labbra chiuse.

— Possiate voi vincere, debellare, fugare l’orgoglioso nemico...

Silenzio delle anime, silenzio delle bocche. Quale voce interiore, novellamente, sospinge Fausto Ardore verso un’altra parola, sinora, mai, mai pronunciata? Quale altra anima gli suggerisce questa parola?

— Iddio accontenti la preghiera delle vostre madri: Iddio vi assista!

Ecco, crolla l’alta muraglia, fra chi parla e chi ascolta; e i volti si contraggono di emozione e si irradiano di speranza; e gli sguardi si velano di lacrime e le voci pronunciano, confusamente:

— Grazie, signor tenente...

— Grazie... grazie...

— Così sia! Così sia!

Finchè un forte accento napoletano, dice:

— Possa passare un angelo e dire amen.


Ora pomeridiana del dì seguente. Non piove più, non fa freddo; ma il cielo è sempre basso, chiuso da nuvole dense e immote, d’un bigio chiaro, di una tinta eguale e monotona. L’aria è velata dai vapori di umidità, che salgono dalla terra, molle e fradicia di pioggia. Coloro che sono giunti dalla tragica plaga di Sainette, nella tarda mattinata, hanno occupato la baraccaccia, lasciata deserta dai [p. 112 modifica]compagni; hanno avidamente mangiato il molto cibo, senza parlare, con un’avidità quasi bestiale; hanno pesantemente dormito, sulla paglia lasciata dagli altri, sui tavolacci sgangherati, sotto le coltri quasi incolori dalle macchie; e, adesso, vengono fuori ad uno ad uno, e guardano in aria, come storditi, e guardano intorno, con aria puerilmente curiosa. Alcuni, ancora sonnacchiosi, muovono incerti i passi, stirandosi, sbadigliando, battendo i piedi, come per sentirsi fermi, sul terreno; altri sono disinvolti, vispi e fumano e sgambettano; altri, in coppie, in tre, scambiano una corta frase, una risatella, si dànno uno spintone... Sono gli scampati. Il senso primitivo, rudimentale dello scampo, è in loro; essere sfuggiti alla morte, alle ferite, con le membra intatte; vivere, non più bersaglio fatale alle implacabili mitragliatrici, non più minacciati dalle bombe pioventi dal cielo, non più assordati dall’insopportabile fracasso, cannone; shrapnels, mitraglia, fischi, urli laceranti, scoppii di tutte queste armi omicide, non più respiranti in un’aria di fuoco, in un barbaglio di fuoco. Vivere, qui, in tranquillità, in silenzio, in libero respiro, distendendo le membra sane e agili, camminando ritti, liberi, a testa levata, a fronte alta, sovra un terreno cedevole, fumando, sorridendo, ridendo, gustando saporosamente tutto questo, come fanciulli, uomini ridiventati fanciulli, spensierati, obliosi: scampati. Fausto Ardore capisce che non serve fare un discorso a costoro, raccolti intorno a lui. Senza fermarsi, senza esitare, senza vacillare, costoro si sono battuti, giorni e giorni, contro il nemico; hanno lasciato, lassù, molti morti, hanno deposto, nei posti di medicazione, dei morenti; hanno visto portare, più oltre, dei feriti agli ospedaletti da campo. Quale discorso, mai, oltre tutto il dramma di guerra, che essi hanno vissuto? Forse Fausto potrà parlare a qualcuno di loro, separatamente, come gli fu suggerito. È un soldato alto, ossuto, dal viso che pare tagliato a colpi di ascia, che siede, solo, lontano, sovra una [p. 113 modifica]pietra, fumando la pipa, a cui Fausto Ardore si rivolge.

— Brutte giornate, a Sainette, amico mio?

— Brutte, signorsì — risponde, levandosi, salutando, il fante, che ha un forte accento piemontese.

— Ora, sei scampato....

Il fante guarda il tenente con occhi malinconici e dice:

— Signorsì: ma vi torneremo presto...

— Altrove, altrove, forse...

— Signorsì: ma a Sainette o altrove, è la stessa cosa.

Non vide mai, in otto mesi, Ardore, occhi più malinconici di questo soldato di Piemonte. Egli si allontana, piano, mentre il fante piemontese si risiede, sulla sua pietra, ricarica la sua pipa, fuma e guarda il fumo, coi suoi occhi carichi di tristezza. Un soldato, giovanissimo, viene verso Fausto Ardore e aspetta d’interrogarlo, mentre appare ansioso:

— Che vi è, amico? Parla.

— Signor tenente, crede che avremo una piccola licenza, adesso?

— Io non lo so, amico mio.

— Tre mesi grossi, signor tenente, che siamo in prima linea: è vero che ci alterniamo, che veniamo al riposo... Ma perchè, sempre noi, sempre noi?

— Non dire così, non sai niente degli altri! Tu sei napoletano, è vero?

— Napoletano, signor tenente, ma me la vedo anche io, col «cecchino». Solo che mia mammà è malata e io vorrei andare a casa, anche per un giorno... Io sono Carmine Bevilacqua, tenente: e mammà mia è malata, per causa mia, perchè ha capito, che sono in pericolo.

— L’ha capito?

— Si sa, si sa, io le scrivo sempre bugie, ma mammà non mi crede e capisce tutto, di me. Una piccola licenza, tenente: e torno subito, torno, torno! Carmine Bevilacqua. [p. 114 modifica]

— Vedrò, vedremo... — promette, vagamente, Ardore.

Adesso, egli è tornato verso la baracca. Accanto alla porta è seduto un soldato, a capo basso, curvo, come aggrovigliato su sè stesso.

— E tu che hai?

Il fante è in piedi: ma tace. È smorto e pare che si morda le labbra.

— Sei malato, forse?

— No, signor tenente — e volge il viso in là.

— Sei stanco? Ora riposerai.

— Non posso riposare. Ho da scrivere a casa, subito...

— Sai scrivere?

— Un poco: ma non ho coraggio di scrivere — e abbassa la voce.

— E perchè?

— Signor tenente, mi è morto un fratello, tre giorni fa, a Sainette: tre palle di mitragliatrici, nel ventre... Come faccio a scriverlo, a mammà mia, non ho coraggio!

— Vuoi che scriva io, per te, amico mio? Dimmi tutto.

— Signor tenente mio caro, io sono Gagliardi Domenico e lui, che è morto, più giovine di me, Gagliardi Angelo... La mamma mia gli voleva tanto bene, si sa, era il più piccolo... chi sa che dice, mammà...

— E mammà tua, come si chiama?

— Gagliardi Marianna, a Pratica di Mare, presso Roma, signor tenente. Ci metta che l’ho baciato ancora vivo... e che ha avuto i sacramenti, dal cappellano... Ora, si sa, è in paradiso...

Sul ginocchio, con una penna stilografica, il tenente Fausto Ardore scrive alla madre ignota, che è laggiù a Pratica di Mare, sulla spiaggia latina, a pensare ai suoi figliuoli lontani e in pericolo di morte... «Morto eroicamente... ha avuto i sacramenti... è in paradiso...» E il fratello superstite si curva sul foglietto e mette anche il suo nome. È solo, adesso, Fausto Ardore. Più possente di [p. 115 modifica]qualsiasi altra idea, di ogni altra impressione, è l’idea semplice, quella del Capo, nella gelida notte decembrina. In guerra si muore. E le parole sono inutili.


— Dunque, il tenente Capece ha disubbidito? — Il viso del capitano Camillo Moles, è in ombra, su quell’esiguo pianerottolo: ma egli parla seccamente.

— Sì, signor capitano — risponde il tenente Sambucetti.

— Come è andata? Dica!

— Ieri, nel pomeriggio, lei, signor capitano, aveva proibito al tenente Capece di unirsi, stamane, all’alba, alla ricognizione verso i boschi di Mettler, ove si sa che si nasconde, diabolicamente, un nucleo di nemici... Appariscono, offendono, spariscono, sono introvabili, inattaccabili...

— Guerra di banditi, masnada di briganti... — mormora, come fra sè, il capitano Moles.

— E che spionaggio infame, atroce, fatto da donne, da vecchi, da bimbi! Capece, è vero, il mio amico, aveva promesso a lei, di non muoversi ma, stamane, non ha saputo resistere: ed è andato via, con gli uomini, anche più presto, per non farsi trattenere, da me, da altri...

— Affascinato sempre dal pericolo, Capece... — soggiunge, con un velo di tristezza, nella voce, il capitano Moles. — Conosco la sua furia di guerra.... è più che il valore, oltre ogni coraggio....

— Brucia di febbre, per la guerra — dice Sambucetti, pensoso. — E diversamente, non saprebbe vivere.

— Come?

— Eravamo insieme, signor capitano, in cavalleria: e ne venne via, malamente: e ne fu infelicissimo.... Ora, anche appiedato, in fanteria, la [p. 116 modifica]guerra è per lui una liberazione... Purchè non gli venga troppo presto!

— Che dice, tenente? — esclama Camillo Moles, trasalendo.

— Dico che è tardi e che la ricognizione avrebbe dovuto già tornare... — confessa, così, la sua inquietudine, il tenente Sambucetti.

— Capece è un folle, è un folle! Chi sa dove avrà trascinato i miei uomini! Vada, tenente, s’informi meglio, mi porti notizie.

I due uomini si separano senz’altro. Il capitano Camillo Moles rientra nella rustica stanzuccia, che egli occupa in quella osteria fredda e sporca, che porta la insegna grossolana Stallazzo con alloggio di Gasparin. Il tenente Sambucetti si allontana, scendendo, presto, verso il campo fatto di baracche e di casupole miserabili. Camillo Moles, inquieto, agitato, va avanti e indietro, curvando quasi la testa, sotto quel tetto basso, dalle travi nude e rose, fermandosi, ogni tanto, all’unica finestretta, i cui vetri rotti sono stati sostituiti da fogliacci di carta giallastra, tutti macchie: egli ha schiuso le sgangherate impannate, e sogguarda, fuori, per la centesima volta, in quell’angolo di una valle di alta montagna, all’estrema avanguardia, dove lo hanno mandato coi suoi uomini, con qualche altro ufficiale, da tre mesi, senza nulla sapere, non un ordine, non una parola, solo l’arrivo del rancio, dal fondo della valle e ogni settimana, la posta, arretrata, i giornali vecchi. Obbliati da tutti? Chi sa mai! Il capitano Camillo Moles somiglia, oramai, molto poco, a colui che fu il grande professionista romano, l’eloquente penalista; tutte le linee del suo volto e della sua persona si sono trasformate. Egli si è molto dimagrito e la sua figura è più agile, più disinvolta, sotto i panni militari che indossa da tanto tempo: il suo volto scialbo, un po’ gonfio, si è come disseccato, gli zigomi e le mascelle si disegnano, sotto la epidermide fattasi bruna dal sole, dall’aria: spesso, non può radersi la barba e ciò aumenta lo scu[p. 117 modifica]rore del viso. Quella luce fluida che aveva nello sguardo, si è intorbidata, nei lunghi giorni monotoni d’inazione, nelle lunghe ore inerti, nella solitudine dello spirito: e la espressione sempre eguale, è il tedio dell’ora, che somiglia a tutte le altre innumerevoli ore. Egli riprende, dalla sua tasca, una lettera giuntagli due giorni prima, ma già vecchia di data. È di sua sorella Magda Falcone: lettera contradditoria, incoerente, in cui egli riconosce l’anima oscillante di sua sorella... Ella è felice, perchè, improvvisamente, dal maledetto Carso, è giunto suo marito Mario, ma è poi, infelicissima, perchè egli è sparito, da capo, come un’ombra, e da due settimane Magda non sa più dove si trovi: Magda è sola, solissima, poichè Barberina ha passato le feste di Natale e Capodanno a Orvieto, da una sua zia e, adesso è a Sanremo, per guarirsi di una tosse ostinata, la casa di Camillo è chiusa e non si sa chi ne abbia le chiavi...

— Barberina... Barberina! — dice, a sè stesso, il marito che non ha visto un sol giorno la sua donna, in dieci mesi e cerca di raffigurarsela e quasi, dall’assenza, dalla lontananza, gli pare di averne obbliati i tratti. Barberina gli scrive, ogni tanto, delle lettere anch’esse confuse, frettolose, non rispondendo mai alle domande di Camillo, lagnandosi di non aver risposta alle sue: lettere, piene, anche, di tenerezze, di passione voluttuosa, con evocazioni sensuali, tanto da risvegliare acutamente la memoria dei sensi di chi legge.

— Barberina, Barberina! — invoca, di nuovo, Camillo Moles e tende le braccia nel vuoto, nella fredda e vuota stanzuccia. E una desolata e rassegnata nostalgia l’opprime, senza rimedio.

È sera. Il freddo aumenta, il capitano Moles rabbrividisce in quella stamberguccia, s’infila il cappotto ed esce, impaziente, incontrando il tenente Sambucetti, che viene a rapporto.

— Nessuna notizia?

— Nessuna, purtroppo, capitano.

— Quanti uomini erano? [p. 118 modifica]

— Dieci: più il caporale Martinengo e il tenente Capece.

— Conoscevano le vie?

— Fino a un certo punto, pare che le conoscesse Martinengo. È un giovine serio, è un buon soldato.

— Si saranno dispersi? Caduti in un agguato?

— Chi sa, chi sa!

E si guardano, penetrati di una penosa incertezza. Adesso, sono discesi, uno dopo l’altro, nella via alpestre e scabrosa, camminando malamente, inciampando, urtandosi, discendendo verso il campo, laggiù, verso le baracche, di cui già brillano i lumi e, fuori, vi ardono dei fuochi. A un tratto, nell’ombra della sera, un soldato che viene in su, a capo basso, affannando, e già si ode il grosso respiro della sua corsa, si butta sul petto di Sambucetti che non lo riconosce e gli grida:

— Chi sei?

— Sono Martinengo, il caporale... — prorompe, ansante, anelando, il soldato.

— Martinengo! — esclama Camillo Moles, che è sovraggiunto. — Siete salvi, dunque?

— Eh no, no, non siamo salvi, signor capitano! — risponde, l’altro, concitato. — È stata una gran brutta giornata.

