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lo sgomenta, specialmente questo aspetto di festa folle, di festa orgiastica, della città. Ne sapeva qualche cosa: non credeva a tale violento tumulto del piacere, a tale febbre impura del vizio. La casa dove è celata Loreta Leoni, è in un vicolo in penombra, dove egli penetra cautamente: a un angolo, un uomo e una donna, si disputano, con voce bassa, ma irata, qualche parolaccia, qualche bestemmia scoppia: sotto il portoncino, illuminato da una fioca lampadina elettrica, una donna è appoggiata al muro, come in attesa: ha un casco di capelli nerissimi, gli occhi bistrati, le labbra sanguigne, ma è vestita, forse espressamente, per meglio attrarre, per meglio provocare, da contadina friulana: mentre Carletto Valli passa, a testa china, costei gli mette una mano sul braccio, per fermarlo, e pronuncia una parola oscena: egli respinge bruscamente quel contatto immondo e sale, a precipizio, la scaletta stretta e buia. La porta di casa è socchiusa: egli la spinge, brusco: traversa un’anticameretta, e da una porta, dirimpetto, dove una donna origliava, vede apparire il volto mortalmente pallido della sua Loreta, che egli non vede da dieci mesi. I due sono stretti in un abbraccio lungo, ove tutto è scomparso, il tempo, il luogo e l’evento.

— Se non venivi... Mi uccidevo... mi uccidevo... — balbetta Loreta Leoni, offrendo la fronte, gli occhi, la bocca, ai baci di Carletto Valli.

— Loreta... Loreta... Loreta! — e la riprende, stretta, come se mai dovesse dividersene, e la bacia, la bacia, mentre ella trema, ride e piange, insieme.

— Sei venuto... sei venuto, amore mio!

— Non dovevo; non potevo; ma ti amo, ti amo. ti amo!

— Qui, qui, con me, sul mio petto, sul mio cuore...

Sono caduti, adesso, seduti sovra un gramo divanetto e si tengono abbracciati ancora: egli si guarda intorno, e scorge, a una scarsa luce, tutto