Mors tua.../Seconda giornata/II
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IL SANGUE.
II.
— Ascolti, ascolti bene, signor tenente! — avverte il caporale Costantini, dirigendosi al suo ufficiale, che è assorto a leggere e a rileggere una lettera.
— Che vuoi? È il cannone: gran novità! Non si sente altro — borbotta, infastidito, Guido Soria.
— Ma è vicino, signor tenente: non fu mai tanto vicino — soggiunge il caporale, che è attentissimo, a occhi bassi, quasi misurasse mentalmente la distanza.
— Tu credi, Costantini?... È vero, è molto vicino. Ma dove, dove? — e già la noia di Soria è scomparsa, già egli vibra di curiosità.
— A destra: molto alla nostra destra: ma assai più in alto di noi, — Ed è tutto teso, con la sua attenzione, il caporale marchigiano.
— A destra, in alto? Verso Strigno, allora. Gianni Scalese è in azione. Già, se lo aspettavano — mormora Soria, come fra sè. — Il movimento potrebbe svolgersi verso noi, ti pare, Costantini?
— Eh sì, sì — conferma, pacatamente, il caporale.
È la prima ora mattinale. Dopo un sonno profondo che gli danno la sua giovinezza e la sua buona salute, ad onta di ogni disagio, il tenente Soria respira l’aria, sulla soglia di quella che egli chiama la sua cabina. È una rozza costruzione, alta e stretta, messa su, alla meglio, quasi sull’orlo della trincea, dove il sentiero che vi discende, si abbassa e quasi vi si sprofonda, sentiero lastricato di fango rappreso, di pietre mescolate al fango e di assicelle, che erano ben disposte e che i piedi umani hanno disgiunte e quasi disperse. La cabina è stata costruita con certe larghe tavole grezze, mal piallate, disuguali, tenute insieme da bulloni, da grossi chiodi irrugginiti, da spranghe di ferro: essa si deve all’opera ingegnosa e paziente del caporale Costantini e del soldato Franceschi, che è, poi, il vero attendente di Guido Soria. Il letto è una vecchia branda, con un grosso e largo sacco pieno di paglia, che forma materasso: un rotolo di stoffa, cioè un vecchio mantello lacero, è l’origliere. Con altre assicelle e qualche piuolo, sono stati formati un tavolino, una panca, uno scaffale: qua e là dei pezzi di tela cerata covrono il legno: anche dei fogli di giornali sono stati adoperati, per riparare, per nascondere.... Seduto, sulla soglia di questo suo ricovero, il tenente Soria osserva tutti i movimenti dei suoi uomini, delle sue «talpe», poichè essi debbono per forza passare innanzi a lui, per entrare, per escire. Ora mattinale, in cui questi uomini, che sono ridotti come talpe, appariscono, a due, a due, quatti quatti, guardandosi bene intorno, fissando bene gli occhi lassù, lassù, dove la collina si va innalzando, e quasi addossate a una fitta boscaglia, vi sono le trincee nemiche. Gli uomini di Soria camminano cauti, curvi, scendendo nelle valletta, allontanandosi, verso una piccola ma perenne sorgente di acqua: e bevono con la faccia nell’acqua: e si lavano la testa, il collo, le braccia nude: alcuni lavano una camicia sporca, risciaquano un sudicio fazzoletto: qualcuno, col dorso nudo, si rotola nell’erba umida.... E quelli che aspettano il loro turno, in trincea, brontolano, bestemmiano in tutti i dialetti, pestano i piedi. Seduto per terra, con le spalle appoggiate alla nera parete della trincea, il soldato Franceschi ha già strofinata e resa Brillante la pistola di ordinanza del suo tenente; sebbene il fantaccino disdegni quest’arme di parata, che non è buona a niente. Adesso Franceschi è preso tutto, occhi acuti, bocca stretta, mani ora lente e ora agili ma sempre precise, a lustrare il suo fucile, oggetto delle sue più tenere simpatie e delle sue più amorose cure. La persistente umidità della trincea, le pioggie, la belletta, intaccano continuamente la sua arma prediletta: e poichè si è in ozio, Franceschi vi passa, intorno, delle ore, fra un cumulo di cenci, unti di grasso.
— Scende, scende da Strigno, la cannonata: ed è un grosso attacco — avverte, di nuovo il caporale Costantini, che è sempre mezzo fuori dalla trincee, in ascolto, in vedetta.
Il tenente Soria scatta: prende il suo cannocchiale, viene fuori, tutto quanto, all’aria libera: Franceschi lo segue, quasi attaccato alla sua persona, dopo aver imbracciato il fucile, e tutti tre, stretti insieme, vanno dietro due grossi tronchi d’albero, che li celano al nemico. Il nemico è tranquillo e tacito, sotterra, come essi sono: ma è poco lontano: e il fante Franceschi, che si è già battuto, tre volte, in altri posti, in piccole e in grandi azioni, fissa i suoi acutissimi occhi, su quell’orizzonte deserto, ma infido:
— Perdiana, come cresce il bombardamento! — esclama il caporale Costantini.
Difatti, il cupo fragore si fa sempre più vasto, più profondo, con echi rimbombanti, lontani e vicini, che si raddoppiano, che si moltiplicano. Talvolta, pare proprio che lo stridore lacerante, che precede lo scoppio della bomba, sia a cento passi: e sembra, oltre la boscaglia, là, là, che l’orizzonte già si oscuri di fumo.
— Che non si debba far niente, niente? — ruggisce, a denti stretti, Guido Soria.
— Tenente, vi è un nemico, lassù — dice, piano, il fante Franceschi.
— Dove, dove?
— Guardi bene: a sinistra, in alto, ove sono tre alberi in gruppo.
— È vero, è vero, è un austriaco, è venuto fuori dalla trincea, anch’esso! — dice Costantini.
Guido Soria ha puntato il suo occhialino: vede perfettamente l’austriaco, che è alto, snello, e sembra un ufficiale, poichè non gli si scorge fucile. È voltato verso sinistra, scrutando l’orizzonte e il suo viso non si può scorgere. Il soldato Franceschi ha subito afferrato il suo lucentissimo fucile e interrogaci suo tenente, con voce sorda:
— Sparo?
— Sei matto? — gli grida Costantini. — Se spari, vengono fuori gli altri.... e non abbiamo ordini....
— Che dannazione! — bestemmia Guido Soria, sempre puntando l’occhialino sull’austriaco.
Ora costui si è girato: è di faccia. Guido Soria distingue, adesso, un viso chiaro, e, gli sembra, senza baffi: qualche cosa brilla, ogni tanto, al colletto, forse un ricamo di argento, ma tutto questo è indistinto, per la distanza, malgrado la potenza del cannocchiale di Soria. L’austriaco, imperterrito, fa qualche passo innanzi e indietro.
— Perchè non posso sparare, su quella canaglia? — esclama piano ma concitato, il fante Franceschi.
— Non si può! — ribatte il caporale, con fermezza.
— E se lo ammazzassi io? — prorompe il tenente Soria, tendendo macchinalmente le mani, verso il suo fante Franceschi, per prenderne il fucile.
— Signor tenente, per amor di Dio, viene un disastro, pensi ai suoi uomini... — protesta, con emozione, il caporale Costantini.
Ma il fucile di Franceschi è già nelle mani di Guido Soria, che si volge, lento, preciso, per mirare, per sparare, contro l’austriaco. Ma costui non vi è più: è scomparso, sotterra; è sprofondato. E l’orizzonte è deserto.
— Dannazione, dannazione! — bestemmia, rauco di collera, il tenente Soria, che butta via il fucile: Franceschi lo raccoglie al volo, stringendosi al petto il suo lucidissimo arnese.
Cannoni, bombe, mitraglia, un clamore che assorda, che toglie la parola, che mozza il fiato, e i tre uomini, confitti al suolo, quasi son pietrificati: e nulla più esiste, per loro, dietro quegli alberi, che quell’immane bombardamento... Adesso, vi è un rallentamento che si prolunga: Guido Soria chiede al fante Franceschi, con voce trepidante:
— Tu sei stato molto in combattimento... puoi distinguere, forse... puoi distinguere, la voce nostra?
— Sì... Forse... se mollano per qualche minuto, ancora... Quando ricominciano — risponde, assorto, il fante; poi si distende a terra, con l’orecchio sulle zolle. Di nuovo, un altissimo scoppio: cannoni, bombe, mitraglia...
— Questo è nostro, è nostro, è nostro — grida, da terra, il soldato Franceschi, caprioleggiando per la gioia.
— Ah! meno male! — sospira, profondamente, il tenente Soria.