— Avete perso uomini? Quanti? Parla!

— Due compagni, due fanti, morti: e tre feriti.

— Capece?

— Ferito, capitano: ferito gravissimo — e la voce del milite si fa roca.

— E dov’è Capece?

— Lassù...

— Lassù, solo, ferito, gravissimo? E lo avete abbandonato? Ma che soldati siete, voi?

— Mi scusi e mi ascolti, signor capitano — trema di dolore, narrando, il caporale Martinengo. — Abbiamo dall’alba, camminato quattro o cinque ore; non trovavamo più la strada: volevamo tornare indietro, ma il tenente Capece correva, correva sempre, avanti, avanti, chiamandoci, incitandoci.... E a, un tratto, gli è fuggita innanzi, una giovinetta... [p. 119 modifica]

— Una giovinetta?

— Una contadinella: l’abbiamo raggiunta; bellina, carina, sorrideva, cantava: e parlava italiano. Capece le ha detto di condurci...

— E vi ha condotti?

— A perdizione, signor capitano — prorompe, come disperato, il caporale. — A un tratto, con un salto, ella è penetrata nella boscaglia ed è scomparsa: e noi siamo stati presi in mezzo, dal fuoco nemico, da un nemico invisibile.

— Fucili?

— Fucili: ma settanta od ottanta, forse, appiattati: e noi dodici, scoperti, quasi indifesi.... Era innanzi, come sempre, Capece, e per il primo ha preso due palle, una nel petto, una in una coscia: insieme a lui, i nostri due poveri compagni, giù, a terra, crivellati di colpi: e due altri feriti, uno al piede e uno nella spalla...

— E Capece?

— Capece ci ha gridato, da terra, come un matto: «È colpa mia, salvatevi, salvatevi, lasciatemi qui, non vi curate di me, ritornate a prendermi, in forze, vi aspetto, via, via, andate!» Io ho preso sulle spalle quello ferito al piede: e gli altri hanno tirato su e portato via, quello ferito alla spalla...

— E il nostro Capece, il povero Capece?

— Abbiamo tentato di prenderlo, di portarlo via... Urlava, si dibatteva: «Via, via, vi è pericolo per tutti, fuggite, venite a prendermi, domattina, o a vendicarmi».

— E il nemico?

— Scomparso, signor capitano, scomparso! Allora, con questi due feriti, addosso, per le vie che poco conoscevamo, senz’aver bevuto un sorso di acqua, nè mangiato un tozzo di pane, abbiamo messo cinque ore, per ritornare qui...

E con un profondo sospiro, pallidissimo, estenuato, curvo su sè stesso, il caporale Martinengo vacilla.

— Martinengo, ma tu sei anche ferito? — chiede Sambucetti, sostenendolo, tastandolo. [p. 120 modifica]

— Sì: un poco: al braccio: ho perduto molto sangue — risponde, piano ma fermo, il caporale Martinengo.

— Una donna, una giovinetta... — dice, come fra sè, il capitano Moles.

— È una spietta: è una belvetta austriaca. Si ammazza, se si trova, questa femmina signor capitano — dice, a denti stretti, il caporale ferito.

Un silenzio triste nell’ombra e nel gelo della sera. La voce chiara e decisa del capitano Moles si ode.

— Andiamo, domattina, tenente Sambucetti, ai boschi di Mettler a cercare Capece? Andiamo a cercare i nostri nemici? Poichè essi non vengono, qui, andiamo noi...

— Andiamo, certo, signor capitano — risponde subito, vivace, il tenente Sambucetti, che era stato tacito e turbato, fino allora.

— Vengo anche io: mi fascio il braccio — soggiunge, deciso, il caporale Martinengo. — Adesso so la via: la so.

Così vanno, l’indomani, nel chiaro mattino, sotto un cielo scolorito, in un’aria ferma: i fanti, col loro caporale Martinengo, che ha il braccio sospeso al collo, ma cammina svelto, attentissimo, con l’occhio, con l’udito, scrutando le vicinanze, fissando le distanze. Accompagnano i fanti, per raccogliere i morti, due barellanti, due soldati di sanità. Uno è Luigi Fratta, colui che era prete, prima della guerra: e l’altro, malgrado che sia un territoriale, Stefano Assante, un povero medico condotto di Calabria, che ha chiesto di servire al fronte, in estrema avanguardia. Fratta porta pesantemente, a tracolla, la branda arrotolata e cammina sfiaccolato e scontento. Stefano Assante porta una valigetta, con ferri chirurgici e le medicature. Vengono, accanto, il capitano Camillo Moles e il tenente Paolo Sambucetti, l’amico fidato di Capece: sono chiusi nei pastrani, coi colletti di pelliccia rialzati, perchè all’alba, quando hanno lasciato il campo, il freddo era molto vivo. Poi, più tardi, un sole debole ha intiepidito l’aria. Marciano [p. 121 modifica]in perfetto silenzio, seguendo il caporale Martinengo, che fa da guida: la via si confonde fra corridoi pietrosi, fra tratti folti e poi radi di bosco; la via obbliqua, si disperde, riappare, in una sempre maggiore devastazione di paesaggio. L’ora diventa greve: il cammino verso un così selvaggio orizzonte, pare più lungo. Il capitano Moles comanda un alt, per un tempo di riposo: i fanti, i portatori, si seggono, si buttano in terra, si sdraiano sulle zolle aride, sui sassi. Luigi Fratta cava una bottiglietta di acquavite e ne beve un largo sorso; l’offre ad Assante, che la rifiuta: poi Fratta tira fuori una pipa e si mette a fumare. Il volto giovine e fresco di colui che fu un prete, si è già avvizzito: i tratti son diventati grossolani, i denti sono sporchi: la tonsura è scomparsa. Egli fuma e sputa: ogni tanto, rialza con pena le spalle, come se fosse abbattuto dal peso che le preme.

— Quanto, ancora, Martinengo? — chiede, breve, il capitano.

— Meno di un’ora, capitano.

— Troveremo ancor vivo Capece? — dice, come fra sè, Moles. E niente è più angoscioso della sua dubbiezza.

— Morto o vivo, dobbiamo portarcelo via! — esclama, angosciatissimo, Paolo Sambucetti.

— Cerchiamo, cerchiamolo! — conclude, vivamente, il caporale.

Vanno, di nuovo, con passo più rapido, dopo il riposo. Martinengo adesso, si è messo fra il folto della boscaglia. Vi si marcia con difficoltà, non più in linea, a uno a uno. Circospetti, diffidenti, nessuno parla. Si cammina leggermente, un po’ curvi: ci si piega in due, sotto certi alberi: si è pronti a buttarsi in terra, bocconi. Ognuno sa che il pericolo misterioso è là, forse ancora lontano, forse vicinissimo, forse già stretto, intorno, come un cerchio mortale. I fanti hanno il fucile a mano, pronto a mirare, a sparare: due o tre volte, macchinalmente, Paolo Sambucetti, il fraterno amico di Massimo Capece, ha toccata la sua [p. 122 modifica]pistola di ordinanza: Luigi Fratta, l’ex prete, con un cattivo sorriso sulle labbra maculate, ha tirato fuori dalla sua branda, una bombetta a mano. Egli dovrebbe esser solo raccoglitore di feriti e di morti, ma, ogni tanto, l’istinto violento di colpire il nemico, lo sospinge: ed egli si sfoga, colpendo. Il capitano Camillo Moles ha trascorse sei o sette mesi nelle retrovie, nei servizi ausiliarii, ove, in bisogne mediocri e spesso umilianti, è nata quella noia morale che corrode la sua vita interiore: egli è, da tre mesi, in questa estrema avanguardia, dove vi sono state schermaglie, ricognizioni, piccoli incontri, a cui non ha partecipato... Ciò ha accresciuto la sua depressione. Ora, è, in lui, un’ansiosa aspettativa, un anelito profondo, perchè un incontro col nemico accada, ed egli scorga, infine, infine, il vero volto della guerra. Singolarmente, egli invoca il pericolo, ma non pensa a difendersi o ad aggredire: egli non si rammenta neppure di avere una rivoltella: egli è ansimante, ma incosciente, come un neofita, come, forse, uno dei suoi fanti, il più giovine, il più inesperto. Balza il suo cuore, ma le sue mani sono inerti. Di lontano, una parola di Martinengo:

— È qui, è qui, ci siamo!

Sono giunti a una larga radura, dove fra i sassi, fra i macigni, cresce un’erba smorta: intorno, si prolungano, in ogni direzione, gruppetti di piante, cespugli di alberelli, file di grandi alberi, mentre i blocchi di pietre si elevano, fra i tronchi annosi e i grami arbusti. I soldati, adesso, sono serrati in massa, facendo faccia a tutti i lati, donde possa sbucare il nemico. Moles e Sambucetti sono innanzi a tutti, con lo sguardo avido e acuto che vorrebbe penetrare le ombre boscose, le ingannevoli lontananze, con l’udito teso, con l’animo sospeso ai sensi, concentrando ogni facoltà, per scorgere, per distinguere, per sorprendere un indizio, una traccia. La radura è deserta: sono deserti e perduti nelle distanze, i sentieri, fra gli alberi e le roccie. E il silenzio è intenso, intatto. [p. 123 modifica]

— Non vi è nessuno: nè i corpi dei due poveri compagni, Schiassi e Carravetta: nè il nostro tenente Capece — viene a rapportare, a capo basso, il caporale Martinengo. — Sparito, tutto...

— Dove è caduto, Capece? Ti rammenti? Puoi indicare? — chiede, vibrante di dolore e di sdegno, Moles.

— Qui, capitano, i due poveretti: e là, innanzi, a cinquanta metri, Capece, là, là... Capece era sempre avanti a tutti.

Vanno, Moles e Sambucetti, i due portatori, mentre i fanti restano fermi, in guardia, senza batter ciglio. È in un angolo della radura, dove è caduto Massimo Capece, colui il cui sangue generoso era bruciante della febbre di guerra. Si curva, Camillo Moles, a fissare la terra. Vi sono, sulle zolle aride, sulla poca erba, sulle pietre, delle piccole macchie rosse, ancora vivide: una macchia più larga, sotto un albero che è lì dietro. Anche il rugoso, screpolato tronco, ha una macchia di sangue: Massimo Capece vi si deve essere appoggiato, ferito.

— Ecco il suo sangue... — dice il capitano Moles, che è pallidissimo.

— Il suo sangue... — ripete il tenente Sambucetti: e si sforza a non far cadere le lacrime, onde sono pieni i suoi occhi di amico.

— Morto o vivo, il nostro eroico tenente? — esclama il caporale Martinengo, agitatissimo.

— Morto o vivo è in mano del nemico: e vivo, in quelle mani, Massimo Capece non vi resta. Io conosco. Lo abbiamo perduto — dichiara, tremante di dolore, Sambucetti.

— In un vile agguato, che infamia! — protesta il caporale.

Ma il silenzio, intorno, è attraversato da un rumore leggiero, aereo; è una sottile voce fresca e acidula che canta, non molto lontana, e di cui giunge solo una eco, come un soffio...

Arm! — urla il caporale. — Là, là!

E addita un punto non molto lontano, visibile, [p. 124 modifica]nella boscaglia, ove s’intravvede una figuretta feminile, una camiciuola bianca sovra una gonnelluccia bruna, un fazzoletto giallo e nero, sovra certi riccioli neri: il canto, trillato, ove pare scorra un riso, si fa più nitido.

— Fuoco, perdio! — urla il caporale Martinengo.

La scarica dei fucili, è tutta diretta contro quella piccola donna cantante: Luigi Fratta, rapido, ha lanciato la sua bomba a mano, nella medesima direzione. Si è, forse, udito un grido di donna? Lo ha udito, qualcuno? I fucili ricadono a terra: la boscaglia è deserta. E lievemente, aereamente, arriva, di nuovo, il canto di colei che sparisce e, con lei, dilegua, si spegne quel soffio di voce muliebre, ove era anche un riso, un riso beffardo, un riso atroce.

— Ti sei salvata, canaglia austriaca! — bestemmia il caporale.

Si china, muto, Paolo Sambucetti: e raccoglie, nel suo fazzoletto, una zolla di terra e un pietra, ove è sparso il sangue di Massimo Capece, che quella donna ha ucciso. Moles è livido di pallore: le sue labbra si stirano, per uno spasimo: ha visto il più feroce viso della guerra, una donna, una spia, un’assassina. Ritornano. Sono salvi: ma non riportano nè il ferito, nè i morti. E camminano in silenzio, ma presto, i fanti, perchè sono salvi. Camillo Moles si trascina indietro, fiacco, estenuato. Giunti all’accampamento, si debbono dividere, ognuno al suo posto. Camillo Moles si curva verso il caporale Martinengo e gli dice:

— Avete comandato il fuoco contro una donna?

— Chiedo scusa, capitano — dice, contrito, fraintendendo, Martinengo. — Toccava a lei, il comando. È stato più forte di me.

Sale la scala di legno sgangerata, Camillo Moles, nello «stallazzo con alloggio» di Gasparin e ripete, a sè stesso:

— Una donna.... una donna....

Nella fredda e nera stanzetta, egli si accascia sovra una sedia, senza più forze. Alia, innanzi [p. 125 modifica]alla sua fantasia, una seducente forma di donna: e una voce lusinghevole pare che canti: Beau chevalier, qui partez pour la guerre...

— Barberina, Barberina! — chiama l’uomo, allucinato.


