Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
― 121 ― |
in perfetto silenzio, seguendo il caporale Martinengo, che fa da guida: la via si confonde fra corridoi pietrosi, fra tratti folti e poi radi di bosco; la via obbliqua, si disperde, riappare, in una sempre maggiore devastazione di paesaggio. L’ora diventa greve: il cammino verso un così selvaggio orizzonte, pare più lungo. Il capitano Moles comanda un alt, per un tempo di riposo: i fanti, i portatori, si seggono, si buttano in terra, si sdraiano sulle zolle aride, sui sassi. Luigi Fratta cava una bottiglietta di acquavite e ne beve un largo sorso; l’offre ad Assante, che la rifiuta: poi Fratta tira fuori una pipa e si mette a fumare. Il volto giovine e fresco di colui che fu un prete, si è già avvizzito: i tratti son diventati grossolani, i denti sono sporchi: la tonsura è scomparsa. Egli fuma e sputa: ogni tanto, rialza con pena le spalle, come se fosse abbattuto dal peso che le preme.
— Quanto, ancora, Martinengo? — chiede, breve, il capitano.
— Meno di un’ora, capitano.
— Troveremo ancor vivo Capece? — dice, come fra sè, Moles. E niente è più angoscioso della sua dubbiezza.
— Morto o vivo, dobbiamo portarcelo via! — esclama, angosciatissimo, Paolo Sambucetti.
— Cerchiamo, cerchiamolo! — conclude, vivamente, il caporale.
Vanno, di nuovo, con passo più rapido, dopo il riposo. Martinengo adesso, si è messo fra il folto della boscaglia. Vi si marcia con difficoltà, non più in linea, a uno a uno. Circospetti, diffidenti, nessuno parla. Si cammina leggermente, un po’ curvi: ci si piega in due, sotto certi alberi: si è pronti a buttarsi in terra, bocconi. Ognuno sa che il pericolo misterioso è là, forse ancora lontano, forse vicinissimo, forse già stretto, intorno, come un cerchio mortale. I fanti hanno il fucile a mano, pronto a mirare, a sparare: due o tre volte, macchinalmente, Paolo Sambucetti, il fraterno amico di Massimo Capece, ha toccata la sua