Rientrano: ma non hanno requie. E nessuno ha più requie fra gli uomini della trincea, ove è Soria, vi è un continuo muoversi, andare e venire, un parlottare, testa contro testa, in tre, in quattro, qualche grossa risata, qualche disputa puerile che finisce in borbottìo, mentre continua incessante il bombardamento, intorno a Strigno. E poichè, regolarmente, di distanza in distanza, scendendo verso la valle, vi sono altre trincee italiane, si sente, sotterra, quel rumorìo, quel calpestio confuso di persone e di voci, quell’agitazione umana, venuta dall’aspettativa di un fatto di guerra, oggi, stassera, domattina, ma è prossimo, è vicino, è imminente... Soria non può star tranquillo, nella sua cabina: tre, quattro volte, è sceso giù, fra la sua gente, dove il previggente caporale Costantini va esaminando minutamente gli uomini, le loro armi, le loro munizioni, la riserva di alimenti: non parla, nulla dice, Soria, ma nel suo volto contratto, è la espressione di chi sta per toccare una mèta agognata e ha il tremolio estremo della cima raggiunta. Tre o quattro volte, egli è anche escito di trincea, per esplorare i dintorni, l’orizzonte, per vedere se qualcuno compaia, con notizie. Arrivano, solo, dal fondo della valle, gli uomini che portano il rancio, fermandosi di trincea in trincea, e dicono che, lassù, in quella punta della Valsugana, da Susegana a Strigno, è impegnata una grande azione, ma non si sa bene, ancora, quali sieno le sorti.
— Ma qui, che facciamo, che facciamo? — grida Guido Soria.
— Eh, non vi rincresca di aspettare! — sogghigna colui che comanda gli uomini del rancio. — Ce ne sarà, stassera, domani, anche per voi... — e se ne va, scrollando le spalle, indifferente.
Soria trema di ansia e di gioia, come uno sposo che conti le ore che lo separano dalle sue nozze. Già ha fatto raccogliere le sue robe in due cassette di ordinanza, da Franceschi: già si guarda intorno, come per salutare, come per distaccarsi, da quel misero ricovero, ove ha passato dei giorni così lunghi, cadendo, a poco a poco, in un esoso torpore morale. Ora, è pronto a marciare, a battersi, a uccidere, a morire: pronto. Il pomeriggio declina: egli è, di nuovo, fuori di trincea, non potendo stare più fermo, non respirando, in quell’imbuto, ove è collocato il suo rifugio. Pure, il bombardamento pare che ceda: e, a Soria, si stringe il cuore, di collera e di tristezza. Il fante Franceschi, anche lui, equipaggiato per escire, affezione, lo segue come un’ombra. Sì, sì, il bombardamento è molto diminuito. Soria guarda il suo soldato, che lo guarda: e uno scoramento è nello sguardo dell’ufficiale, mentre il fante si stringe nelle spalle e borbotta non si sa che.
— Ecco l’austriaco, di nuovo, signor tenente — dice il fante al suo ufficiale, e sono ambedue appoggiati e nascosti da una roccia.
Guido Soria sussulta, bestemmia:
— Porca razza di vigliacchi...
— È quello di stamane, signor tenente: l’ha con noi: ci vuol provocare...
— Vigliacco, vigliacco, vigliacco! — grida Soria, folle di collera.
— Si guardi, signor tenente: mi sembra armato; si guardi!
Il fante Franceschi si addossa, tutto, alla roccia che è grigia e ove pare si unisca e si fonda il colore dell’uniforme italiana. Guido Soria, invece, non pensa a guardarsi: i suoi occhi sono torbidi, sinistri, sotto le sovracciglia aggrottate, tutto il suo viso ha un’espressione di furore concentrato. A un tratto, il fante Franceschi dà in un grande urlo:
— È armato!... Ha il fucile... Spari, spari, tenente, o lei è morto!
Un istante solo: e Guido Soria ha mirato, ha sparato, non un solo colpo, ma tre, quattro, sei, quanti ne ha il caricatore. A occhio nudo, l’austriaco ha vacillato, piegandosi innanzi e indietro; poi ha roteato su sè stesso, ed è caduto.
— È fatto — soggiunge, diventando subito tranquillo, il fante Franceschi, riprendendo l’amato fucile, che ha salvato la vita al suo tenente.
Una calda gioia precipita nelle vene di Guido Soria, il suo sangue giovanile: egli si sente ardere tutto, in plenitudine di vita: le sue guancie sono accese: i suoi occhi scintillano: e le sue braccia si tendono verso il suo fedele soldato e se lo stringe al petto, il fante Franceschi, che è contento e commosso di tanto slancio. Guido Soria si guarda intorno, per scorgere che cosa sia accaduto, dopo il suo strano duello con l’austriaco: nulla si scovre. Il cannone tuona, ancora, sebbene più fiaccamente. Esso ha coperto lo scoppiettio secco del fucile. E lassù, verso quella cortina di alberi, si vede, a occhio nudo, un mucchio, per terra: l’austriaco caduto.
— Va a prendermi il cannocchiale, Franceschi.
Il soldato è tornato, col cannocchiale. Adesso, aggiustatolo bene, Guido Soria ha sotto il suo sguardo, l’austriaco, il suo nemico, che egli ha colpito mortalmente, e, forse, è morto: e gli sembra di vederne sovra un braccio piegato, il viso bianchissimo, come esangue e gli occhi aperti, spalancati. Gli sembra. La distanza è grande: il cannocchiale, anche possente, può ingannarlo. Guido Soria aspetta dieci minuti, venti, riprendendo sempre il canocchiale. L’uomo è lì, o gravemente ferito, o morto. Ma nessuno è escito di trincea, a soccorrerlo. E lentamente Guido Soria, si sgranchisce le gambe, con un moto di soddifazione fisica, respira largamente, va, va, verso la sua trincea, verso il suo ricovero, con un passo leggero, con un sorriso sulle labbra: e non si accorge che parla a sè stesso:
— Debbo scriverlo al nonno... il nonno sarà così felice, così felice...
Più che felice, ebbro egli è, in quella sua miserabile cabina, che gli sembra così angusta, a contenere la sua ebbrezza. Vorrebbe parlare, narrare, gridare il suo inebbriante evento, a qualcuno, a molti: ma è solo, adesso. Il suo fante Franceschi è andato incontro al postino, che porta lettere e giornali a ufficiali e a soldati. Freme, Guido Soria, non solo nell’anima, ma nei nervi, nei muscoli, freme del fremito bellico, nel violento desiderio di aver dinanzi un altro nemico da abbattere, venti nemici, cento nemici contro cui scagliarsi, insieme ai compagni, a cento compagni, tutti sospinti dalla stessa furia di guerra, e combattere, con tutte le armi, il fucile, la baionetta, la bomba a mano, la pistola, persino il pugnale degli «arditi» e colpire, e ferire, e sanguinare, e continuare, sanguinante, a ferire, a uccidere... Ebbrezza, ebbrezza solitaria!
— Scrivo al nonno. Che grande notizia, pel mio nonno!
Ma non può scrivere. È troppo turbato di gioia. Palpitante, esce due o tre volte di trincea, Guido Soria, e fissa il cannocchiale sul punto ove è caduto l’austriaco, che egli ha ucciso. Quel mucchio, che è un uomo, è sempre là: non si è mosso: non è stato soccorso: non è stato portato via. È lì: ed è morto, certamente.
— Benissimo, benissimo! — dice a voce alta, l’ultima volta che rientra in cabina, il tenente Soria. In nessun giorno della sua fervorosa vita, è mai stato tanto contento di sè stesso.
Cade il crepuscolo: è diventato debole, fiacco, il fragore del bombardamento. Ma vi è movimento, nella valle, da tutte le parti, lungo le trincee italiane. Una voce chiama Guido Soria; egli si scuote, viene fuori, si trova innanzi il capitano Dellara, che è a bicicletta, sporco, sudato, con l’uniforme a strappi, a larghe macchie scure, con le mani nere, graffiate a sangue; lo seguono due o tre altri ufficiali, nel suo medesimo stato pietoso. Guido Soria è sull’attenti.
— Buona giornata per noi, tenente Soria — dice con voce rauca e stanca, il capitano Dellara. — La quota di Scurelle, è nostra: anche la posizione di Val verde.
— Disperso, il nemico?
— Disperso; meglio, distrutto. Ma non è finita; torneranno gli altri. Sono così ostinati! Qui, siete pronti?
— Prontissimi, sempre!
— Bene. E quelli che avete di fronte?
— Come se non vi fossero.
— Badate che stanotte verranno fuori; forse, domattina. Vorranno fare un movimento verso voi, da questa parte. Questo volevo dirvi.
— Non passeranno, capitano.
— Bene. Vegliate. Avrete più precisi ordini, nella mattinata. Io, passando, ho avvertito tutti. Vado all’ospedaletto, sotto Strigno.
— Molte perdite, nostre?
— Molte, sì. Ai posti di medicazione e all’ospedaletto, vi è ressa. È la guerra, tenente. Ho perduto il mio povero tenente Gianni Scalese....