Nell’ampio giardino che è chiuso, intorno, da un alto cancello di ferro, le cui sbarre sono lucenti di una tinta bronzea e, in alto, le lancie sono dorate, già l’erba cresce in un verdino chiaro, nelle aiuole ben disegnate, ed essa si curva languida, sotto il soffio tiepido, impercettibile, quasi segreto del marzo cadente: le pianticelle dei fiori, e i più solidi arbusti e le piante più alte, si covrono di piccole gemme chiare, e gli alberi che ebbero, sino a ieri, dei rami neri, nudi e attorti, mettono come una infantile capigliatura di fogliette nuove. L’antica villa patrizia, è in fondo al giardino, dietro gli alberi: e appare nel suo mirabile stile palladiano, solo nei mesi d’inverno: dalla primavera all’autunno, essa è nascosta dietro la floridezza sempre più ricca delle piante e degli alberi, che la nascondono agli occhi del viandante, mentre l’alto cancello serrato, la custodisce ermeticamente. La famiglia proprietaria, è tutt’assente: il capo di famiglia è sotto le armi, la sua signora è in Croce Rossa; i vecchi e i bimbi sono stati condotti lontano, perchè la villa è in avanzata zona di guerra, collocata sulla larga via maestra, di quella parte più estrema del Veneto: adesso, è occupata da un alto comando di guerra e vi ferve, intorno, un continuo rombare di automobili, e vi si agita, ovunque, un continuo flutto di uomini, soldati e ufficiali, a piedi, in bicicletta, persino a cavallo. Anzi, laggiù, in fondo al giardino, dove esso confina coi campi, pascolano tre bei cavalli e due [p. 126 modifica]soldati li sorvegliano. Il largo verone centrale della villa, è schiuso, e ogni tanto, un ufficiale, due ufficiali, vi appaiono, vi restano, rientrano: anche alle finestre, dietro i cristalli chiusi, qualche profilo di ufficiale si delinea. In un angolo appartato del giardino, ma poco distante dalla porta di entrata della villa, è l’automobile del generale, un automobile dello stesso colore di tutte le altre, ma più vasta, più comoda, velocissima: un soldato, un conducente, è curvo a osservare il motore, mentre un altro soldato, accanto, gli tende dei ferri e degli stracci. Accanto alla porta di entrata, sono appoggiate delle biciclette: vi è anche una motocicletta. E la larga via maestra è sempre avvolta in un nembo, fra polvere che si solleva e fumo puzzolente di benzina che si sprigiona dai neri camions, carichi di soldati, di balle, di munizioni. In certi momenti, è un rumore infernale: talvolta si cheta, per poco, e il nembo di polvere si dirada e l’aria già primaverile, porta via il fetore della benzina.

Viene, dalla porta della villa che ha varcato, dopo breve esitazione, un giovine tenente, Carletto Valli: la sua figura esile, si è fatta più piena, più robusta: la sua grazia, un po’ feminea, si è virilizzata: i suoi occhi chiari, hanno uno sguardo più deciso. Egli si avanza verso il cancello che è largamente schiuso sulla via maestra: e osserva quel mai interrotto passaggio di veicoli, di animali, di uomini, che talvolta si addoppiano, s’incrociano, si agglomerano, e si arrestano, ingombrando tutta la strada. Carletto Valli ritorna verso la porta della villa, ove si ferma a parlare con altri due ufficiali, vaghe parole, sguardi distratti, qualche fuggevole occhiata, verso la via... Adesso egli è di nuovo sul limitare del cancello: egli vede arrivare un soldato, che fila, curvo, sulla sua bicicletta, che è coverto di polvere, la persona e il viso, che ferma di botto la sua macchinetta, scende, si pianta, fa il saluto e, poi, guardandosi intorno, a voce sommessa, interroga: [p. 127 modifica]

— Il tenente Carletto Valli?

— Sono io. Dà pure — ordina, sommessamente, l’ufficiale, che imbianca e arrossa, mentre riceve la lettera che il soldato avea nella giubba e che gli consegna. Ma egli non legge, davanti al soldato. Costui è immoto, guardando negli occhi l’ufficiale.

— Va pure... — dice Valli, guardando la lettera senz’aprirla.

— Non debbo portar risposta? — osa chiedere il soldato.

— ... no.

— Non debbo dire nulla?

— ... no... cioè, di’ che io manderò una risposta.

— Non altro?

— Non altro — poi, sogguardandolo. — Sei così impolverato... avrai sete... va a bere.

E gli dà una moneta. Il soldato saluta, inforca la sua bicicletta, sparisce. Con passo rapido, Carletto Valli si allontana verso un boschetto, ove è, nel mezzo, una fontana che brilla e canta al sole: ora, egli è nascosto dagli alberi. Strappa convulsamente la busta e legge: «Carletto, è la terza lettera, con cui ti scongiuro di raggiungermi, anche per un’ora, ma è anche l’ultima, perchè se tu sei così spietato, da non udire il grido della mia dolorosa passione, io mi uccido in questa stanza, dove spasimo da venti giorni... Ti aspetterò sino a domattina, non oltre. La vita non mi è niente, senza te, senza il tuo amore, senza il tuo bacio — Loreta».

È seduto, Carletto Valli, sull’orlo della fontana e ha il capo sul petto, sprofondato nel suo desiderio e nella sua disperazione. Federico Altomonte, un suo compagno, un suo amico, lo ha cercato, lo ha raggiunto, lo chiama, lo scuote. Carletto Valli leva il capo e dice:

— Altomonte, stanotte io debbo essere a...

E non pronunzia il nome della città che è lontana, ma non tanto lontana: non è necessario dirlo, Altomonte ha compreso il nome.

— Sei pazzo, Valli, è una pazzia! [p. 128 modifica]

— Debbo andare, debbo; non posso lasciar morire una donna...

— Tutte lo dicono, tutte lo minacciano...

— Questa lo fa, Altomonte: non la conosci: è partita da Roma, un mese fa, in mezzo alle difficoltà più terribili, in mezzo a tutti i rischi, i più tragici e i più esosi... È giunta venti giorni fa, in città: ed è nascosta, da venti giorni, in una stanza, ad aspettarmi e sono già tre volte, che m’invoca, che mi chiama, disperatamente... e io non posso più resistere... lo andrò, andrò stassera...

— Valli, sai a che ti esponi? T’incontrano, veggono di dove vieni, capiscono dove vai... Valli, ti vuoi perdere?

— Non importa, Altomonte, se non vado, Loreta si uccide...

— Valli, Valli — soggiunse più gravemente l’amico — sai che forse, da un minuto all’altro, noi si parte, per un’azione in grande stile? Non lo sai?

— Lo so, lo so, non me lo dire!

— Vuoi disertare?

— Altomonte, abbi pietà di me! — e gli butta le braccia al collo, nel suo strazio. L’amico tace, pensoso, tenendolo fra le braccia, parlandogli, ancora.

· · · · · · · · · · ·

Giunge a sera avanzata, Carletto Valli, nella città, poichè ha lasciato la villa patrizia, quando già vi regnava il silenzio del riposo e perchè ha sperato trovare silenzio e solitudine serale, nella città: e passarvi, quindi, inosservato. Ma, invece, dalle prime piccole vie, la città appare splendidamente illuminata, quasi incurante del pericolo, che può venire dal cielo, ove possono giungere gli aeroplani nemici: i caffè, numerosissimi, ogni tre o quattro botteghe, sono traboccanti di luce e gremiti di gente: da varii di essi, viene suono di musica e talvolta canto di donna, musica stridula e voce rauca, in dissonanza con la musica e con la voce del caffè vicino: in qualche altro [p. 129 modifica]caffè, chiuso, questo, ma chiarissimo, anch’esso, dietro le tende, sul ritmo della musica, si scorgono passar coppie di danzatori, che si tengono strette e trapassano, una dietro l’altra e ritornano. Continuo flutto di gente, nelle vie: uomini e donne e bimbi, famiglie intiere, che camminano, che si chiamano, che si urtano, ridendo, e altre coppie che si tengono a braccetto, che camminano languidamente, guardandosi a lungo, sporgendo le labbra, per baciarsi, quasi, in pubblico, senza accorgersi degli altri viandanti: altre coppie, dai volti pallidi o accesi di desiderio, dagli occhi torbidi, scantonano rapidamente, come per fuggire in un luogo solitario. Fra la folla passa, lentamente, con ciera aggrondata di superbia, qualche donna alta, formosa, capelli dipinti, occhi bistrati, labbra cariche di rosso, vestito sgargiante, grossi gioielli forse falsi: ella va, tacita, severa, ma sogguarda, di sbieco, a diritta e a sinistra, se qualcuno la segua: qualche altra donnina, scarna, sdutta, coi capelli corti, con gli occhi che sembrano passati al carboncino, vestita quasi maschilmente, sgattaiola fra la folla, occhieggiando, anch’essa... La folla maschile è fatta di militari e di civili, questi ultimi in maggioranza: i militari, sovra tutto gli ufficiali, vengono dal fronte interno, sono elegantissimi, uniforme nuova, gambali rilucenti, cintura e tracolla anche più rilucenti, orologio di oro, al polso, frustino dal pomo di avorio: anche i soldati, pochi, che sono in giro, sono in gala, hanno i loro guanti bianchi e il berretto alla sgherra. I civili sono di tutti i ceti e di tutte le qualità, qualche figura fine, mescolata a volti triviali di mercatanti, di profittatori. E tutta questa folla, a ora più tarda, entra ed esce dai ritrovi, forma gruppi, sulla via, parla forte, ride, si sganascia e qualche strillo di donna, ogni tanto, si ode. Perplesso, sgomento, Carletto Valli, che è sceso da un camion, alle porte della città, va con passo affrettato, pentito di esser venuto, in pericolo di esser riconosciuto e fermato, a ogni istante: e tutto lo turba e [p. 130 modifica]lo sgomenta, specialmente questo aspetto di festa folle, di festa orgiastica, della città. Ne sapeva qualche cosa: non credeva a tale violento tumulto del piacere, a tale febbre impura del vizio. La casa dove è celata Loreta Leoni, è in un vicolo in penombra, dove egli penetra cautamente: a un angolo, un uomo e una donna, si disputano, con voce bassa, ma irata, qualche parolaccia, qualche bestemmia scoppia: sotto il portoncino, illuminato da una fioca lampadina elettrica, una donna è appoggiata al muro, come in attesa: ha un casco di capelli nerissimi, gli occhi bistrati, le labbra sanguigne, ma è vestita, forse espressamente, per meglio attrarre, per meglio provocare, da contadina friulana: mentre Carletto Valli passa, a testa china, costei gli mette una mano sul braccio, per fermarlo, e pronuncia una parola oscena: egli respinge bruscamente quel contatto immondo e sale, a precipizio, la scaletta stretta e buia. La porta di casa è socchiusa: egli la spinge, brusco: traversa un’anticameretta, e da una porta, dirimpetto, dove una donna origliava, vede apparire il volto mortalmente pallido della sua Loreta, che egli non vede da dieci mesi. I due sono stretti in un abbraccio lungo, ove tutto è scomparso, il tempo, il luogo e l’evento.

— Se non venivi... Mi uccidevo... mi uccidevo... — balbetta Loreta Leoni, offrendo la fronte, gli occhi, la bocca, ai baci di Carletto Valli.

— Loreta... Loreta... Loreta! — e la riprende, stretta, come se mai dovesse dividersene, e la bacia, la bacia, mentre ella trema, ride e piange, insieme.

— Sei venuto... sei venuto, amore mio!

— Non dovevo; non potevo; ma ti amo, ti amo, ti amo!

— Qui, qui, con me, sul mio petto, sul mio cuore...

Sono caduti, adesso, seduti sovra un gramo divanetto e si tengono abbracciati ancora: egli si guarda intorno, e scorge, a una scarsa luce, tutto [p. 131 modifica]l’aspetto gretto, sporco e anche equivoco di quella stanzetta. Un fiotto di amarezza lo invade.

— Loreta, Loreta, perchè sei venuta in questo paese di perdizione?

— Per vederti, per parlarti, per averti!

— Come sei venuta? Chi te lo ha permesso? Chi ti ha condotta, qui, Loreta? — e l’inchiesta è sdegnata, è pressante.

— Non dimandare, non importa! Sono qui, con te, abbracciami, tienimi stretta, soffocami!

— Chi ti ha indicata questa casa?

— Che importa, Carletto, che importa? T’ho avuto, sei con me, sono con te. Non chiedere altro!

— Loreta, Loreta, questo paese è pieno di prostitute e di ladri, non ci dovevi venire!

— Lo sapevo, lo so, ci sono venuta egualmente.

— Anche questa casa è losca... Vi era una prostituta, giù... mi voleva...

— Poveretta... — dice, malinconicamente, Loreta.

— Loreta, Loreta, tu compatisci una mala femmina? — e l’uomo si è fatto imperioso e più che mai sdegnato.

— La compatisco, sì, perchè lei si dà per fame... e non per amore, come me...

— Loreta! — grida l’uomo, prendendole i polsi e stringendoglieli, a farle male. — Ti proibisco di far nessun paragone consimile...

Ella cerca disciogliere i suoi polsi, e soggiunge, imperturbata, quasi seguendo un suo pensiero:

— D’altronde, questa poveretta dà della gioia a chi, forse, morrà domani...

Un silenzio lungo. Carletto Valli è torvo; non leva gli occhi su Loreta Leoni, che è accanto a lui, calma, con le lunghe mani bianche, incrociate sulle ginocchia.

— Loreta — egli riprende, serio, grave. — Tu torni domani, da tua madre?

— Domani, perchè? Perchè?

— Perchè non voglio che la mia donna, la mia [p. 132 modifica]Loreta viva un giorno di più, qui, in questo paese di vizio e di orgia...

— Carletto, vi sono altre donne, mogli appassionate, amanti ardenti che sono qui, e vi restano, e i loro mariti e i loro amanti ci vengono, spesso, appena possono...

— Anche in questa casa, è vero? — prorompe la voce furiosa di Carletto.

— Sì, siamo varie, in ogni stanza, qualcuna... e anche altrove — ella dice, incosciente.

— Te ne andrai, domattina, Loreta!

— Domattina?

— Sì, non un’ora più di domattina. Mi hai inteso?

Ed è un comando netto e preciso, che l’uomo dà alla donna.

— Non posso aspettarti, ancora, amore mio? — ella prega, coi suoi begli occhi supplici. — Non puoi tornare, da me? Come ritornano gli altri? Resto chiusa, serrata, qui dentro, ad aspettarti.

— Non puoi aspettarmi, Loreta; e io non posso tornare — egli replica, sempre più risoluto.

— Perchè, perchè, Carletto, anima mia diletta?

E gli butta le braccia al collo e lo bacia.

— Loreta, Loreta, siamo in guerra guerreggiata, siamo in avanguardia; stanotte, domattina, può venir un ordine di marciare, hai capito?

