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tere: si torturano, come te, migliaia di combattenti....

Acconsente, col capo, Cesare Pietrangeli, alle ragioni vaghe, ma per lui convincenti, del prete: pure il suo volto spira tristezza.

— Sono tanti, a casa, che sanno scrivere.... Persino Bicetta.... Ma non scrivono! Don Giulio, noi stiamo con la morte sul capo, qui, e quelli ci dimenticano....

— Non dire così, Cesare, non essere ingiusto....

— Io sono tornato, otto mesi fa a casa — dice, lentamente, a occhi bassi, il popolano — non erano affatto infelici, i miei, mi parve: e nessuno mi sembrò infelice, fra i miei conoscenti: Roma era sempre la stessa.... Don Giulio, quelli del fronte interno, si sono assuefatti, senza noi.... Non si accorgono più della nostr’assenza, del nostro rischio....

Don Lanfranchi ascolta e per non dar ragione al popolano, cambia discorso:

— È il tuo Augustarello?

— Oh don Giulio, il mio pupo, il mio piccolo, come era sempre carino.... Lo volevano in quegli asili per bimbi, dove pare stiano a meraviglia.... mia moglie ce lo voleva portare, per nutrirlo meglio.... Io ho detto di no, di no!....

Silenzio malinconico, fra i due uomini.

— Perchè voleva levarsi il figlietto, mia moglie, ditemi voi, don Giulio? — vaneggia, un poco, l’infermo.

— Forse, per farlo stare meglio, Cesare.

— Il Aglietto deve stare con la madre. Non è il suo dovere, tenerselo?

— Sì — risponde il prete, senz’altro.

— Voi non andate a Roma, don Giulio?

— Eh no, Cesare mio, non per ora.

— Dovete tornare in su?

— Debbo tornare in su.

— Siete molto esposto, è vero?

— Abbastanza — risponde, semplicemente, il sacerdote.

— Si combatte sempre, è vero?