— Scalese? Scalese? — domanda, un po’ pallido, Guido Soria.
— Una bomba lo ha crivellato di ferite... È vissuto un’ora; ha chiamato la mamma, varie volte. Era un buon figliuolo. È la guerra! Addio, tenente Soria; si ricordi le mie istruzioni.
— Bene, capitano.
— Tenente Soria, in bocca al lupo, per stanotte, per domattina!
— Grazie, capitano Dellara.
Il piccolo gruppo si allontana, sparisce. La sera discende. A passi cheti, il tenente Soria ritorna nel suo rifugio. Adesso, come un velo bigio covre la sua vibrante gioia di guerra.
— Ha chiamato la sua mamma... — egli dice, a se stesso. E soggiunge, macchinalmente: — È la guerra...
È l’ora di chetarsi, di raccogliersi, di dormire, dopo aver dato tutti gli ordini necessarii; ed essersi accertato che sieno stati eseguiti. Dormire? È notte; bisogna dormire, perchè il risveglio sia rapido e l’uomo sia fresco di forze e pronto alla battaglia. Ma la notte non porta sonno a Guido Soria; egli non sente il bisogno di stendersi su quella branda sconquassata, su quel materasso di paglia scricchiolante, ove, pure, ha dormito i sonni profondi della giovinezza. Il suo stato di esaltazione continua, con un ritmo più pacato, forse, ma sempre tenendolo in fervore, non solo, ma nella più vivida attesa, di un più largo indomani. Questa è, per lui, una veglia delle armi. Un nemico ucciso, son poche ore, mentre voleva uccidere; altri nemici, domattina, che vorranno passare e che non passeranno. Perchè dormire? La notte è nera; ma l’alba sarà bella, fra poco. Del resto, non dormono, in quelle trincee, quella notte, che pochi neghittosi; e quel sussurro, quel tramestìo, che è cominciato, nel pomeriggio, seguita, sotterra, lungo tutta la vallata, che pare deserta. In qualche trincea, per vegliare, si ricominciano quelle interminabili partite a carte, al lume di un grosso candelotto; altrove, in un angolo, un soldato canticchia una canzone, smorzando la voce e attorno a lui, un piccolo gruppo ripete il ritornello... Veglia delle armi; qualcuno cerca nello zaino un pacchetto di lettere, e le rilegge, una per una, quasi compitando; qualcuno sta con gli occhi aperti, nell’ombra. Veglia delle armi; può significare tanti eventi diversi. Anche, può significare l’estremo evento; ma nessuno ne parla; qualcuno vi pensa, tacitamente; e molti cercano obliare, giuocando, ciarlando, cantando...
Notte nerissima; ma è essa, veramente tacita? Ogni tanto, all’imbocco delle trincee, vien fuori la persona di un ufficiale, perchè gli è sembrato di udir un calpestìo; qualcuno raggiunge le sentineile sparse, qua e là; ognuna di esse ha creduto di udir rumore ripetuto di passi; ha chiamato, nessuno gli ha risposto, il rumore è passato; qualcuno, anzi, ha sparato un colpo di fucile; è stato senza eco; e il silenzio ha regnato. E non aver riflettori che potessero illuminare la valle, di basso in alto, specialmente in alto, lassù, ove comincia la nera boscaglia! Anche Soria ha creduto che vi fosse movimento intorno, ed è saltato fuori, e ha camminato di qua, di là, ha parlato sottovoce, con qualche altro compagno, con qualche sentinella. Niente di sicuro: niente.
— Signor tenente, succede qualche cosa... — gli dice l’esperto, l’astuto fante Franceschi, che neppure dorme, quando rientra il suo ufficiale.
— Che credi, tu?
— Non lo so. Ma qualche cosa vi è, intorno...
— Aspettiamo, aspettiamo... — risponde Soria, invocando l’alba con tutto il suo desiderio.
È all’alba che le piccole pattuglie, quattro o sei uomini, vanno esplorando cautamente i dintorni; si allontanano, dal loro graduato, in tutte le direzioni. Tardano. Il sole è apparso; nessuno torna ancora. Febbrile impazienza. Poi, di mezz’ora in mezz’ora, questi esploratori ritornano alle loro sedi; e il loro rapporto è sempre eguale. Il nemico è sparito dalla valle; se ne è andato via, nella notte, con una immensa cautela, quasi a passi feltrati, come un fantasma, lasciando vuoto il suo trincerone, le sue trincee, risalendo la collina, per ritornare, certo, verso Strigno, per cercare di riprendere, da un altro lato, la grande posizione perduta. E gli italiani non hanno più nemici, davanti; sono soli, in quel posto avanzato, dove non hanno fatto, per mesi, che la guardia, niente altro... Anche Costantini è tornato: medesimo rapporto a Soria, trincee nemiche vuote, belle trincee, in cemento, nientemeno, e roba buona, anche, da raccogliere, lasciata così, da questi nemici, così ricchi, così bene equipaggiati. Soria è, di nuovo, invaso dal furore nella notte, questa gente maledetta, è partita, è fuggita, impossibile seguirla, ora è lontana, chi sa dove, o si sa, verso Strigno e, qui, non vi è, come sempre, nulla, nulla da fare!
— Almeno, io, Costantini, ne ho mandato uno all’altro mondo! — esclama, impetuoso, Soria.
— Sì — dice il caporale. — È lì, morto. Siamo passati poco lontani.
— Sai che voleva uccidermi, Costantini?
— Non era armato, tenente — risponde, piano, il caporale.
— Come lo sai? Hai visto bene?
— Ho visto bene. Non era armato. Accanto al cadavere, vi è un frustino; e, più in là, una macchinetta fotografica.
— Ah! — esclama, senz’altro, il tenente Soria.
Poichè tutti hanno saputo che gli austriaci sono spariti, come spettri, vi è apparizione continua di uomini, che escono di sotterra, a respirare, a vedere il sole, a muover le gambe, a fumare all’aria libera. Pare una grande scuola in ricreazione. Ma di lassù, dall’altra parte, scendono soldati e ufficiali, che vengono dai posti dove si è tanto combattuto, tutto il giorno prima e poi si è vinto, disperso, messo in fuga il nemico. Si fermano a narrare, ai compagni, i casi della giornata; e il ritornello è sempre:
— Si è vinto, magnificamente; ma quelli sono scarafaggi, ripullulano, tornano: e noi li schiacceremo novellamente...
Ecco che Guido Soria ha scorto un gruppo di portatori di barelle, che viene via, che, forse, va al riposo, per qualche giorno. Ecco Fratta, con la sua branda a tracolla, la sua nera pipa fumante e quel suo aspetto stanco e stracco.
— Fratta, Fratta, vieni qui! — gli grida Soria.
— Che vuoi, Soria?
— Senti, senti, devi fare una cosa che mi preme.
— Che cosa?
— Andarmi a prendere un cadavere...
— Finiscila, Soria! Son trentasei ore che porto feriti e morti; è un mestiere che stronca... Non voglio crepare.
— Ne prendi un altro, Fratta.
— Ma che t’importa, di questo? Ti è fratello? Ti è amico?
— Mi serve — dice, senz’altro, Soria.
— Lasciami andare, Soria, non mi seccare, ne ho abbastanza, sai!
— A te il denaro piace, Fratta — risponde più sommesso, Soria, guardandolo fiso negli occhi. — Ti do dugento lire, se mi vai a prendere questo morto, che è mio...
— Ma dove è, perdio, questo tuo morto?
— Là, là — e gli addita, lassù, il posto dove giace morto, abbandonato, dal giorno prima, l’austriaco che egli ha ucciso.
— E sulla trincea nemica! Grazie; non ci vado.
— La trincea è vuota; è deserta. Ce l’hanno fatta; sono tutti scomparsi, stanotte, gli austriaci.
— Non hanno portato via il loro morto?
— Fortunatamente — dice Soria, a denti stretti. — Avean fretta. Ti do trecento lire, via!
— È lontano; sono stanco. Non ci vado.
— Cinquecento lire, Fratta!
— Ma tu sei pazzo, dunque! — dice, lentamente, il portatore. — Lo hai, qui, questo denaro?
— Lo ho qui. Portami il morto e te lo do.
— A un solo patto — replica, freddo, torvo, Fratta. — Che mi porto via anche il denaro del morto.
— Brutto pretaccio spretato! — prorompe Soria. — È dunque vero, che tu rubi i morti?
— Quelli sono morti! — sghignazza, selvaggiamente Fratta,
— Anche gli italiani, tuoi fratelli, tu derubi, pezzo di assassino?
L’altro guarda, con occhi biechi, e risponde con violenza:
— E vorresti che facessi questo infame mestiere, solo per obbedire alle canaglie, che mi ci hanno condannato? Vorresti che, se non ci schiatto sotto, torni a casa a morir di fame? Chi è morto, è morto....
— E eri prete, eri prete, tu?