— Che dici, che dici! — esclama Loreta, con un grido basso, che è anche un lamento.

— Hai capito che ho mancato al mio stretto dovere, venendo qui, stasera, mentre dovevo esser là, presso il mio capo... Hai capito, che mi hai fatto fare? Io posso essere un disertore, un traditore, domattina...

— No, no, no! — ella grida. — L’ordine non è venuto, l’ordine non verrà, non verrà... Vedrai, amore mio, che Loreta tua non ti ha fatto male... Loreta che ti adora...

— Prometti, Loreta, che partirai domattina, che tornerai da tua madre?

Ella tace, a capo chino. [p. 133 modifica]

— Lo sai che sei la mia sposa, la mia donna, innanzi a Dio? Te lo ricordi? Vuoi tener la tua fede? Vuoi obbedirmi? — E la voce di Carletto, ha un potere che ella non ha mai conosciuto.

— Prometto... — ella risponde, tremante.

— Giura.

— Lo giuro — e, questa volta, ella consente con umiltà, con devozione.

— Mia Loreta, mia Loreta — egli prorompe, in singhiozzi, senza lagrime, abbracciandola strettamente, come quando è entrato nella sordida stanza di quella casa equivoca.

E ai primissimi gelidi verdastri albori, che Carletto Valli e Loreta Leoni si separano; egli la fissa, negli occhi, con una novissima, singolare espressione di disperata tenerezza, che la donna non approfondisce, ma che ricambia con gli impetuosi segni della passione. Ora, le sue guancie sono accese, i suoi capelli neri sono discinti, i suoi occhi allucinati; ella si aggrappa a lui, si avviticchia, tutta, come se mai volesse staccarsene. A un tratto, l’uomo, in quell’ora delirante, sente, gli sembra confusamente di sentire, fra loro due, un’aerea presenza e sulla sua spalla, un tocco lieve, ma che si fa sempre più forte; una mano, sì, una mano che, prima, lo abbia attirato a sè e che, poi, lo sospinga, fuori, lontano, via, dove? Questa strana sensazione dura pochi istanti, ma al tenente Valli è insopportabile; per infrangerla, per farla dileguare, egli torna ad abbracciare la sua Loreta, in silenzio. La respinge, prima, con dolcezza, poi fermamente, nella lercia stanza; e fugge, discende, fuggendo, la scaletta ripida, fugge per il vicolo stretto e puzzolente, a capo basso, senza voltarsi indietro, via, via, col primo mezzo più veloce, un automobile vuoto, via, via, sino alla villa patrizia, che il grande Palladio disegnò, in fondo al fiorito giardino chiuso...

Deserto, il giardino; tutti spalancati e vuoti, i veroni e le finestre della villa; non un soldato, un ufficiale, fuori, dentro; non una voce; non un [p. 134 modifica]suono. Partiti, tutti, nelle ore alte della notte, sovra un ordine giunto a mezzanotte. Questo gli dice un uomo, un custode che spazza, lentamente, la soglia della porta.

— Dove, dove? — grida, follemente, il tenente Carletto Valli.

L’uomo fa un cenno vago, verso l’alto della via, pronuncia e storpia un nome. Disperatamente, vi si mette, per quella via, l’ufficiale, mordendosi le labbra per non urlare il suo dolore, con gli occhi pieni di lacrime, per il suo scorno.


Gira, il severo chiostro quadrato, coi suoi archi sostenuti da sottili colonne di marmo diventato grigio come la pietra, intorno al cortile del vecchio monastero; e, nel mezzo, il pozzo si eleva, col suo sporto di pietra lavorata e il suo armeggio di ferro battuto, leggiero, da cui pende, nel mezzo, la carrucola. Ma, in essa, non scorre più la corda, a cui era sospeso il secchio; nel cortile lastricato, fra gli sconnessi pietroni, cresce l’erba, e più folta, essa cresce intorno all’antico pozzo. Lungo il chiostro quadrato, sono dipinte, sulla muraglia, delle scene sacre, ma scolorite, sbiadite, poco si distinguono; vi è tracciato, anche, qualche pio motto latino, quasi indecifrabile. Il primo piano sul chiostro quadrato, è fatto di larghe loggie che sostengono un tetto di tegole rossastre, diventate brune; e s’intende, che nel muro, in fondo a queste loggie, si aprano le porticine delle celle fratesche. Sotto i portici del chiostro, vi è andirivieni di soldati, che salgono e scendono da una larga scala, in un angolo del chiostro. Collocate in croce, attorno al pozzo, vi sono quattro mitragliatrici, piazzate in modo così curioso che, sembra debbano sparare contro i quattro lati del chiostro; ma queste armi [p. 135 modifica]truci sono al riposo, e attorno ad esse, si affaticano alla loro aggiustatura, alla loro ripulitura, due soldati che portano delle lunghe bluse, unte dagli olii che adoperano, e hanno le mani nere, mentre, accanto a loro, si ammucchiano gli stracci e le pelli che sono servite ai due mitraglieri, per strigliare, come cavalli, le loro armi. Difatti, due di queste mitragliatrici splendono, nei loro metalli bruni e pure smaglianti, nella loro canna snella, nel loro fondo greve, pronto a dare fulmineamente la morte: le altre due sono schiuse, e il loro ingranaggio è scoperto, e i soldati vi si curvano, sovra, con occhi attenti e con mani dai gesti precisi. Nella corte del chiostro, un ufficiale si accosta, a loro, e guarda la loro opera, per qualche minuto, con ciglia contratte, come se studiasse quell’arme. I due soldati continuano la loro bisogna, senza parlare.

— Queste sono le mitragliatrici della terza compagnia? — chiede, a un tratto, l’ufficiale, a uno dei soldati.

— Signorsì — risponde il soldato, senza cessar di strofinare.

— Tenente Scalese?

— Signorsì.

— E dove è, il tenente Scalese?

— È su. — E, accenna al loggiato, sovra il chiostro.

— Siete in riposo?

— Da ieri, signorsì.

— Tornate all’azione?

— Dopodomani.

— Ah!

Si volta, verso il loggiato e chiama, forte, l’ufficiale:

— Scalese! Scalese!

Un minuto: il tenente Gianni Scalese si affaccia, al parapetto del loggiato.

— Chi mi vuole? Eccomi!

— Sono io, Soria. Vieni giù!

Rapidissimamente, fa le scale, Gianni Scalese, il figliuolo della tenerissima donna, che lo ha [p. 136 modifica]cresciuto senza padre; e corre verso il suo amico Guido Soria, con cui non s’incontra da mesi. E si abbracciano, strettamente. E si scambiano parole bizzarre, imbrogliate, domande che non aspettano risposta, interruzioni; poi, il discorso unico:

— Che fate, Guido, che fate?

— Trincea, trincea, trincea... — esclama, sottovoce, pallido di noia, Guido Soria.

— Molte privazioni, è vero? — chiede affettuosamente, Gianni Scalese.

— Privazioni di combattere, di vincere il nemico, ecco! — prorompe Guido.

— Ma siete vicini, col nemico, io lo so.

— Vicinissimi, purtroppo! È esasperante, Gianni, Ci scorgiamo, di qua, di là, ogni tanto, se qualcuno di loro, di noi, tira fuori la testa..., E non possiamo nè mirare, nè sparare... Essi, neppure sparano... Dopo un minuto di osservazione, che pare indifferente ed è esasperante, ognuno di noi, di loro, sparisce, si sprofonda...

— Nessuna sortita?

— Nessuna. I nostri comandanti, o sono morti, o sono pazzi, Gianni.

— Zitto, Guido...! — e gli fa cenno, per coloro che potrebbero ascoltare.

— Io schiatto di collera, fratello mio, in quella topaia, dove sono sepolto...

— E i tuoi uomini?

— Oh quelli! Quelli si sono intorpiditi; hanno perduto il gusto del combattere... Se mai l’hanno avuto...

— Esso non è naturale... — dice, piano, il tenente Gianni Scalese,

L’altro non ha udito. E riprende:

— Sai che t’invidio? Sai che t’invidio forte?

— M’invidii? E perchè m’invidii?

— Tu comandi queste lucide e belle mitragliatrici, tu comandi la morte del nemico, tu puoi distruggere il nemico, Gianni... È questa la guerra, la vera guerra, Gianni; non il sotterraneo e il sonno. [p. 137 modifica]

— Sì — dice, a voce bassa, a occhi bassi, il tenente Gianni Scalese.

— Sono venuto a vederle, ad ammirarle, le tue mitragliatrici. Sono crudeli, Gianni? Sono terribili?

— Sì, Guido — risponde Scalese, piano — crudeli e terribili, così sono.

Si sono avvicinati alle armi che Guido Soria carezza con lo sguardo e più con l’animo esaltato. Adesso, anche la terza mitragliatrice è al suo posto, lucida, sottile nella sua canna, e pregna di morte nel suo fondo. Il tenente Scalese vuol accontentare la bramosia acerba del suo amico e dice a uno dei due soldati:

— Hai fatto la toilette di Palmetella, Califano?

— Signore tenente, Palmetella pare una sposa — risponde, subito, con bocca ridente il napoletano, ridente e inconscio.

— Questi mitraglieri amano assai la loro arme — spiega, lentamente, Scalese a Soria. — E le mettono anche un nome, a loro gusto. Palmetella, è il nome della tua fidanzata, è vero, Califano?

— Palma Sanges, signor tenente, la più bella ragazza di Fuorigrotta. Appena finisce la guerra, io me la sposo! — proclama, giocondamente, il napoletano spensierato.

— E come si conduce, Palmetella, col nemico? — domanda Guido Soria al soldato partenopeo.

— Se lo mangia; se lo mangia assai, questo nemico; ha una fame disperata, Palmetella... — e cova, Califano, con lo sguardo ingenuo, innocente, la sua mitragliatrice. — Quell’altra, Moscardina, è molto più scema, coi «cecchini».

Moscardina?

— Così l’ha chiamata, il compagno de Mattia: io non so perchè si chiama così... Ma non vale Palmetella, per la fame.

— Però, quando sparano tutte insieme, sarà tremendo? — ricerca, ancora, nella sua ansia allucinante, Soria.

— È come un ventaglio, un ventaglio di morte... [p. 138 modifica]È una gran cosa, contro il nemico; è una gran cosa assai... — dice, con voce sognante, inconsciente con occhi sognanti ma sereni, il soldato Califano.

Ha sempre taciuto, durante lo strano dialogo, il tenente Gianni Scalese, forse lontano con lo spirito. Guido Soria ne conosce la mitezza, la bontà, sa il fondo di tristezza di quella vita orfana di padre. Così, è con animo amichevole che egli dice:

— Io lo so, Gianni; tu non ami nè Palmetella, nè Moscardino, che i tuoi buoni soldati, così semplici, vezzeggiano come delle amanti; io, se mi avessero messo fra i mitraglieri, le avrei abbracciate ogni mattina, queste armi... Ma, dimmi, quando sei negazione, non ti ecciti, non ti esalti? La strage che fanno le armi da te comandate, non t’inebbria?

— Io non la veggo, Guido — Gianni risponde malinconicamente. — Le mie armi uccidono lontano. Veggo l’altra strage, invece...

— E quale?

— Quella che colpisce, accanto a me, intorno a me, i miei uomini, i miei compagni... Anche gli austriaci hanno le mitragliatrici — e uno smorto sorriso gli sfiora le labbra.

— Ma voi, che comandate, siete più al securo, Gianni? Credevo...

— No, Guido, no. Non siamo al securo. Mia madre lo crede: io gliel’ho giurato. Ma non dobbiamo essere al securo. Nè importa la nostra securezza. Importa obbedire.

Queste parole sono pronunciate con semplice fermezza: ma la malinconia di quell’anima giovanile, è impressionante. E Guido legge nei mesti occhi del suo amico, oltre la tristezza, questo rigido senso dell’obbedienza. Se deve morire, morirà al suo posto. È triste, anche lui, Guido, adesso, e abbracciando fraternamente Gianni Scalese, prova una emozione singolare, di cui non si dà conto. E si allontana dal silente chiostro del vecchio monastero, va passo passo, verso il paesello deserto di abitanti, già due volte ripreso dagli austriaci e [p. 139 modifica]due volte perduto dal nemico, Valdivia alle cui spalle delle casette dirute, cadenti, sono le grandi trincee di avanguardia italiane ma dove, da mesi, non ci si batte più, vivendo una vita greve e soffocante di talpe. Bisogna tornarci, dopo qualche giorno di riposo nella stessa trincea di prima, di sempre, in cui Guido Soria crede di stare da secoli, fermo, immoto. E il suo profondo scontento non viene solo dai lunghi giorni, dalle lunghe settimane, passate sotterra, al freddo, alla pioggia, ai disagi più penosi, a tutti gli stenti, insieme a ufficiali più vecchi, ad altri giovanissimi, a soldati, diventati, tutti, color della terra, per quella esistenza: ma viene da un opprimente senso d’immobilità di tutta la guerra, come se un possente esercito, per un malefizio infame, si fosse pietrificato.... Ma si combatte, si vince, si perde, si torna a vincere, forse, altrove? Non ve ne è notizia. Nessuno fa saper niente: nessuno sa niente. Tutto è di pietra e di fango. E il malefizio, non vi è forza umana che lo infranga.... È giunto dopo quasi due ore di cammino, in preda ai più neri pensieri, Guido Soria, a quello che fu un paesello di estrema avanguardia ed ora è un mucchio di negre ruine. È innanzi, indietro, a fianco di queste ruine, che si aprono le bocche delle ultime trincee italiane, fra cui la più grande, dove vive il tenente di fanteria Guido Soria, coi suoi uomini. Più in là, a valle, è la chiesetta del villaggio, dal modesto campanile bombardato, ma in piedi, ancora. E Costantini viene incontro al tenente Soria, col suo passo corto ma rapido, poichè questo caporale è grosso e atticciato: egli non è l’attendente di Soria, che ne ha un altro, Franceschi, un fosco e taciturno soldato: pure, per simpatia umile, Costantini è sempre attorno a Soria e lo serve con una cura affettuosa. Costantini è un marchigiano, della Marca di Ancona, di Corinaldo, forte mangiatore e bevitore, ma sempre presente a sè stesso, abile, sveltissimo. Non sa, Guido Soria, se Costantini sia coraggioso, come soldato: non si sono mai battuti [p. 140 modifica]insieme. Quando si batteranno, quando? Mai, mai, si batteranno? Spesso Tanimo esacerbato di Guido Soria esprime questo grido di dolore, innanzi al caporale Costantini: e, costui, sorride, crolla le spalle, e vuole esprimere che si batteranno, sì, certo, presto; e seguita a rassicurare, con lo sguardo il suo tenente Soria, che verrà l’ora in cui le talpe diventeranno dei leoni.... Forse il caporale Costantini, marchigiano, è un soldato coraggioso.

Egli si avanza verso il tenente, lo saluta e gli dice che il capitano De Sanctis ha combinato una piccola mensa, laggiù, laggiù, ove è quella baracchella di legno, quella del telefonista, e che aspetta il tenente Soria, per la cena. In trincea, tutto è approntato, per la notte. E il rapporto è finito. Costantini guarda negli occhi Soria e gli dice:

— Mi dà permesso, ora? Posso andare?

— Dove vai, Costantini?

Il caporale fa un cenno vago, verso la chiesetta del paesello, colpita, è vero, ma di cui resistono la facciata e il grezzo piccolo campanile: il cenno è stato qualsiasi, e il soldato ha volto la testa in là.

— Vai a pregare, Costantini?

Quello non risponde e sembra, al tenente, che il suo volto si sia arrossito e impallidito. Adesso si accorge, Soria, che Costantini ha un grosso involto, sotto il braccio, e un piccolo involto tenuto in mano, con precauzione, come qualche cosa che si possa rompere.

— Vai a fare una mangiata? A prendere una sbornia?

— Ho mangiato e bevuto, signor tenente.... — risponde, presto, a bassa voce, Costantini, sempre imbarazzato.

— E che porti nelle mani? Parla, perdio! — esclama, già sospettoso, il tenente.

— Porto da mangiare e da bere, a chi non ne ha....

— A qualche mendicante? A qualche vagabondo?

— No, signor tenente.... — e la confusione del caporale è al colmo. [p. 141 modifica]

— E a chi, dunque? Donne non ve ne sono, da queste parti!

Il caporale Costantini leva la testa, inghiotte con difficoltà la sua saliva e risponde:

— A un prigioniero.

— A un prigioniero? — esclama, Guido Soria. — Dov’è, questo prigioniero, Costantini?

— Laggiù, nella chiesetta. Sono prigionieri che vengono da Strigno: li condurranno in giù, domani, tenente. Sono tre, anzi: ma due hanno mangiato qualche cosa: il terzo, il mio, muore di fame, poveretto....

— Il tuo? Il tuo? — seguita a gridare Soria, fuori di sè. — Tu soccorri un nemico, un austriaco?

— Non è nemico: non è austriaco: è prigioniero — risponde, a voce dimessa, ma chiara, il caporale.

— Costui, ieri, poteva ucciderti!

— Ma non mi ha ucciso: e, oggi, patisce la fame e la sete, tenente — seguita a rispondere, pianamente, ma senza esitazione, il marchigiano.

— I suoi compagni, i suoi compatriotti, domani, potranno uccidere me, te, i nostri compagni!

— Non è loro colpa, tenente — risponde, più fermamente, il caporale Costantini.

— E di chi è la colpa?

— Di chi ha voluto la guerra — dichiara Costantini, senz’altro.

— Chi l’ha voluta? Lo sai, chi l’ha voluta?

— I governanti: i superiori: i capi — dice, vagamente, Costantini, guardando in aria,

— Non sai altro?

— Non so altro, tenente. Nè debbo saper altro, io.

— E perchè hai pietà, di costui, perchè? — ritorna al suo violento sdegno, il tenente Soria.

— Perchè è uomo come me: avrà una famiglia, che ama, come me: una casa, a cui pensa, come me — e la voce del caporale Costantini, si vela di un’emozione che non sa vincere.

Il tenente Guido Soria, pallido, fremente, tace. [p. 142 modifica]

— Signor tenente — e si curva, Costantini, verso Soria per concludere — questo prigioniero parla italiano: italiano, come me!


— Come tanto tempo, don Lanfranchi, senza venirci a trovare? — e suor Serizia, dalla voce un po’ cantante, dal benigno piccolo sorriso, crolla la testa, sotto le candidissime bende, datele da san Vincenzo de’ Paoli.

— È vero... è qualche tempo: ma se sapeste, suor Serizia, che vi è lassù, al Podgora, donde vengo... — e il sottotenente Lanfranchi, che porta sul berretto del grigio verde, il segno sacerdotale, non continua, come sfinito.

— Mi sembrate assai stanco... sediamo, don Lanfranchi — e suor Serizia conduce don Lanfranchi, a un vecchio banco di legno, sotto una larga e fronzuta acacia.

Un tepido sole di settembre riscalda quel giardino, che è dietro l’ospedale della piccola città: il giardino è un po’ arido, un po’ brullo nelle sue aiuole non curate, ma le acacie e gli olmi che vanno lungo il sentiero centrale, sono ancora floridi e ricchi. In fondo al giardino dove il sole batte meglio, sono seduti i convalescenti dal tifo, in lunghe tuniche azzurro scure: non parlano, bevono l’aria, si scaldano al sole: sono lontani e non si possono vedere i loro visi, ma si intende tutto il mite conforto, che viene loro dalle forze che ritornano, dall’aria, dal sole.

— Sono stanchissimo, suor Serizia — sospira don Lanfranchi, guardando in terra. — Mi credevo più forte.

— Eravate, forte, don Lanfranchi...

— Ero, sì: ero contadino, sovratutto, magro, ma forte. Roma, la città, mi ha ammollito...

— Lassù, al Podgora la vita sarà assai dura... [p. 143 modifica]

— Un inferno, suor Serizia! — esclama il sottotenente Lanfranchi. Poi si pente e si morde le labbra.

— Gesù e Maria! — E la paolotta si fa il segno della croce. — Su questo tremendo Podgora?

— Tremendo! Ogni giorno e ogni notte, bombardamento incessante e azioni incessanti, dalle due parti. Feriti, stroncati, morenti, morti, nostri e nemici, gli uni sugli altri... e urla e grida, e lamenti... — geme, ed è proprio un gemito in forma di parola, che gli sfugge dalla bocca.

Gli occhi della monaca si velano di lacrime: ella alza il suo rosario, che le pende dalla cintura, ne bacia le sacre medaglie, lo lascia ricadere.

— E avete potuto... potete far qualche cosa per essi... confessarli... assisterli... benedirli? — domanda, trepida, la suora.

— Poco, suor Serizia! È così pericoloso, andarli a raccogliere... pochi portatori ne hanno il coraggio: e i feriti e i morenti chiamano, e gridano, e offrono denaro, per esser raccolti... e nessuno va...

— Oh Signore, Signore, tanto avete permesso! — esclama suor Serizia, giungendo le mani.

Don Lanfranchi diventa anche più pallido nel volto emaciato, consunto: egli sbarra i suoi occhi sulla religiosa, quasi in attesa. Ma ella devia il discorso, ella stessa, ansiosa per la sua fede.

— E quelli che arrivate ad assistere, don Lanfranchi, che dicono? Muoiono in Cristo?

— Sì: muoiono in Cristo — egli risponde, breve.

— Tutti?

— Non tutti, suor Serizia: qualcuno è disperato... — egli soggiunge, a voce bassa.

— Disperato, don Lanfranchi?

— Eh sì... è giovine... è forte... ha gente che ama, suor Serizia, è orribile, allora, morire! — e pare che parli, in don Lanfranchi, la voce istessa del morente.

— E non tentate di pacificarli, con Cristo?

— Tento, sì... tento... è il mio dovere di prete... di cristiano... ma le mie forze sono deboli, suora mia, — esclama, tremando, il prete soldato. [p. 144 modifica]

— E si ricordano di qualcuno, morendo? Chi chiamano?

— Tutti, la mamma. Giovini, anziani, plebe, signori, tutti quanti: la mamma — dichiara, don Lanfranchi.

— Signore, Signore, sia fatta la vostra volontà — conclude la figliuola di san Vincenzo de’ Paoli, congiungendo le mani, come in orazione.

Il prete soldato la guarda e non risponde. Un venticello autunnale fa stormire la gran verdezza delle acacie. Dalla porta posteriore del piccolo ospedale, un altro convalescente appare, a passi un po’ vacillanti: non vuole appoggiarsi al bastone: è giovanissimo, ma sei settimane di tifo lo hanno smunto, i suoi folti capelli si son fatti radi, la pelle si è ingiallita, sulle tempie. Pure, sorride a suor Serizia: costei si alza, gli va incontro, gli offre il braccio.

— Stai bene, Guccione, ma non ti reggi in piedi... Ti accompagno...

— Perchè mi chiamate Guccione, madre mia? Mi avete promesso di chiamarmi Filippo... io vi son figlio, lo sapete... — e Guccione parla puerilmente, quasi con un balbettìo infantile.

— Hai ragione, figlio caro. Anzi, se vuoi, ti chiamerò Pippo — e sorride la monaca, mentre il giovanottino convalescente ride, ride come un fanciulletto. Ridono insieme, la paolotta e il soldatino convalescente, tali due creature semplici. Suor Serizia lo fa sedere sul banco, sotto l’acacia. È in piedi, ella, presso don Lanfranchi:

— Qui, siete più tranquilli, è vero? — domanda il prete.

— Abbiamo avuto, un mese fa, delle cattive giornate, don Lanfranchi — narra suor Serizia. — Ve ne erano molti, troppi, di tifosi: e alcuni, così violentemente attaccati, che morivano dopo una settimana... Ora, ora, vi sono i malati, sempre, ma la malattia è meno temibile... abbiamo due buoni medici... Iddio ci aiuta... Ora, sopra, ve ne sono solamente due, che ci fanno tanta pena; [p. 145 modifica]uno è gravissimo e ha un delirio... un delirio... si dibatte, bestemmia, urla... Gli diamo, ogni tanto un bagno freddo, gelato, per far discendere la temperatura: si calma per qualche ora... poi, ricomincia... La notte, specialmente...

— La notte?

— Tutti i tifosi sono agitatissimi, la notte, don Lanfranchi — dice, pensosa, suor Serizia.

— Dormite poco, è vero?

— - Non molto... ma sto benissimo! — soggiunge, subito, sorridendo suor Serizia. — D’altronde, ho due sorelle, con me, suor Michelina e suor Benedetta... buonissime, forti, robuste...

— E l’altro infermo?

— L’altro è meno malato: può scampare: scamperà... Ma è così inquieto, sempre! È un popolano di Roma: e seguita a disperarsi, perchè non ha notizia dei suoi. E fa scriver lettere su lettere: ma quelli non rispondono.

— Lo hanno dimenticato?

— Chi sa! La posta va così male... e nelle città grandi, sono così obbliose, le persone... — suor Serizia sospira, mentre si avvia, verso il fondo, ove sono i tre convalescenti. Dice loro qualche cosa, accompagnando le parole, col suo sguardo benevolo. Poi, si ferma con Pippo, gli dà un leggero scappellotto sulla spalla, gli sorride, l’altro ride: ed ella ritorna, per risalire nell’ospedaletto.

— Ci date una messa, domattina, don Lanfranchi? — chiede al prete soldato, che l’attende sulla soglia. — Una messa specialissima?

Egli esita, un istante: poi balbetta, quasi:

— Perchè no, se resto stassera, in città... Non lo so, se resto... Ve lo faccio sapere...

Ascende le scale, la paziente e operosa suora: lento, lento, come se avesse esaurito ogni suo vigor fisico, don Lanfranchi la segue. Tre porte oscure si aprono sovra un largo pianerottolo e già si respira, là fuori, l’acuto odore dei disinfettanti. Suor Serizia introduce nel suo ufficio, come ella dice, ridendo, don Lanfranchi: è una stanzetta nuda. [p. 146 modifica]con un solo grosso mobile, una scrivania nera, carica di fascicoli, di fogli e di qualche registro: colà suor Serizia segue il movimento del suo ospedaletto, notando e conteggiando. Alle pareti, un crocefisso nero e bianco: dirimpetto, un quadro sacro, ove è dipinta la Madonna dei Dolori. Qualche sedia. Non altro. Una monaca alta e scarna con un viso lungo e fine, sotto le ali bianche della cuffia, suor Michelina, viene a consegnare, in silenzio, a suor Serizia, un pacco di lettere, e si allontana. L’altra suora, viso paffuto e roseo, di una freschezza giovanile contadinesca, suor Benedetta, arriva, cariche le braccia di lenzuola e di foderette: ambedue, a bassa voce, scambiano qualche parola, con Serizia e spariscono, con quel passo feltrato, leggero, che è delle religiose di san Vincenzo.

— Andiamo, don Lanfranchi — e lo precede nella sala centrale.

Tutte le finestre larghe di questa sala, sono schiuse all’aria e al sole di settembre: ma è sempre fortissimo, l’odore dei medicinali. Venti letti, bianchissimi, sono allineati, a diritta e a sinistra, dieci e dieci, abbastanza distanti l’uno dall’altro: quattro non sono occupati, con le coltri bianche tese. Negli altri letti giacciono i tifosi, quasi tutti in posizione raccolta, come stretti in sè stessi, col capo sprofondato nell’origliere: sembra che dormano: ma non dormono: o sono leggermente assopiti, in quel dormiveglia bizzarro, che dà la febbre, quando è molto diminuita: o sono abbattuti dalla febbre forte, respirando affannosamente, col sudore morboso che bagna loro le tempie e non li solleva. E a malgrado l’aria fresca e confortante di autunno che circola, nella nitida sala, sui bianchi letti, di cui si cambia ogni giorno la biancheria, vi è, insistente, quel particolare odor di febbre, che è nelle stanze di tutti gli infermi, e di cui s’impregnano le mura e i pavimenti, negli ospedali. Laggiù, non giace disteso, ma è seduto sul suo letto, quel tifoso che è arso da una febbre [p. 147 modifica]implacabile che ne divora, è vero, tutte le forze, ma che nel suo culmine quotidiano, gli dà un eccitamento che giunge al furore. E è presso costui che si avviano suor Serizia e don Lanfranchi: l’ammalato è così scarno che pare si possano misurare le ossa del suo cranio, sotto la pelle gialla, rugosa, con una testa coperta da capelli radi, incolori, umidi, con una bocca contratta e che perde continuamente la saliva. Costui grida, a don Lanfranchi:

— Chi siete? Che volete? Lasciatemi morire in pace!