— Così si vocifera.... ma è dicerìa vecchia, finita, finita! — e ride del più malvagio suo riso.
— Va, va, maledettissimo! — tronca, con questo grido, Soria, il turpe discorso,
Sotto i due grandi alberi, sul sentiero che porta alla limpida sorgente d’acqua, Fratta e il suo compagno, hanno deposto il cadavere del giovane austriaco: la testa è un po’ sollevata e appoggiata a un tronco. Gli occhi del morto sono restati aperti; sono di un color castano, poco più scuro del castano biondo dei capelli; il viso è sempre bianchissimo, ma già le ombre violacee, le ombre bigie della morte, scendono dagli zigomi sulle guancie, scendono sui lati della bocca. I lineamenti sono fini: l’espressione che va svanendo, in quelle ombre mortuarie, è calma. Sul suo uniforme, i ricami di argento al colletto dicono che era luogotenente di fanteria, Egli ha preso tre palle, una nel costato, due nell’addome. E i suoi panni sono intrisi di sangue, ma il sangue si è già disseccato sulla stoffa, Soria lo ha lungamente guardato, dappresso, curvo su quel corpo; rialzandosi, dice a Fratta:
— Chiudigli quegli occhi.
— È impossibile. È troppo tardi.
— Resterà sempre così?
— Già. Anche sotterra.
Il brutto dialogo finisce in un silenzio. Fratta consegna a Guido Soria un portafogli di cuoio bruno ove sono delle carte, un taccuino di raso azzurro cupo, ricamato, chiuso da un bottoncino che è una turchese, e la targhetta del nome del morto.
— È tutto? — domanda, seccamente, Soria.
— È tutto — risponde Fratta. — Se vuoi, puoi frugarlo...
— Non era armato?
— Non era armato,
— Proprio, non era armato?
— No; aveva un frustino e una macchinetta fotografica. Ha preso tutto il mio compagno.
Senza parlare, Guido Soria mette la mano in quella di Fratta, la sua palma covre il biglietto da cinquecento lire, che gli consegna e che, subito, Fratta stringe e nasconde nel suo pugno chiuso. Soria interroga con gli occhi il portatore, per una ultima domanda. Costui comprende, risponde pianissimo.
— Trecento corone. — Poi, soggiunge, sempre più a bassa voce: — Senti, io sono un ladro, un farabutto, è vero; a questo mi ha spinto, ridotto e condannato, questa vita di beccamorlo, che mi han fatto fare.... Ho preso il tuo denaro e quello dell’austriaco, ma io, Soria, il denaro, le carte, tutto quello che aveva Gianni Scalese, morto, addosso, non l’ho preso... Era un santo, Scalese; e io sono un mascalzone, ma io ho dato la sua roba al cappellano, capisci, perchè la mandi alla sua povera madre! Adesso, addio, Soria.
— Addio, Fratta.
Il portatore ha rifatto il rotolo della sua branda, ha acceso la sua bruna pipa e con un passò pesante e strascicato, se ne è andato, col suo compagno. Soria è solo, col suo morto. È in quel corpo esanime, che il suo furore di guerra, che la sua sete di sangue nemico, ha avuto una chiara e piena vittoria. Ancora una volta, egli mira quegli occhi che resteranno eternamente aperti e la cui tinta dolce, come è quella dei capelli, già s’intorbida; egli imprime nella sua memoria quei tratti, che già si mutano, si confondono. Scorge luccicare, sull’erba, nella mano destra, che vi giace abbandonata, qualche cosa di brillante; è un anello d’oro, una fascia piuttosto larga. Si china, solleva quel braccio pesantissimo, quella mano rigida, e, a stento, può togliere l’anello dal dito dell’austriaco, che egli ha ucciso. Così, adesso, Soria ha tutte le sue spoglie, segni tangibili della sua vittoria. E si volta, ancora, a guardarlo, come a salutarlo, tornando verso la sua trincea, verso il suo ricovero. Qui è il caporale Costantini, insieme al soldato Franceschi; il graduato pare preso da un pensiero, sollevando gli occhi sul tenente Soria. Poi, dice:
— Signor tenente, consente, lei, che noi diamo sepoltura a quel morto?
Guido Soria trasalisce alle parole pietose del caporale Costantini; e lo guata, torvo; ma reprime il suo impetuoso moto di collera.
— E dove mai vuoi sepellirlo?
— Sa bene... in quel cimiteretto, che è dietro la chiesetta di Valdivia... È poco lontano; andiamo Franceschi e io, dopo pranzo, quando vi è l’ora di libertà. In quel cimiteretto, ve ne sono altri, di soldati, sepolti...
— Ma sono italiani!
— Eh, oramai che egli è morto, la inimicizia è finita — osserva, con una certa malinconia, il caporale. — Dicono i sacerdoti, nelle loro prediche, che tutti i morti per la patria vanno in Paradiso... Anche costui, allora, vi andrà, perchè è morto per la sua patria austriaca.
— Va — tronca, bruscamente, il dialogo, il tenente Soria.
Il caporale Costantini è rispettoso, ma tenace. Ha da aggiungere qualche cosa:
— Lei, poi, domani mi darà il nome e il cognome del morto. Io li scrivo, a grossi caratteri, con un inchiostro che non si cancella, sovra una targhetta di legno; e attacco la targhetta alla sua croce.
— ....
— Se qualcuno, dopo, vuol ritrovarlo, questo morto, capirà, così, lo ritrova.
— Qualcuno?
— Avrà qualcuno, costui, in Austria, che gli vuol bene, che lo piangerà, che ne ricercherà la fossa. Tutti hanno qualcuno, tenente.
Il singolare dialogo è finito.
Il colonnello Carmelo Galatioto, il siciliano taciturno, dalla fisonomia quieta e dagli occhi nerissimi che ogni tanto sfavillano, depone il foglio che ha Ietto all’ufficiale, il quale è in piedi, dinanzi alla sua scrivania. È il capitano Camillo Moles, in cui amici e conoscenti che non lo rivedono, da circa tre anni, che non lo hanno mai incontrato, nelle sue fugacissime riapparizioni in Roma, non ritroverebbero la caratteristica fisonomia di colui che era stato, in Roma, nell’alto professionismo forense, una lucida mente, una parola limpida, appassionata e travolgente. Tutto è mutato, nel capitano Camillo Moles; la sua persona che ha perduta ogni traccia di pinguedine, fattasi magra, pare più alta ed è più agile; ogni suo gesto è sobrio ed è corto; il suo passo è cadenzato, militaresco; nel viso non vi è nè gonfiezza nè pallore, le linee sono angolose, quasi taglienti, sotto la carnagione olivastra; la bocca pare si sia adattata al silenzio, e il fluido sguardo, ove era tanto fascino, è torbido, senza espressione. Egli porta bene l’uniforme e non manca di una severa eleganza, che l’altro Moles non ha mai avuta.
— Mi pare, capitano Moles, che quest’ufficio a cui ella è destinato, non le convenga? Parli liberamente.
— Infatti, colonnello, non mi conviene, — risponde, breve, l’ufficiale che è sempre ritto, innanzi al suo colonnello.
— Giudice al Tribunale di Guerra, in Napoli — soggiunge il pacato siciliano — Chi non l’accetterebbe, dopo tanto tempo passato al fronte?
— Io, no, colonnello — replica, deciso, l’altro.
— Non era avvocato, lei, capitano Moles, prima della guerra, in Roma?
— Ero, sì.
— Ed era avvocato eminente, lo so.
— Dicevano...
— Avvocato, giudice, sono ufficii somiglianti. La sua antica professione non l’attira?
— Preferisco quella che faccio — ribatte, deciso, il capitano.
— Ella è stato sempre al fronte, mi pare?
— Sempre.
— E ha, credo, partecipato a varie azioni importanti?
— Non sul principio, colonnello: ho sopportato un lungo periodo d’inerzia. Poi, più tardi, mi è stato dato di battermi contro l’austriaco. Sono stato anche in Francia e mi sono battuto contro i tedeschi.
— Veggo, qui, nell’incarto, due ottime citazioni: è, anche, in corso, una medaglia — riprende il colonnello Galatioto. E insiste.
— Roma e Napoli sono vicine. Non ha famiglia, lei, capitano?
— Sì, ho moglie — risponde, freddo, il capitano Moles.
— In Roma, è vero?
— Essa viaggia, spesso. Adesso è a Rapallo, sebbene si sia in primavera...
— Niente figliuoli?
— Niente.
— E di casa sua?
— Mia sorella, una sola sorella. Mi sono incontrato, con lei, ultimamente, a Treviso. Era venuta a cercare il capitano Falcone, suo marito. Ha trovato solo me.
Una pausa di silenzio.
— Nessun affetto di famiglia, e nessun interesse di professione, adunque — riprende il colonnello Galatioto, fisando negli occhi il capitano Moles — possono indurla a rientrare in casa?
— Nessuno. Io chieggo di restare al fronte. E lei, colonnello, mi accontenti, chiedendolo per me.
La voce di Camillo Moles si vela, quasi in espressione di desiderio vivo.
— Bisognerà che io faccia un rapporto favorevole, al suo rifiuto di rientrare, capitano Moles. Lo farò. Speriamo che «quei signori» comprendano la nobiltà del suo rifiuto. Tanta gente, qui, è stanca... è impaziente...
— Io non sono stanco: e sono paziente, colonnello.
— Lo veggo: e me ne compiaccio. Ma non mi fraintenda, capitano. Io non mi lagno dei miei uomini: molti, molti, ufficiali e soldati son come lei, non vogliono andar via, saldi, tenaci; vogliono aver vinta l’ultima battaglia e aver disperso, anche gli ultimi nemici.
— Li vinceremo e li disperderemo, colonnello! — si esprime con impeto, improvvisamente, il capitano Camillo Moles.
— Certo, certissimo! E fra non molto, forse.
— Crede? Crede? — interroga, commosso, il capitano.
— Non vede, anche lei, i buoni indizii, da tutte le parti, le buone notizie, che ci arrivano? — si riprende e risponde, evasivamente, il colonnello Galatioto.
— Sì, sì, li scorgo anche io questi grandi indizii di vittoria finale! La sento venire! — esclama, concitato, l’ufficiale — Che sia presto distrutto l’infame nemico: e sieno vendicati i nostri troppi morti italiani,
Freme la voce del capitano Moles: e il colonnello non lo interrompe, perchè conosce questo stato di animo esaltato, in tanti suoi uomini.
— Ho vissuto giornate di sangue, giornate funeste, in un’aria di fuoco che mi soffocava, come in una bolgia d’inferno, colonnello — spiega, con voce roca di una crescente emozione, che invano cerca reprimere, il capitano Moles che è, adesso, diventato smorto — Non ero avvezzo al sangue, al fuoco, alla morte... Quanti, quanti, agonizzanti, attorno a me, che un’ora prima, un minuto prima, eran sani, forti, baldi, pieni di lieto furore e che cadevano, l’un sull’altro, trafitti, perdendo tutto il loro sangue, gemendo le loro ultime parole, vite falciate e disperse, in un’ora, in un istante...
Il calmo siciliano fa, con le mani, un cenno suadente d’inevitabilità.
— E la guerra, colonnello, lo so, lo so! Ma è, anche, nelle anime più semplici, pei cuori più umani, l’ira novissima che vi si forma, contro il nemico, è la maledizione che sgorga dal nostro cuore esacerbato, dall’anima nostra inorridita, contro il nemico, è una ferocia che c’invade, ferocia mai conosciuta, il piacere, la voluttà della vendetta, vedere scorrere il sangue nemico, vedere ammucchiati i cadaveri del nemico... È un solo istinto, colonnello: uccidere, per vendicare i nostri morti!
Come una valanga sono uscite le parole infocate, le parole ardenti, dalle labbra tremanti del capitano: e un furore fa balenare quei suoi occhi, che parevano spenti, un furore folle. Ancora fa un largo gesto di pace, il tranquillo colonnello Galatioto, per dominare l’agitazione del suo ufficiale.
— Lei ha molto sofferto, capitano Moles, perchè ha un’anima sensibile: ma lei è anche un buon soldato — gli dice, con un sorriso benigno, quasi affettuoso.
— Ora, non soffro più: il mio cuore è diventato un macigno, nel mio petto. Ma ardo, sempre, di vendetta... Si lasci, si lasci, al fronte, questo oscuro, ignoto, buon soldato — conclude, quietandosi, a poco a poco, il capitano Moles.
— Scriverò per lei. Non dubiti. Andrà qualche altro avvocato al Tribunale di Guerra di Napoli: e ne sarà, probabilmente, felicissimo. Come lei, a restar con noi!
— La ringrazio di cuore, colonnello. E, ancora, la prego, non lasci inoperoso, in questa città poco simpatica, questo suo buon soldato, come mi ha chiamato. Non mi risparmi. Nulla mi sembrerà duro o difficile. Voglio servire, colonnello!
— Bene, bene; ci conti, capitano Moles.
Il capitano Moles si è ricomposto, saluta, si allontana, esce nelle vie della città conquisa, che era austriaca e austriacante, anche prima della guerra, odiando mortalmente gli italiani. Anche nella larga via principale, vi sono i segni di una occupazione, che ha fatto fuggire gran parte degli abitanti: molte botteghe sono sbarrate; poche, semiaperte; in pochissime, si traffica: movimento raro e fiacco. Molte case, sovratutto quelle più signorili, sono coi portoni chiusi e le finestre serrate: ad altre finestre, semiaperte, pende un pauroso e ipocrita vessillo tricolore. E la scarsa popolazione rimasta, o chetamente rientrata, acclama con enfasi precipitosa gli italiani, mentre impreca sottovoce contro i vincitori e spera pazzescamente nel ritorno dei vinti. La città formicola di spie: ufficiali e soldati vivono comodamente e con larghezza, nella città, ma in uno stato di disagio morale e di continua diffidenza. Ogni tanto, una presunta spia è afferrata e bastonata: altre volte la spia giunge a fuggire: le prigioni, poi, sono gremite di spie vere o false. Il capitano Moles si dirige verso un nobile palagio, disertato dai suoi proprietarii e dove egli occupa, tutto solo, un vasto e sontuoso appartamento: egli vi vive male, annoiato, preoccupato, in un ambiente che pare circondato da misteriosi pericoli, in una città piena di trabocchetti nemici. Non è, però, ancora giunto a casa, quando levando gli occhi, vede avanzarsi, con un passo ritmico, un’alta e snella figura di donna, tutta vestita di lutto. Accanto a lei, è un giovane ufficiale, biondo, in elegante tenuta di ufficiale del Genio. La donna si ferma, rigetta indietro il lungo velo di crespo nero, che pendeva dal cappellino e che le scendeva sino alle ginocchia: Camillo Moles riconosce, subito, Loreta Leoni. Le sue vesti sono di strettissimo cordoglio, ma ella è largamente scollacciata, con un vezzo di giaietto nero, sul bianchissimo rotondo collo: un grazioso cappellino nero, dall’orlino bianco vedovile, poggia sull’onda nera dei folti capelli. Il capitano Moles nasconde la sua sorpresa e, anche, un senso curioso di repulsione, per quelle tetre gramaglie, d’onde più spicca l’altiera e pur provocante beltà di Loreta. Si sbaglia, forse, Moles, o le labbra schiuse come un fior di garofano, sono tinte di rosso?
— Oh mio capitano Moles, come sono contenta d’incontrarvi! — ella esclama, con la sua penetrante voce, mentre gli stende una mano bianca e lunga, ove porta, all’anulare, una grossa perla nera, di gran valore, sovra un sottile cerchio d’oro.
— Come qui, signorina Leoni? — egli domanda, banalmente, mentre appena stringe la mano finissima.
— Di passaggio, di passaggio, verso il San Michele... ove è caduto il mio povero Carletto... — ella dice, senza nessuna ombra di emozione: e soggiunge, sùbito:
— Capitano Moles, presento il tenente del Genio, Aschieri, che ha la bontà di accompagnarmi, lassù...
Scambio di saluto militare, rigido, fra i due ufficiali. Il biondino del Genio, pare che si apparti dalla conversazione, guardando chi passa per la via: Loreta Leoni ha la sua mano sul braccio di Moles, rattenendolo:
— Voi eravate con lui, nella fatale giornata...
— Ero con lui, sì — risponde austero il capitano.
— Lo avete visto battersi, il mio diletto...
— L’ho visto battersi eroicamente, Carletto Valli — soggiunge sempre austero, Moles.
— Un eroe, un eroe, capitano Moles: sono vedova di un eroe, io, Loreta Leoni — ella esclama, con enfasi.
— Voi avevate sposato il tenente Valli? — chiede il capitano Moles e, poi, si pente subito della domanda, perchè sa il contrario.
Loreta Leoni dà uno fuggevole sguardo al biondo tenente Aschieri, che è volto dall’altra parte e, poi, risponde:
— No. Ma vale lo stesso. Porto il suo lutto. Lo porterò sempre... Eppure, perchè mai non ho potuto trovare la sua tomba? Perchè non fu raccolto e sepolto, Carletto? Perchè lo hanno dato per disperso?
— Una così orrenda giornata... tanti, tanti morti, signorina Leoni... — mormora Camillo Moles, preso dai ricordi luttuosi.
— Voi eravate lì, accanto, è vero? Voi lo avete visto cadere?
— Io ero accanto... io l’ho visto cadere... morente — soggiunge il capitano Moles, con profonda tristezza.
— Ah! — dice Loreta Leoni: e chiama: — Tenente Aschieri, avete udito? Il capitano Moles, ha visto cadere Carletto Valli... cadere, morente.