— Figliuolo mio, perchè parlare di morte? Lasciamo fare al Signore... — dice, umilmente, don Lanfranchi.

— Siete un prete, eh? Non vi avevo riconosciuto! Siete un prete! Perchè venite, qua, presso il mio letto? Lo sapete che mi fate schifo, con la vostra religione? Io ci sputo sopra, sulla vostra religione!

Suor Serizia leva gli occhi al cielo e si fa il segno della croce: anche don Lanfranchi, brevemente, si segna.

— Che sono queste smorfie? — grida il delirante. — Finitela con questi gesti ipocriti. Io sputo in viso, al vostro Signore, lo sapete, prete, lo sapete, monaca?

Suor Serizia si tura le orecchie, per non udire; e don Lanfranchi fissa il delirante col suo sguardo sgomento: e nulla dice.

— Sai tu, prete, perchè il tuo Dio mi fa orrore? Perchè è un Dio malvagio, perchè è un Dio di morte e di distruzione. È lui che ha lanciato milioni di uomini contro milioni di altri uomini, perchè si uccidessero a vicenda, e i campi fossero devastati e le case bruciassero, e le donne fossero stuprate, e i bimbi strozzati! Questo, questo, non solo ha permesso, questo ha voluto il tuo Dio, il tuo Dio nero, prete che vieni qui a parlarmi del Signore! Io lo odio, questo Dio infame, che mi ha gittato nella fornace della guerra, e la mia [p. 148 modifica]donna forse, a quest’ora, fa la mala femina, per le vie di Roma e, io, domani, morrò, io che ho trentanni, io che ero giovine, vigoroso, pieno di speranze.... Prete, prete, vattene dal mio letto, se non vuoi che ti maledica, tu, sacerdote di un Dio crudele, atroce....

Il delirante tifoso ricade sull’origliere, coverto di un sudore freddo, dibattendosi, convulso, con parole rotte, con voce arrocata: pietosissima, curva sul morente, suor Serizia gli asciuga il sudore, lo ricompone fra le coltri, gli dà da bere, a sorsi, una bevanda fresca. Osa di nuovo, don Lanfranchi, mormorargli:

— Figliuol mio, calmatevi.... È il male che vi esaspera.... Fidate nella Divina Provvidenza....

Più tranquillo, ma con voce ove stride l’ironia,

Il malato si volge al prete e sogghigna:

— Tu ci sei stato, prete, lassù, in guerra? Hai visto la strage, sei stato in mezzo alla strage? E ci credi ancora a questo tuo Dio? E se ci credi ancora, lo benedici o lo maledici, come io lo maledico? Rispondi la verità, prete, se hai coraggio....

— Pazienza, pazienza, don Lanfranchi.... — interviene suor Serizia, scorgendo la espressione dolorosa, che contrae il volto emaciato del prete.

Adesso ella ha tolto il termometro di sotto l’ascella del tifoso: la temperatura sorpassa i quaranta gradi. La suora leva gli occhi alla lavagnetta, che è a capo-letto del malato, ove è segnata la prescrizione. Bisogna dargli un bagno freddo. Con un cenno, ella indica un letto lontano a don Lanfranchi, ove è l’altro infermo che, forse, potrebbe esser confortato da una parola di bene: e suor Serizia se ne va a chiamare, dalla seconda sala, un infermiere, per sollevare nelle sue lenzuola, il malato, che ha bisogno di esser immerso nel bagno freddo.

Con passo malfermo, il prete soldato si avvia verso il letto lontano: due volte si arresta, quasi gli mancassero le forze, per continuare. Sollevato [p. 149 modifica]sui cuscini, il malato lo vede giungere, lo squadra, poi, prorompe, con un respiro ansante:

— Don Lanfranchi, don Lanfranchi! Siete voi, voi?

Il sacerdote stenta, un momento, a riconoscere in quel volto massiccio ma scarnito, in quei grossi occhi lucidi di febbre, in quella spazzola di scuri capelli sulla fronte madida di sudore, la fisonomia antica di Cesare Pietrangeli, il popolano romano... Ma è lui, sminuito, sgretolato dalla malattia, quasi irriconoscibile, se non fosse lo sguardo di prima, bonario, e stanco, insieme, se non fosse la parlata romanesca, sempre più accentuata:

— Venite da Roma? Dite, dite...

E con le due larghe mani dimagrite e brucianti di febbre, Cesare afferra le mani fredde e fini del sacerdote, lo attira a sè: costui si curva a deporre un bacio fraterno, sulla fronte dell’infermo.

— No, Cesare mio, no. Non vengo da Roma, purtroppo...

— E da quando ci mancate, dite, dite?

— Non vi sono mai tornato, Cesare — dice, piano, don Lanfranchi — neppure da mia madre, sono andato: neppure dal mio monsignor Morcaldi...

— Oh Dio! — esclama, angustiato, deluso, Pietrangeli.

— E perchè ti affanni tanto? Perchè spasimi così? Non guarisci, più, allora: e non hai la licenza, per andare a casa...

— Ma come posso guarire, don Giulio? — Si lamenta l’infermo, agitando, con le ginocchia sollevate, le sue coltri — Se costoro non mi scrivono, non mi danno notizie, se mi lasciano agonizzare, più pel loro silenzio, che pel tifo?

— Pazienza, pazienza, Cesare!

— Da tre mesi, don Giulio, senza notizie! — dice, cupo, il malato — malati, malati, tutti?

— Staranno, invece, Cesare mio, tutti benissimo! — sorride, affettuosamente il prete — sai come vanno le poste. Tu ti sarai spostato, varie volte... È la cosa più comune, amico mio, non avere [p. 150 modifica]lettere: si torturano, come te, migliaia di combattenti....

Acconsente, col capo, Cesare Pietrangeli, alle ragioni vaghe, ma per lui convincenti, del prete: pure il suo volto spira tristezza.

— Sono tanti, a casa, che sanno scrivere.... Persino Bicetta.... Ma non scrivono! Don Giulio, noi stiamo con la morte sul capo, qui, e quelli ci dimenticano....

— Non dire così, Cesare, non essere ingiusto....

— Io sono tornato, otto mesi fa a casa — dice, lentamente, a occhi bassi, il popolano — non erano affatto infelici, i miei, mi parve: e nessuno mi sembrò infelice, fra i miei conoscenti: Roma era sempre la stessa.... Don Giulio, quelli del fronte interno, si sono assuefatti, senza noi.... Non si accorgono più della nostr’assenza, del nostro rischio....

Don Lanfranchi ascolta e per non dar ragione al popolano, cambia discorso:

— È il tuo Augustarello?

— Oh don Giulio, il mio pupo, il mio piccolo, come era sempre carino.... Lo volevano in quegli asili per bimbi, dove pare stiano a meraviglia.... mia moglie ce lo voleva portare, per nutrirlo meglio.... Io ho detto di no, di no!....

Silenzio malinconico, fra i due uomini.

— Perchè voleva levarsi il figlietto, mia moglie, ditemi voi, don Giulio? — vaneggia, un poco, l’infermo.

— Forse, per farlo stare meglio, Cesare.

— Il Aglietto deve stare con la madre. Non è il suo dovere, tenerselo?

— Sì — risponde il prete, senz’altro.

— Voi non andate a Roma, don Giulio?

— Eh no, Cesare mio, non per ora.

— Dovete tornare in su?

— Debbo tornare in su.

— Siete molto esposto, è vero?

— Abbastanza — risponde, semplicemente, il sacerdote.

— Si combatte sempre, è vero? [p. 151 modifica]

— Sempre, Cesare.

— E si vince? Si vince?

— Si vince e si perde, figliuol mio.

— E così, non viene nessuna decisione, è vero, è vero? — esclama il malato, agitato, di nuovo — Non finisce mai, questa orribile guerra?

— Calmati, calmati, Cesare: è questione di tempo....

— Ma è eterno il tempo! — grida il malato — E quando si torna a casa? Quando?

— Torneremo, torneremo, Cesare, pazientiamo....

— Io morirò in quest’ospedale, don Giulio.

Ma no, ma no; sta tranquillo; ti guariranno, guarirai; andrai a casa....

— Io morirò in quest’ospedale, se non mi scrivono da casa, don Giulio — ritorna, alla sua idea fissa, il malato.

— Vedrai, vedrai, che da un momento all’altro avrai lettere.

— Sono tre mesi, tre mesi, tre mesi.... — si lamenta, di nuovo, il malato.

Quando è sul pianerottolo, per andarsene, don Giulio Lanfranchi incontra suor Serizia e s’intrattiene con lei, qualche minuto.

— Che dice, il malato romano, don Lanfranchi?

— Spasima, perchè non ha notizie dei suoi.

— Una lettera è giunta, per lui, dalla posta — confida, a bassa voce, suor Serizia — I medici vogliono che noi le leggiamo, prima, queste loro lettere. È giunta, ora, la sua. Scrive la sua figliuola, Bicetta. Il piccolino Augustarello è morto, purtroppo, nel «nido» dove lo avevano raccolto.

— Oh suor Serizia! — prorompe, triste, a bassa voce, il prete. Poi soggiunge, subito:

— Non date questa lettera a Cesare Pietrangeli. Voi lo uccidete, suor Serizia.

— E se chiede della sua posta?

— Dite che non è giunto nulla....

— Debbo dire una bugia, don Lanfranchi?

— Sì. Io vi assolvo, senza confessione, suor Serizia. Per carità, si può mentire. Vi assolvo. [p. 152 modifica]


Il grosso lume a petrolio che discende dal basso soffitto di legno ed è circondato da un tondo paralume di carta verde, appena appena dirada l’oscurità di quello stanzone lungo e stretto; un altro lume a petrolio, fumicante, è posato sovra un bancone alto, di legno grezzo, che segue un lato dello stanzone; e nella scialba luce di questo altro lume, si distingue una testa di uomo, calva sul davanti, con una zazzera ispida di capelli rossicci sulla nuca, che si curva sul bancone, a scrivere con lentezza, in un registro aperto; ogni tanto, l’uomo che scrive, leva gli occhi in aria, come se si volesse ricordare un nome o una cifra e, allora, si scorgono i tratti rugosi, terrei, di un viso offlosciato, una bocca molle sovra una dentatura giallastra, e due occhietti tondi, mobilissimi, quasi spiritati, in quella faccia moscia. Egli è avvolto in un peloso pastrano di lana, di cui tiene sollevato il colletto sino al mento; e, talvolta, egli si ferma dallo scrivere, per strofinarsi le mani freddissime, per soffiarsi sulle dita intirizzite. Quello stanzone che par fatto tutto di legno, ha delle strette aperture, a diritta e a sinistra, delle mezze finestre, ma esse sono sbarrate dalle imposte di legno; la porta di entrata, in fondo, è sbarrata con un grosso catenaccio di ferro, che la traversa quasi tutta. Là dentro si gela. Fuori, su quel giogo di montagna altissimo, in quella notte dell’anno cadente, nevica; la neve non fa rumore, fioccando, ma nello stanzone l’aria si fa sempre più glaciale. Laggiù, lungo l’altra parete dello stanzone, vi è un camino nerastro, sotto una nerastra cappa che lo ricovre; e aguzzando gli occhi, vi si vede pendere una catena affumicata, a cui è sospeso un calderotto, Il camino non dà nè luce nè calore: è [p. 153 modifica]spento. Nel silenzio grande, si ode solo stridere ogni tanto, la penna dello scrivente, sul largo foglio del registro; ma, tendendo l’orecchio bene, si ode un altro rumore, eguale, monotono, quello del respiro di un uomo addormentato. Colui che dorme, è seduto sovra una stretta panca, che è addossata a una parete dello stanzone; egli si è abbandonato, sovra una tavolaccia che ha davanti, con le braccia congiunte e col capo nascosto nelle braccia, alla sua stanchezza e al suo sonno. È una massa bruna, quasi informe, da cui viene fuori quel respiro di un uomo immerso in un sonno pesante. Lo scrivente non si occupa di lui, preso, come è, dal suo stentato lavoro di scrittura; il lume, accanto a lui, crepita, come volesse spegnersi ed egli ogni tanto, ne smuove la palla bianca trasudante e puzzolente, piena di petrolio, perchè bagni meglio la calzettina. A un tratto, nel silenzio, un colpo è picchiato alla porta; l’uomo che scrive, leva il capo dalla sua scrittura e il suo floscio e scialbo viso sembra, ora, tutto teso, nell’attenzione e nell’attesa. Un secondo colpo, più sonoro; adesso, anche il dormiente si è scosso dal suo profondo sonno, ha levata la testa verso colui che scrive e mostra un viso contratto da una sospettosa curiosità, mentre i suoi occhi hanno una interrogazione ansiosa. Lo scrivente, mettendosi un dito sulle labbra, gli rivolge un energico cenno di tacere; e scendendo dalla sua seggiola alta, si avvia, con passi cauti, verso la porta sbarrata sotto il lungo catenaccio; ma, a mezza strada, è fermato da una voce bassa e trepida, che giunge dall’ultimo fondo dello stanzone. Sovra l’esiguo pianerottolo di una piccola scala interna, un uomo è apparso e piegandosi tutto, sulla ringhiera della scaletta, dice:

— Non aprire, non aprire!