E la voce cantante della bella Loreta Leoni, pronuncia queste parole senza nessun accento, come se parlasse di un qualsiasi comune evento.
— Penso... pensiamo, capitano Moles — ella soggiunge, lentamente — che Carletto potrebbe essere vivo... disperso, è una parola incerta, vaga... tanti dispersi, ogni tanto, si ritrovano... vivi, prigionieri... Carletto potrebbe essere in Austria.
— No, Carletto non è in Austria: Carletto non è vivo — dice, rude, il capitano Moles, in cui lo sdegno represso, ribolle, un a tratto.
— Voi dite che Carletto, è morto? — soggiunge, tranquillamente, Loreta Leoni.
— È morto, sì — dichiara, reciso, Moles.
— Tenente Aschieri, il capitano Moles dichiara che Carletto è morto e che io posso chiamarmi la sua vedova — ella proclama, con un tono autoritario.
Il tenentino biondo del Genio, dall’uniforme nuova, fiammante, abbozza un sorrisetto di compiacenza un po’ ebete.
— Io vado al San Michele, capitano, di questo passo...
— Vi sarà molto difficile arrivarci, signorina Leoni — dice, freddissimo, l’ufficiale.
— Oh io ho tutti i permessi, tutti i salvacondotti: a me nulla si nega... Sono già stata una volta... Ci ritorno: m’inginocchierò su quelle zolle. Ci rivedremo al ritorno, capitano.
— Non so... non so se sarò ancora qui — egli dice, gelido — A ogni modo, mi riverisca sua madre, quando ella sarà in Roma.
— Appena m’incontrerò con lei, capitano, le porterò i suoi saluti.
Ella scorge lo sguardo interrogativo dell’ufficiale e risponde, subito, scioltamente:
— Non abito più da tempo, con mia madre. La morte del mio Carletto, mi ha dato tutta la mia libertà di vedova.
— Ah! Sua madre sarà molto sola?
— Sì, è sola. Sarebbe stata anche sola, se Carletto fosse vissuto e ci fossimo sposati... Poi, mia madre è così religiosa, poverina...
E un tono di gentile compatimento, è nelle parole di Loreta Leoni. Il colloquio è finito. Loreta Leoni si allontana, tenendo accanto il biondo tenente Aschieri: con i suoi piedini lunghi e sdutti, nelle scarpette nere dalle fibbie scintillanti di giaietto, con le sue gambe alte e affusolate di Diana cacciatrice, inguainate nelle calze di seta nera, ella cammina col suo passo ondulante, in cui la sua fascinante persona, conserva tutte le sue seduzioni. Involontariamente, fermo al suo posto, il Moles la segue, con lo sguardo. Ella si è arrestata, un istante, a una frivola occupazione femminile: ha tirato fuori dalla sua borsetta uno scatolino di argento, che contiene il piumino della cipria e ritocca leggermente il suo bel volto. Poi, ripone tutto e riprende la sua strada. S’inganna, forse, il capitano Moles, e Loreta Leoni con Aschieri, già un po’ lontani, chiacchierano e ridono? Forse che, al cantone della via, non si sono presi a braccetto? Il capitano Camillo Moles rientra in casa, in preda a un immenso disgusto: egli ha bisogno di silenzio e di solitudine, più che mai, per obliare le miserie nauseabonde dell’esistenza. E avrebbe, sovra tutto, bisogno di agire, per escire da un sordo tormento spirituale, di cui non si dà precisa ragione. Gli viene incontro il suo giovine attendente Emilio Martini, il vivace e verboso toscano. Ma il furbo soldato conosce, già, le ore cupe del suo capitano e non apre la bocca, per quel giorno, salvo a rifarsi, al più presto.
Ma, ecco, in quella mattina seguente del cadente agosto, il loquace toscano, servendo il caffè al suo capitano, non può stare zitto:
— Lo sa, signor capitano, che la sera scorsa, è stata felicemente acciuffata una spia?
— Un’altra? Ve ne sono tante, in prigione. Sarà una vera spia, questa?
— Altro che! Vera, verissima, che da tanto tempo, forse da tre anni commetteva, contro noi, le più negre infamie: e sempre sfuggiva, sempre scompariva, perchè era un’anima dannata....
— Una donna?
— Una giovanissima donna, una fanciulla, quasi, una figlia del demonio, un’austriaca venuta fuori dall’inferno, capitano!
. — E comò si è fatta prendere?
— Ah è stata una cosa sorprendente, una cosa che si legge solo nei romanzi! Lei sa che girano attorno alla città, in queste campagne, qui intorno, delle pattuglie nostre, che non solo sorvegliano giorno e notte le vicinanze, ma che cercano quelle famose vie sotterranee, che, si dice, passino sotto tutta la città.... Sempre pare che siamo minacciati di saltare, capitano!
— Non importa! Va avanti.
— Ebbene, una di queste pattuglie ha trovato, ieri sera, in un boschetto, coperta di pietre, di terra e di foglie, come una buca: una buca sospetta. Hanno chiamato altri uomini e hanno scavato, scavato per due ore: il passaggio è stato trovato, stretto, nero, soffocante, ma che penetrava... Andavano, a uno a uno, sempre avanti il loro tenente Mascia, abruzzese coraggiosissimo... A un tratto, una piccola luce lontana; poi una fioca voce, feminile che parlava, sommessa, in tedesco... Era questa scelleratissima ragazza austriaca, innanzi a un telefono sotterraneo, che era in comunicazione, con un campo austriaco, verso Borghetto...
— Era sola?
— Solissima! Quando l’hanno accerchiata e legata, non ha gridato, non si è dibattuta: ma il mio amico e compagno Scalatelli, che era di pattuglia, mi ha detto che i suoi occhi gittavano fiamme, contro il tenente Mascia e contro i soldati! Anzi, per disprezzo, ha sputato per terra. Una bella ragazza, capitano: ma nessuna spia più schifosa di questa.
— La conosco: ha ucciso un mio amico — dice, pensoso, il capitano Moles.
— Tanti, tanti altri per lei sono morti, Satanasso di un’austriaca! Le faranno presto, la festa, a questa carogna, io credo? Io ci voglio essere, capitano...
È nel pomeriggio del medesimo giorno che Camillo Moles, è chiamato dal colonnello Carmelo Galatioto, nell’ufficio del Comando.
— Capitano, buone notizie, per lei. Le è concesso di restare al fronte, sino alla fine... Intanto, ho un incarico delicato e forse penoso, da affidarle. Ella mi avea chiesto, è vero? di valermi della sua opera, in qualche circostanza straordinaria.
— Sono ai suoi ordini, colonnello.
— Quella giovane donna, una ragazza austriaca, Franziska Kroll, che ci ha teso tanti tranelli e ci ha fatto tanto danno, è, infine, stata sorpresa e arrestata.
— ....
— Presa in flagranza. Franzizka Kroll, mentre, nel sotterraneo, l’altra sera, comunicava col nemico, con un suo telefono, non vi è bisogno di farle un processo...
— ....
— Ce ne libereremo domattina, all’alba, fuori città, in contrada Nerelle: forse ella conosce, capitano, il posto o se lo farà indicare. Lei vi si trovi verso le sei, col plotone di esecuzione. La spia vi sarà condotta da altra via, scortata dal tenente Mascia, coi suoi uomini. È una cosa da compiere in silenzio e rapidissimamente. Lei non ha difficoltà?
Il colonnello Galatioto guarda fiso l’ufficiale, che è a lui davanti: il capitano Moles solleva il suo sguardo diritto, espressivo, annuente, verso il suo superiore: e annuisce, anche, con un cenno energico del capo. Non un motto è escito dalla sua bocca. Ma il suo fermo e chietto consenso, è chiaro.
— Si scelga dei soldati di provato coraggio e bene disciplinati. Se li scelga uno per uno: lei, certo, li conosce bene, i suoi uòmini. Non tutti, forse, possono aver voglia di fucilare una donna.
— ....
— Per me — riprende il colonnello Galatioto, lentamente, a occhi bassi, come se parlasse a sè stesso — una donna che trama, che complotta, che combina e tende agguati mortali, che adopera tutto il suo malvagio potere, per trarre a morte altri uomini, altri cristiani, anche se nemici; e si nasconde, e fugge, e gongola di una gioia infernale, quando sia stata causa di strage, e canta, e ride e si beffa dei morti e dei vivi, non è una donna, è una bestia malefica. Dove si trova, bisogna abbatterla.
— Abbatterla! — dichiara, a un tratto, forte, il capitano Moles.
— Non tutti la pensano come me e lei. Scelga, scelga bene i suoi soldati. Essa deve finire di mordere e di uccidere col suo morso. Essa deve esser punita come ha peccato. Mi si era suggerito di fare questa esecuzione con molta pubblicità, per sgomentare le altre spie, che ci accerchiano, in false vesti di amici. Ho preferito il mio parere: in silenzio e in segreto. Siamo italiani. Puniamo l’infamia di Franziska Kroll, con la morte. Unirvi la teatralità, sarebbe crudele.
— È giusto, colonnello.
Questa è l’ultima parola di consenso del capitano Moles, che si congeda e si allontana. È assorto, per la via, nella sua ricerca mentale, per raccogliere, uno per uno, i suoi uomini, che non esitino, che non tremino, nel mirare, nello sparare, dodici fucili, dodici fucilate, contro una donna. In sè, ne fa una piccola nota, che va aumentando, ma non raggiunge il numero necessario. Ha molto vissuto fra i suoi uomini e li conosce bene: se pure molti di essi sono valorosi e disciplinati, accesi dalla passione di guerra, ve ne sono che non vorrebbero far da carnefici a una donna. Il caporale Lorenzi, a cui passa questi ordini, un romagnolo, ottimo soldato, seriissimo, resta egli stesso muto, quando il suo capitano gli chiede di aiutarlo, in questa scelta.
— Avrei scelto i tali — e li nomina, Moles. — Ma me ne mancano varii.
— Comprendo, capitano — dice, Lorenzi, perplesso. — Non è ufficio allegro. Una donna... una donna...
— Che importa, Lorenzi! — esclama, irritato, Moles. — È stato flagello, per noi, costei.
— È vero. Non tutti lo sanno.
— Lo direte: direte tutto, tutto.
— Lo dirò, capitano. In ogni caso, bisognerà unirvi quattro o cinque soldati sanguinarii...
— Sanguinarli, Lorenzi?
— Lei sa che vi sono soldati teneri come feminette e soldati che sono abituati al sangue... anche da prima: e dopo, in guerra, hanno seguitato... Costoro spareranno volentieri sulla donna, capitano.
Moles guarda, accigliato, il caporale Lorenzi. Ma non dice che questo:
— Domattina, all’alba: si va in contrada Nerelle.
Non altro. Il capitano Moles rientra presto, in casa, poichè deve levarsi prima dell’alba. Il suo attendente gli è intorno, ma non osa chieder notizie, vedendo l’umor nero del suo ufficiale e comprendendo, però, dai secchi ordini che vi è, sotto, qualche cosa che riguardi la spia. Egli sparisce subito, rinviando alla mattina qualche timida dimanda. Moles non va subito a letto: passeggia, lentamente, dalla sua camera al salone del palazzo patrizio, fra i mobili di broccato cremisi, dalle cornici dorate: passeggia per calmare l’ira che si leva nel suo animo, di fronte alla inane pietà che sente palpitare, intorno a sè, per Franziska Kroll, la creatura di frode, di agguato e di morte: passeggia e rammenta, ai primi tempi di guerra, la bella, impetuosa, figura di Massimo Capece, figura ove la nobiltà dell’antico sangue, si univa a un alto valore personale. Massimo Capece che avrebbe voluto combattere e cadere in un’aperta e clamorosa battaglia, ed era scomparso, per Franziska Kroll, in uno stupido e tragico tranello, non si sa dove, misero cadavere insepolto, ceneri portate via dal vento, in un paesaggio senza nome. E rammenta, Camillo Moles, come se fosse accaduto ieri, quella ricerca affannosa, negli orridi campi di Mettler, e la figura bizzarra e attraente della piccola spia, una giovinetta, quasi, apparente e sparente nella nera boscaglia e ha, l’ufficiale, nelle orecchie il suo canto sottile, trillante, come quello di un’allodola al mattino, e il suo riso beffardo, stridulo, come un malvagio uccello di rapina. Franziska Kroll, assetata di sangue, vampiro, vampiro! Ha passeggiato, Camillo Moles, più di un’ora, avanti e indietro, e il suo sdegno si è sedato, nel suo animo e il suo cuore si è anche più irrigidito, nel suo petto, come un ordegno di acciaio, su quello che è il suo implacabile dovere, la punizione di questo mostro umano. Adesso, egli è a letto ed è sommerso in quel sonno duro, di cui egli dorme, ogni notte, senza un sol sogno, da che il costume di guerra si è inciso e si è profondato, in lui. Ma come le ore della notte si fanno alte, egli entra in un leggiero dormiveglia, in cui il sogno compare e ondeggia e palpita, e si fa vita... Non è, colui che sogna, Camillo Moles, l’avvocato dei grandi delitti passionali, in una indecisa quasi fluttuante aula di giustizia, l’avvocato di tre anni prima, che deve difendere, con una irresistibile eloquenza, una donna colpevole, una straniera infame? Elia ha ucciso per il frenetico amor patrio... Ma la marziale, aerea figura di Massimo Capece si delinea, con un volto triste, tradito dalla sua mala sorte di guerra, ed ecco, si dilegua, sparisce: e, invece, è l’amico fidato, il malinconico tenente Paolo Sambucetti, che annoda il suo fazzoletto, sulle zollette intrise del sangue di Massimo Capece: un grido traversa il sogno, ed è quello del caporale Martinengo, che maledice la spia austriaca, la vampira del sangue italiano, sogno, sogno, quasi realtà, incubo opprimente! Confusione d’immagini, di colori, di suoni: a traverso tutto questo, un canto lievissimo, che giunge a tratti, che viene come un’eco, da così lontano e non è, forse, la voce di Barberina Moles, e perchè mai compare, costei, in questo penoso sogno, col suo viso di brunetta procace, le turgide labbra schiuse e protese al bacio e il morbido, tiepido corpo voluttuoso, che vuole avvinghiarsi? Camillo Moles si dibatte, faticosamente, nel dormiveglia, per far dileguare il sogno: e le figure, infatti, svaniscono, ma altre vi si sostituiscono, cioè Magda, la sua scialba e pesante sorella, tutta vestita di lutto... Perchè, Magda è mai fasciata di cordoglio, col velo fitto che l’avvolge e la cuffietta nera con l’orlino bianco di vedova, mentre Mario Falcone par che salga, veloce e ardito, per una ripida erta, lungo una muraglia di roccia, a picco, e sembra che vacilli, che perda terreno, che precipiti a valle, in un burrone, in un abisso, donde sale, dal fondo, la voce leggiera di Barberina, che canta: Beau chevalier, qui partez pour la guerre.... Con un grido, Camillo Moles si risveglia, esce dal malo sogno, coverto di un sudore diaccio, coi sensi sconvolti e una profonda inquietudine. Ha bisogno di varii minuti per calmarsi, per mettersi, quieto, al suo singolare dovere di soldato.
Tutti i lumi sono accesi, mentre Emilio Martini aiuta il suo capitano a vestirsi: è ancora notte. Egli osa dire, a bassa voce, ma supplichevole:
— Posso venire, anche io? Mi faccia questa grazia.
— Non ti muoverai? Non fiaterai?
— Prometto!
— Vieni.
Sono, nella ultima penombra notturna, all’angolo della via, gli uomini che il caporale Lorenzi ha riunito, perchè gli ordini del colonnello sieno eseguiti: e giustizia sia fatta. Si dilegua, sempre più, la notte, ma è difficile scorgere i volti di quei fanti, sotto gli elmetti. Moles li squadra, a uno a uno, ma nulla può distinguere. Si va, nel silenzio della città che fu conquistata: e che dorme, oramai, come se fosse una lontana città del dietrofronte, perchè, colà, non ci si batte più: e il passo dei soldati non risveglia nessun eco, nelle vie lunghe e deserte. Dirige la marcia verso la contrada di Nerelle, fuori la città, in campagna, il caporale Lorenzi, che è pratico di quei paraggi: egli tace: tacciono anche i suoi fanti. Spesso, altre volte, costoro, marciando, parlottano, fra loro, in dialoghetti, ove il gergo militare primeggia: talvolta, si urtano, si sospingono, poichè non sono alla parata. Ma in quei primissimi chiarori dell’alba, costoro sembra che dormino ancora, poichè camminano come automi, senza schiuder labbro, volti senza espressione, occhi sonnolenti. L’attendente Martini si è messo in coda a questi suoi compagni; egli non è, come loro, armato di fucile, e porta le mani nelle tasche del cappotto. Il capitano Moles, che ha cinto la sciabola sotto il mantello, che ha riveduto le cariche della sua pistola di ordinanza, ogni tanto, di sotto la visiera abbassata del suo berretto, scruta l’andatura, il viso dei suoi soldati: nessun segno apparente di insofferenza o di stanchezza. Vanno. Forse, ogni tanto, delle palpebre si abbassano sugli occhi, come ad afferrare un resto di sonno. Vanno: sino a che un ordine breve del caporale Lorenzi li arresta: sono esciti dal folto del bosco di Nerelle, a una larga piazza, rada, fra i gruppi di alberi che la cingono e la nascondono a coloro che, più in là, molto più in là, potessero passare per la via maestra.