Anche a lui, l’uomo che scriveva, impone di tacere, con un gesto rude di fastidio; egli è già arrivato alla porta, ma non la schiude ancora; apre, invece, uno sportellino, uno spioncino, che è [p. 154 modifica]praticato nel battente; sebbene egli ne covra l’apertura, col capo e col busto, un chiarore strano penetra, da quell’apertura, nello stanzone, come la diffusione di una pallida luce lunare: è la neve, da cui sono coverte le strade, e il bosco, e le roccie, fuori, è la neve che seguita a fioccare, in quell’algida notte dell’anno che finisce. L’uomo che scriveva, parla, a voce quasi spenta, con colui che ha bussato due volte? costui, che non si può scorgere bene, perchè l’altro, da dentro, lo nasconde, anche parla con un soffio; la conversazione è cortissima: la persona, di fuori, ha pronunciato un motto e, poi, ha porto un involtino, all’uomo che è dentro. Lo spioncino si richiude pianamente; pianamente scorre il lungo catenaccio, nei suoi anelli metallici; un battente della porta si schiude - a metà, la luce chiara e smorta della notte di neve, fuori, mostra un’ombra di uomo che penetra vivamente nello stanzone; il battente ricade, la porta è chiusa e incatenacciata. L’uomo che è entrato, l’ospite novello, è tutto cosparso di fiocchi di neve, sulle spalle, sulle braccia, sulle mani; il cappello floscio, abbassato sulla fronte, sino agli occhi, ne è tutto imbiancato. Egli si scuote tutto quanto, batte forte i piedi a terra, come se si fossero gelati, respira profondamente. L’uomo che dormiva, è rimasto immobile, sulla sua panca, innanzi al suo tavolaccio, con la testa appoggiata al muro, quasi estraneo a quello che accade, ma seguendo, con l’occhio, ogni moto del novello ospite; l’altro, l’uomo che era di sopra, nascosto nel solaio, e che è comparso sulla scaletta, vi è rimasto confitto, immoto.

— Amico, non avete fuoco? — dice il novello ospite, al padrone di casa. — Io sono assiderato.

— Ecco — risponde, senz’altro, il padrone di casa.

E va verso il camino, vi si curva sotto la cappa, vi traffica qualche minuto, finchè una vampa vi si accende, da tre pezzi di legno, messi ad ardere. L’ospite novello vi si accosta, vi china il volto, vi [p. 155 modifica]stende sopra le mani ghiaccie: ora è seduto sovra una panca che non si vedeva, nella penombra, e che è a destra del camino, mentre, ve ne è un’altra, a sinistra, dirimpetto, come presso tutti i camini delle alte case alpine. La fiamma s’innalza, dà luce, intorno; colui che è entrato, l’ultimo, nello stanzone, vede l’uomo che dormiva, tacito, immobile sulla sua panca lontana, vede il terzo uomo, quello del solaio, che si china sulla ringhiera della scaletta. L’ospite novello si volge al padron di casa e gli chiede, seccamente:

— Avete gente?

— Amici — ribatte, secco, l’altro. — Amici come voi.

— Quanti?

— Due, solamente. Li vedete.

— Mi aspettavate?

— Ero avvertito, sì.

— Non deve giungere nessun altro?

— Nessuno.

— Va bene — conclude, fermo, tranquillo, il novello ospite.

Ora, costui, si è tolto il cappello, su cui il calore ha disciolta la neve ed è fradicio di acqua; si è sbottonato il pastrano, quasi fumante di umidità, presso la vampa. Egli è un uomo ancor giovine, forse appena trentenne; ha un viso ulivigno, ma puro di linee, e sebbene esse sieno nette e taglienti, non mancanti di bellezza nella loro espressione decisa; la sua fronte è più chiara del viso e non ha rughe, mentre un solco di pensiero, è, fra ciglio e ciglio; le sue mani lunghe, distese al calore vivificante del fuoco, non mostrano la deformazione del lavoro manuale; i suoi gesti sono semplici e armoniosi; egli è vestito civilmente, con una camicia di bucato, candida. Adesso, al richiamo caldo e lucente della legna che brucia, l’uomo che dormiva profondamente sulla panca, buttato col corpo e con la testa sovra la tavolacela, e che, sveglio, era restato muto e cheto, al suo posto, contro il muro, quest’uomo che pativa di [p. 156 modifica]freddo in tutte le membra quasi anchilosate, non ha saputo resistere; passo passo, egli si è avvicinato al camino confortevole, curvandovisi sopra, per meglio prenderne, in tutto il corpo, il calore, e, infine, sedendosi sulla panca di sinistra, dirimpetto all’ospite novello. Poi, schiude le labbra e dà un saluto:

— Buona notte.

— Buona notte — corrisponde, subito, l’ospite novello.

Anche l’uomo del solaio, che era apparso sulla scaletta, al primo colpo picchiato all’uscio e aveva palpitato di paura e aveva supplicato di non aprire, si decide a discendere i rozzi scalini; la fiamma chiama e lassù, nel solaio, si batteano i denti dal freddo. Ora, si è fatto dappresso al fuoco, ristorandosi al soffio caldo; infine, anche lui si è seduto, timidamente, nell’altro angolo della panca di sinistra. Saluta:

— Buona notte, amici.

— Buona notte.

— Buona notte.

Tutti e tre sono rischiarati, dal basso in alto, a tratti, secondo i guizzi capricciosi della vampa, che si leva, si piega, a diritta, a manca, che pare si spenga e che, a un tratto, scintilla, crepita e s’innalza...

— Non venite, amico, a riscaldarvi? — dice l’ospite novello, al padron di casa, che è tornato al suo bancone e alla sua scrittura.

— Sono avvezzo; ho la pelle dura — costui risponde, crollando il capo calvo, dalla zazzera rossiccia.

Un silenzio. I tre uomini, attorno al fuoco, non si guardano, fra loro, non si parlano e, raccolti, assorti, sembrano presi, ognuno, dalla propria vita interiore. Fischia l’aria che il fuoco fa uscire dal legno che arde; stride il legno e il tronco incandescente si covre di farfalline di fuoco.

— Che notte crudele! — sospira, come fra sè, l’uomo che dormiva sulla panca. [p. 157 modifica]

— Crudele... — ripete, vagamente, l’uomo del solaio, che ha la testa abbassata sul petto.

— Meno crudele degli uomini — dichiara, con limpida voce, l’ospite novello.

— La neve uccide — soggiunge, sempre volgendosi a sè stesso, l’uomo della panca.

— Ma dolcemente — replica l’ospite novello. — L’uomo uccide con ferocia.

Un silenzio che, pare, si animi di un triplice pensiero.

— Sul Carso maledetto — dice, come se pensasse e sognasse, l’uomo della panca — i miei poveri compagni stanno fra la morte pel freddo e quella per la mitraglia.

— Siete del Carso? — chiede l’uomo del solaio. E subito, si pente della domanda, e fa un cenno di scusa.

— Sì; del maledetto Carso — risponde l’uomo della panca, parlando verso la bella fiamma.

— In licenza, come me? — chiede l’uomo del solaio.

— ... in licenza, come voi — risponde l’uomo della panca, dopo una lieve esitazione.

Tacciono, pensano, parlano a sè stessi, senza parole. L’uomo della panca si volge al novello ospite e gli dice:

— E voi, siete soldato?

— No — replica, immediatamente, il novello ospite. — Sono uomo.

Il chiarore allegro del fuoco indica i volti sorpresi e attoniti dei due uomini che erano, prima del terzo, nello scuro stanzone, sulla panca e nel solaio.

— Sono uomo e non posso e non voglio esser soldato — parla costui, a occhi bassi, senza volgere il capo verso chi lo ascolta. — Sono uomo e non posso servire altri uomini; non posso e non voglio obbedire ad altri uomini.

— Odiate gli altri uomini? — osserva, timidamente, l’uomo della panca.

— Io li amo, invece, con tutte le mie forze di [p. 158 modifica]amore. Ma li voglio amare liberamente, per mia volontà propria; e li voglio amare tutti, gli uomini, non solo quelli del mio paese, ma gli estranei, gli stranieri, i lontani, gli sconosciuti.

È il riflesso, forse, della fiamma che accende le guancie brune, così fini e nobili di linee dell’ospite novello, o vi è corso un fiotto di sangue generoso, venuto da un cuore innumerevole? È riflettendo la fiamma che i suoi sereni occhi brillano, o è la bellezza della sua anima che vi riluce?

— Allora, amico, voi odiate la guerra? — domanda, più chiaramente, levando la voce, l’uomo della panca.

— Io ne ho ribrezzo; essa mi fa orrore — dichiara il novello ospite.

Sospira l’uomo della panca; sospira profondamente, l’uomo del solaio. Ascolta, adesso, attento, il padron di casa, dal suo banco, dove ha lasciato di scrivere.

— Milioni di uomini, nel mondo, ne hanno orrore, come me — soggiunge, pensoso, il novello ospite.

— E come fate, a non esser soldato in questa guerra? Come fate, a non servire, a non obbedire? — domanda, infantilmente, l’uomo del solaio.

— Mi espatrio — replica l’ospite novello.

— Vi prenderanno; vi faranno un processo; vi fucileranno — riprende, con un fremito in ogni sua parola, l’uomo del solaio.

— Forse — dice, senza tremito, senza fremito, l’uomo che ha ribrezzo della guerra, il novello ospite. — E che importa? Non avrò dato il mio corpo e il mio animo, a questo servaggio; non avrò ucciso, ciecamente, bestialmente, il mio simile, il mio fratello straniero, perchè mi avranno ordinato di ucciderlo. E avrò protestato con la mia ribellione invincibile, contro la guerra; e mi difenderò, nel processo, solo col maledire la guerra; e mi farò fucilare, lietamente, gridando: Morte alla guerra! [p. 159 modifica]

— Perirete egualmente — dice, con mortale tristezza, l’uomo della panca.

— Per la pace, perirò, amico mio. E sarà giusto e sarà bello — e un gaio ardore è nella voce di questo novello ospite; ardono le sue guancie, ardono i suoi occhi.

— Iddio vi accompagni, amico — piamente conclude, nella sua tristezza, l’uomo della panca.

— Così sia — pare che compisca l’augurio e la preghiera, Fuomo del solaio.

Passa, lenta, eguale, l’ora notturna, in quell’alta montagna di confine, fra i tre Stati, mentre la neve cresce intorno alla baracca, perduta, lassù, presso il giogo del monte. La fiamma si è spenta, nel camino, ma i tre tronchi sono incandescenti e il tepore continuo, ha riscaldato il sangue degli uomini che sono chiusi là dentro. Ma non li induce al sonno, quel fiato caldo che respirano: ognuno ha gli occhi aperti, spalancati su qualche propria visione. E una voce spezza il silenzio: è quella dell’uomo stanchissimo, che dormiva sulla panca.

— Amici sconosciuti, io voglio dirvi la mia storia, io vi scongiuro di ascoltarmi con fede, come io narro con verità.

— Parlate, amico; noi vi ascoltiamo fraternamente — dice l’ospite novello.

— Con fraternità — è l’eco, della voce dell’uomo del solaio.

— Io sono stato un buon soldato — egli narra, guardando il focolare dal fiato tepente. — Sì, mi si è spezzato il cuore, quando mi hanno preso sotto le armi, per andare in guerra, chi sa per quanto tempo, chi sa con quale morte; mia madre era vecchia e inferma, la mia buona madre; e la mia giovine e cara moglie era incinta, del primo nostro figliuoletto e il mio lavoro e i miei affari si disperdevano miseramente... Pure, sono andato, egualmente, senza ricorrere a nessun mezzo, per isfuggire al mio destino. Ho, al fronte, tutto sopportato, senza lagnarmi, i disagi, le [p. 160 modifica]privazioni, gli stenti, e ho sempre scritto ai miei, allegramente, mentendo, mentendo sempre, per non affliggerli, mentendo, sovra tutto, quando entravamo in azione; e mi sono battuto, lo so, lo dico, lo proclamo, con onore e con coraggio, e ho affrontato ogni pericolo senza esitare un istante, inviando, nell’ora del rischio supremo, solo dal cuor mio afflitto, un saluto di addio a mia madre, alla mia donna, a quel figliuolo, che non era nato ancora... Vi giuro, amici, che ho fatto più del mio dovere!

— Vi crediamo, amico — dice l’ospite novello.

— Vi crediamo — conferma l’uomo del solaio.

— Ebbene, ebbene, sapete voi come sono stato compensato? — egli si esalta, nella notte, nella penombra. — Quando la mia cara compagna è stata al suo termine, non mi hanno voluto dare neppure un giorno di licenza: e la poveretta, in quelle ore di travaglio, in cui poteva perire, è stata senza me, e mi è nato un figlio, e io non ho udito il suo primo grido, e mesi e mesi ho dovuto esser trafitto, dal desiderio di vedere questa mia carne nuova, questo mio sangue nuovo... O gente infame, o gente nefasta, che mi avete inflitta la tortura più divorante, in cambio della mia servitù, della mia obbedienza, del mio valore!

— Sia maledetta la guerra che rende gli uomini più feroci delle belve! — È la parola deprecante del novello ospite.

— Maledetta, maledetta! — stride l’uomo del solaio.

— Udite, udite ancora! — prorompe, esaltatissimo, come folle, colui che era stato un buon soldato. — Ecco che la mia madre languisce, perde le sue ultime forze, nello spasimo della mia lontananza, per il mio pericolo: e mi scrivono che i suoi giorni, oramai, sono pochi: e io mi agito, mi dibatto, disperato, pazzo, per avere un permesso, una licenza, per riveder mia madre, per assisterla morente, perchè io so che ella è morente: mi telegrafano di andare: un illustre medico telegrafa. [p. 161 modifica]dal suo capezzale, al mio comandante: e solo dopo dieci giorni, dopo che hanno avuta la conferma burocratica della mia sciagura, ho, finalmente, questa licenza, strappata, sì, strappata dalla mia furente angoscia...

Egli è così eccitato, che la sua voce gli si strozza nella gola: si tiene la testa convulsa fra le mani, quasi gli dovesse scoppiare.

— E... dopo? — domanda, dolcemente, l’uomo del solaio.

— Ho trovata morta, da tre giorni, mia madre — riprende, sordamente, l’uomo della panca. — Non l’ho tenuta, ancor viva, fra le mie braccia, non ho asciugato il suo sudore di morte, non mi ha benedetto, toccandomi la fronte, prima di morire, non ho raccolto il suo ultimo respiro, non ho abbassato le sue palpebre, sui suoi occhi spenti... La sua bara, chiusa, è rimasta in casa, perchè io potessi baciare quel legno, ove ella dormiva il suo ultimo sonno... E l’ho baciato, sì, quel legno, amici, ma nel mio immenso dolore e nel mio immenso sdegno, contro quei miei carnefici, ho giurato, sì, ho giurato di non più servire, di non più obbedire, di non più battermi... E non tornerò mai più al fronte: e lascerò, per sempre, il mio paese, per sempre...

— E vostra moglie e il figliuoletto? — chiede l’uomo del solaio.

— Mi sono diviso da loro, come per morte — conclude, tetro, colui che era stato un buon soldato. — Domani posso essere arrestato e fucilato: e muoio, sì, muoio. Ma se io mi scampi, se io passi la frontiera, se io possa imbarcarmi, ovunque io approdi, oltre oceano, rimarrò colà, sino alla mia morte. E, forse, potrò avere, più tardi, a me accanto, la mia donna e il mio figliuolo: e anch’essi dovranno, come me, diventare estranei, lontani per sempre, avendo obbliato anche il nome e la figura del loro paese...

Dalla tragedia che ha squassato l’anima del buon soldato e lo ha spinto alla fuga, alla [p. 162 modifica]diserzione, all’esilio, e forse alla morte, resta, nell’aria, un soffio di sdegno e di tristezza. Ognuno di quei tre uomini ha messo, mette a nudo la sua coscienza e un grido di straziante verità ne parte, scuotendo chi ascolta, sino al profondo del suo essere. Sono, costoro, innanzi al più rigoroso, ma, anche, al più chiaro giudizio: al proprio. E hanno bisogno di proclamarlo, senz’ambagi. Parla, nella notte, l’uomo del solaio:

— Io sono stato un cattivo soldato — egli comincia, sogguardando gli altri, che non si volgono a lui, ma che, certo, lo ascoltano attentamente. — Prima... molto tempo prima che gli eventi precipitassero, io non ho potuto pensare alla guerra, senza rabbrividire: quando tutto si andava, purtroppo, decidendo, io ho nutrito nel mio animo sconvolto, le più folli e le più infantili speranze, perchè questo terribile evento fosse scongiurato: e a ogni notizia, vera o fallace, io, che non sono un credente, io che ho vissuto senza religione, sono penetrato, di nascosto, nelle chiese di Cristo, per pregarlo, smarritamente, perchè Egli scampasse, me e gli altri uomini, miei fratelli, dall’atroce comando di uccidere o di perire... Tanta altra gente, nelle chiese, supplicava Iddio, piangeva: e la mia piissima madre si era votata, per questo suo unico figliuolo, a sant’Antonio di Padova e la mia tenera e virtuosa sorella, si era votata a santa Rita da Cascia e io, empio, miscredente, prestavo una fede improvvisa a questi voti feminili. Niente, niente, nessun Dio, nessuna Madonna, nessun santo ha fatto il miracolo: e la guerra è venuta, implacabile, flagellante, devastatrice, seminatrice di ruina e di morte!

— Sparirà, sparirà, la guerra, dall’universo! — dichiara, alto, l’ospite novello.

— Sono andato al fronte — riprende l’uomo del solaio, con l’occhio fisso sui tronchi che si consumano, quasi vi vedesse raffigurata la sua anima in angoscia. — E mai vi fu peggior soldato di me, che, pure, ero, nella vita civile, un galantuomo. [p. 163 modifica]un onesto cittadino, obbediente alle leggi... Non ho mai obbedito volentieri, alla disciplina: sempre mi sono ribellato, interiormente, con animo torbido, a ogni comando: sempre avrei voluto ribellarmi, esteriormente, con parole, e con atti, inveire, pubblicamente, contro la guerra, ingiuriare i miei superiori, insultare i miei capi lontani, bestemmiare, infine, contro tutto e contro tutti, maledire! E, poi, non l’ho mai fatto, così, scioccamente e stranamente, per qualche cosa d’ignoto che mi paralizzava, che mi suggellava la bocca: così, sono restato al fronte, pessimo soldato, per mesi e mesi, per un tempo interminabile, che è caduto sul mio cuore, giorno per giorno, ora per ora, come goccia di piombo... Amici, dovunque io mi, sono sentito morire: nei baraccamenti sordidi e puzzolenti, ove ogni istante potea venir l’ordine di partire e di attaccare: morire nelle trincee, sotterranei, fosse, grotte, antri, ove l’uomo diventa più bestiale delle bestie, ridotto ai suoi istinti più bassi: morire, a ogni colpo di cannone, morire a ogni fischio stridente delle carnefici mitragliatrici, morire a qualunque scoppio di bomba, morire a ogni lampo, a ogni baleno... Morire, sempre!

— Ma di che, morire? — domanda, stupito, il buon soldato.

— Di paura — risponde, preciso, netto, il cattivo soldato.

Adesso, gli ascoltanti lo guardano, lo fissano, colui che si confessa così tristamente: ma non vi è, nel loro sguardo, nessun disprezzo, per quella confessione: certo, vi è dell’interesse umano, e, forse, della pietà.

— Una paura che, sempre, mi sommuoveva il sangue, ora quasi gelandolo, ora precipitandolo, bollente, nelle mie vene, come un flutto liquido di metallo fuso: una paura che mi stringeva la gola, come un nodo che mi strozzasse: una paura che m’irrigidiva ogni membro, mentre la mia vista si ottenebrava, le orecchie mi rombavano, la pelle si raggricciava... Tutta la mia anima spasimava, [p. 164 modifica]mentre il mio corpo era attraversato dalla paura: e sempre avrei voluto fuggire, mentre ero paralizzato; sempre avrei voluto sprofondarmi nella terra e mi guardavo attorno, come un fanciullo, per cercare una buca, per nascondermi dentro un tronco di albero.... Amici, dite pure, come io ho detto a me stesso, che sono stato sempre un vile, che sono stato, che sono il più spregevole fra i vigliacchi, ma voi non saprete mai che cosa sia la paura, in guerra!

— Amico, migliaia di uomini hanno patito lo stesso male, come voi e non eran vili.... — pronuncia, pensoso e benigno, il novello ospite.

— Lo so! Lo so! — esclama il cattivo soldato. — Ho tante volte visto, intorno a me, delle faccie contratte, degli occhi stralunati, ove parevami si riflettessero il viso e lo sguardo della mia paura: ho udito, delle voci fioche, chiamare Dio, in aiuto, invocare la Madonna, pronunciare il nome della mamma, a scampo: ho visto delle mani tremanti frugare, sotto la giubba, per toccare una sacra medaglia: ho visto impallidire come spettri, uomini sani e forti: come me, sì, sì, essi avean paura! E altri di questi uomini, sospinti, travolti dalla loro paura, gittarsi come pazzi, come frenetici, nel maggior pericolo, per sfuggire al tremendo incubo della paura, per liberarsene, sì, anche morendo....

— Più di ogni sacrificio, è alto il sacrificio di costoro — dice l’ospite novello, con voce solenne.

Un silenzio di pensiero, di tristezza, di dolore, in quello stanzone perduto, lassù, sulla cima del monte, presso il fatidico giogo, fra i ghiacci eterni, nella notte altissima.

— Ma sono, io, veramente, un vigliacco? — grida, improvvisamente, a sè stesso, il cattivo soldato. — Io, nella mia vita civile, ho corso talvolta dei gravi rischi e li conoscevo, e sono andato incontro a loro, con animo fermo e tranquillo. Io l’ho vista, in viso, la morte, o per la estrema ora di una persona che adoravo, o per una mia infermità, che mi condusse sin quasi alle soglie eterne, e [p. 165 modifica]sempre il mio spirito è stato, in quelle ore, alto e sereno. Sono proprio un vile, io? Me lo sono dimandato cento volte, nelle mie notti insonni, sotto il mio tormento e ho indagato nei miei sensi e ho scavato nella mia coscienza, spietatamente... E, infine, amici, io ho trovato la radice profonda della mia paura, l’ho trovata, è quella, è solo quella! Ed è il terrore invincibile, è l’invincibile terrore della morte di guerra, colà, in un inferno aperto, respirando un’aria di fiamma, acciecato dai lampi, assordato dal fragore, in una scena di atroce carneficina: questa, questa è la ragione della mia folle paura, la morte di guerra, vedendo piombare al suolo nero di mitraglia, i compagni, gli amici, i giovani fiorenti e i padri di famiglia, dilacerati, sventrati, squartati, fra le loro urla terribili, fra i ruggiti del dolore, fra i lamenti ultimi: e sentire questo cerchio della morte sempre più stretto, intorno alla propria persona, questa persona che, fra un minuto può esser dilacerata, sventrata, squartata: e, dopo, i cadaveri abbandonati, senza sepoltura, come carogne, e le ossa spolpate dagli animali.... Questo, questo spettacolo di terrore, io vedevo riapparirmi, ogni notte, anche nell’inquieto sonno, sussultando, balzando sul letto, tastandomi pazzamente, per ritrovarmi ancor vivo.... Io so che sia la mia paura: io non voglio morire in guerra, così, in un mostruoso macello, in un mare di sangue, sgozzato come un povero animale, e che le mie ossa restino insepolte. E cerco uno scampo, uno scampo qualsiasi, e voglio tutto accettare e soffrire, salvo che quella morte, e troverò scampo, se la fortuna mi assista, se le dolci e fervide preghiere delle due donne che mi amano, mi salvino!

— Amico, domani, voi potete morire, poichè siete un disertore — dice, piano, il buon soldato.

— È vero. La fucilazione mi minaccia. Morrò. Ma morrò una sola volta. E guarderò in faccia i miei poveri commilitoni, condannati a uccidermi. E non mi farò bendare. E si vedrà che mai, mai, io fui un vile. [p. 166 modifica]

— Più che mai, noi siamo, amici, in pericolo di morte, per la persecuzione di guerra — pronuncia, calmo, pacato, l’ospite novello. — E morremo! Morremo bene, in serenità e in bellezza, da uomini consci della propria innocenza, ma sapendo quale immensa speranza, nasca dal nostro sangue sparso....

— Quale speranza? Quale? — chieggono, insieme, i due disertori, al terzo disertore.

— L’avvento della pace — egli dichiara, gravemente.

— Voi lo sperate? Voi sperate? — interrogano, anelanti, i due.

— Io ne sono certo. È la più nobile, la più giusta, la più pietosa delle idee umane, la Pace, fra gli uomini di tutte le razze e dei due emisferi. La Pace! Chi l’ha compresa, chi l’ha amata, chi l’ha benedetta, non può vivere e non può morire, che per essa. Verrà, verrà: essa cammina, verso noi, con passo securo e continuo....

— Verrà, verrà, la pace fra gli uomini.... — ripetono i due, soggiogati.

— Noi, forse, non la vedremo arrivare: ma i nostri figliuoli scorgeranno i primi raggi del suo splendore: ma la sua fulgente luce meridiana, la vedranno e ne saranno circonfusi, i nostri nepoti... Noi morremo, amici, forse, domani, innocenti ma puniti da altri innocenti, che eseguiranno un truce comando. Non importa! Forse questa guerra, creata dall’odio, creata dalla cupidigia, creata dalla prepotenza di tutti coloro che l’hanno scatenata, dovrà continuare.... Forse, ve ne sarà qualche altra: non importa! La Pace cammina. E il sangue di milioni di vittime ignote e il nostro povero sangue, insieme, aprirà meglio il cammino alla Pace. E noi dobbiamo esser lieti, amici, superando ogni miseria corporale e spirituale, se per debellare la guerra, se per far risplendere la pace, noi dovremo dare questa nostra umile e sconosciuta vita!

Ed era spento il focolare, ma il volto dell’apo[p. 167 modifica]stolo della pace si delineava, chiaro, nell’ombra: ed era, di nuovo, fredda l’aria, ma gli uomini che erano colà, ardevano di giustizia e di pietà, ardevano nella loro anima, che s’inebbriava di sacrificio.

— Amici, abbiamo stretto il patto delle nostre libere coscienze. Ora, dobbiamo separarci. O per la morte o per l’esilio, non ci vedremo mai più. Abbracciamoci, prima di dividerci. Non ci conosciamo: nessuno sa il nome dell’altro: le nostre vie sono diverse. Ma siamo uomini e abbiamo una sola fede. Abbracciamoci e diciamoci addio.

E i tre uomini si abbracciano e si baciano.

— Addio, amici.

— Addio.

— Addio.

— Abbracciate anche me — dice una quarta voce, sommessa.

È quella del padrone della baracca, perduta fra la neve dell’altissimo monte. Egli è presso i tre uomini, a capo chino.

— Sono un poveretto, l’ultimo dei poveretti — e il suo accento è fioco e doloroso. — Questo mestiere che sembra quello di un traditore, di un infame, far passare le frontiere a coloro che sono fuggiti dal campo, io lo faccio per la mia povera moglie, laggiù, in un paesello dell’Umbria, per i miei cinque piccoli figli, che non vedo da un anno. Il denaro che ho preso da voi, quello che ho preso dagli altri, io lo mando, tutto, alla mia famigliuola: tutto per essi, il mio denaro, il mio disonore e il mio rischio certissimo! Giacchè un giorno, presto, lo so, mia moglie e i miei figliuoli, non avranno più mie notizie. Io sarò stato preso e fucilato contro un albero. Mi tengono d’occhio. Hanno ragione. È il mio destino, morire così. L’ho accettato: per la moglie, per i figli. Ma non sono un infame. Sono un poveretto, sono un miserabile.

E l’apostolo della pace, abbracciò strettamente il padrone della baracca. L’ora era giunta. Prima [p. 168 modifica]l’uomo del solaio si allontanò, in un angolo, col padrone, parlando pianissimo, testa a testa: dopo, risolutamente si avviò alla porta, che si schiuse e si richiuse, su lui. Venne, indi, a conferire l’uomo della panca, col padrone: e terminato il colloquio, anch’esso uscì dalla baracca. Ultimo fu l’apostolo della pace. Parlarono più a lungo. Prima di escire l’uomo toccò la spalla del padrone di casa, con un atto amichevole: dopo, partì. E ognuno di quei tre uomini, nella notte glaciale, fra la neve alta, per sentieri diversi e ignoti, sparve, alla sua ventura.