— È qui, Lorenzi?
— È qui, signor capitano.
— Siete certo?
— Certissimo. Ieri sera vi siamo venuti, col tenente Mascia che condurrà, qui, fra poco, la donna.
L’alba, adesso, è sempre più palpitante di argento, nel cielo nitido, sui frondosi alberi, sul gruppo di fanti che, alle spalle di Moles e di Lorenzi, si sono messi in linea di riposo. E tutto sembra delicato, in quella luce così limpida, così cristallina, nell’aria, nelle foglie degli alberi, nelle pietre della terra: anche i volti brunastri dei soldati, anche quelli più chiari, anche quelli pallidi, persino quello scarno e olivastro del capitano Moles, e il faccione toscano di Martini, acquistano una tenuità gentile di tinte, nell’alba dalle sfumature fini e fresche. Nessun rumore di passi, ancora, che indichi l’arrivo di coloro che scortano la condannata Franziska Kroll. Potrebbero, forse tardare? Tardare molto? E Moles si china a Lorenzi:
— Volessero fumare, gli uomini? Diteglielo che io lo permetto.
— Lo dirò — risponde il caporale e comunica, piano, il permesso, ai primi fanti: solo due o tre sigarette si accendono. Varii di quei soldati hanno lo sguardo rivolto verso il sentiero, che essi conoscono, donde la condannata e la sua scorta debbono giungere; e non distolgono gli occhi da quella parte, come fermi nell’attesa; i loro visi paiono indifferenti, ma la loro attenzione non si distrae, un solo istante. Gli altri, invece, ne torcono gli occhi; sembrano indifferenti, anche essi, ma rifuggenti dal guardare, da quella parte. Scalpiccio lento, cauto, misurato, dal sentiero, dirimpetto, che viene dalla città: appare il tenente Mascia, alto, ossuto, scarno, conducente la scorta: due file di fanti: poi, Franziska Kroll, con le mani legate dietro la schiena e accanto a lei, don Carlo Antici, un cappellano già quasi cinquantenne, dalla chioma precocemente bianca, che cammina, tranquillo, accanto alla giovine donna. Anch’ella, cammina con un passo securo ed eguale: veste una gonna di lana azzurro cupo, stretta e succinta, una camicetta bianca, molle, sotto una cintura’ nera: sui neri capelli, ricci, ha legato un fazzoletto di seta, a colori vistosi, ove dominano il giallo e il nero; calza un paio di stivaletti, dai tacchetti alti, civettuoli. È giorno pieno: e tutto ciò si scorge precisamente: persino qualche cosa che brilla al suo collo bianco e nudo, un ornamento di oro, forse una catenina, a cui è sospesa una crocetta. Adesso, tutti gli occhi sono fissi su costei che va, di passo in passo, coi suoi piedi mortali, alla sua morte, e non trema, e non esita: Franziska Kroll ha un viso bianco rotondo, una bocca florida, una bianca fronte, ove i capelli si levano, in una linea di riccioli scherzosi: tutto è giovanile, fresco, vezzoso, in questo viso femineo, salvo gli occhi bruni, fieri, sotto due sovracciglia nere, ben delineate, che aggrottandosi, spesso, danno una espressione malvagia a tutta la sua fisonomia. Il tenente Mascia fa collocare i suoi uomini, sul lato opposto a quelli di Moles, ma giusto dirimpetto: Franziska Kroll è condotta contro un albero: un soldato porta una sedia, ma la condannata fa cenno di rifiuto, col capo e il cappellano don Carlo Antici si curva a parlare col tenente, dolcemente: il suo capo canuto accompagna, con qualche gesto, la sua parola convincente. La sedia è portata via. Adesso, due fanti di Mascia, vogliono legare la donna al tronco dell’albero, cui è addossata, temendo che, rimasta sola, ella tenti fuggire. Come non ha voluto sedersi, ella non vuole esser legata all’albero, ella si agita, un poco; ella volge i suoi occhi supplici al cappellano, perchè le ottenga questa ultima grazia. Molto più difficile a ottenere, da Mascia, questa estrema concessione: egli è rigidissimo esecutore di ordini: don Carlo Antici, calmo, suadente, insiste, poichè non è possibile, in alcuna maniera, che la condannata fugga. Il tenente Mascia, infine, cede. Tutta questa scena è seguita, dall’altra parte, con una intensa attenzione, dal capitano Moles, dal caporale Lorenzi, dai fanti. Nessuno sguardo si distrae, un solo istante. Adesso il sole è sorto, alle spalle del plotone di esecuzione e i suoi primi raggi vanno alla condannata, alla sua scorta, al tenente Mascia. Il momento è giunto. Con un moto veloce e preciso, i soldati di scorta si sono divisi in due ali, lontane, ma che tolgono ogni via a un tentativo di fuga: innanzi a una delle ali, è il tenente Mascia, con la sua sciabola sguainata e lucente al sole. Adesso, Franziska Kroll e il sacerdote dai candidi capelli sono soli, contro l’albero: la donna s’inginocchia innanzi al prete, si toglie il fazzoletto di seta dal capo e si scorge la massa dei suoi riccioli neri: ella china la fronte: don Carlo Antici le mette una mano sulla testa, in atto di benedizione e leva il suo pallido volto sacerdotale, verso il cielo chiaro e puro. Poi, solleva la giovane da terra: le dà a baciare il crocifisso: ella lo bacia due volte, avidamente: a passo lento, il sacerdote si allontana e la sua bianca testa è china, sul petto e le sue labbra si muovono, in una preghiera. La donna è sola, ritta, contro l’albero. Balena, al sole, in un comando, la sciabola di Mascia: è il segno che egli dà al capitano Moles, che lo aspetta: e che, subito leva la sua sciabola, in un primo comando, al suo plotone. I suoi fanti mirano, in un moto preciso e unanime: Franziska Kroll leva alta la testa ricciuta e agita il suo fazzoletto di seta, ove sono i colori giallo e nero, austriaci: la sciabola del capitano Moles scintilla, in alto, al secondo comando e i soldati sparano sulla donna. La donna vacilla: poi cade, col volto in avanti e le braccia aperte. Tutto ciò è durato un minuto. Immediatamente, le due ali di scorta si chiudono sulla donna fucilata e su don Carlo Antici che è accorso.
Camillo Moles, ripone, lentamente, la sciabola nella guaina. Non un muscolo del suo viso, si è smosso: egli pare inchiodato sul suo posto, ove ha comandato, senza sgomento e senza pietà, la fucilazione di Franziska Kroll. Dal gruppo chiuso dei soldati di scorta, che si affaticano a una bisogna funebre, che è quella di mettere il cadavere della donna in un sacco, si distacca il tenente Mascia e viene verso il capitano Moles.
— Il colpo di rivoltella, nella testa, a colei, capitano Moles, non era necessario e non ve l’ho chiesto — egli dice, freddamente — Essa è morta fulmineamente.
— Io era pronto — risponde, il capitano Moles, toccando la sua rivoltella.
Ora, è il cappellano Antici che si avvicina, ai due ufficiali. Camillo Moles si volge, un po’ brusco, con voce rude, al sacerdote dalla chioma candida e dallo sguardo pieno di dolcezza.
— La donna ha confessato i suoi delitti?
Fa un cenno, semplice, di assenso, il cappellano.
— E voi l’avete assolta? — prorompe Moles, non sapendosi contenere.
— Non io, capitano. E Iddio che giudica, che punisce e che perdona — dichiara, pianamente, il cappellano.
Tacciono i tre uomini, in un silenzio penoso. Tutto il paesaggio adesso, è sfolgorante di sole. I soldati di Mascia hanno posto sovra una barella, il rozzo sacco ove è racchiuso il cadavere di Franziska Kroll: e aspettano il loro tenente, per andarsene. Penoso silenzio. Vi è un tramestìo fra i fanti di Moles, che si sono formati in un gruppo: Emilio Martini viene a dire:
— Signor capitano, è il compagno Filippo Marino, che è svenuto. Gli diamo della grappa, per rimettersi...
— Svenuto, perchè?
— Pare che quell’austriaca fucilata, somigliasse a una sua sorella, tal quale.
Don Giulio Lanfranchi immerge le due mani, tutte macchiate di sangue, nella catinella di acqua limpida e l’acqua si arrossa: egli strofina, fortemente, le mani, una contro l’altra, per nettarle: rovescia l’acqua sporca nel secchio, e se ne versa dell’altra, per tornare a lavarsi. L’infermiere Santillo che è poco distante da lui, in quel recinto estremo della grande tenda-ospedale e fruga, in certi scaffali, ove son pile di biancheria e pacchetti di garza, gli gitta, a volo, un grosso pezzo di sapone verde. E Lanfranchi, ancora, a insaponarsi, a risciaquarsi le mani lunghe e magre, levandole in alto, per vedere se sono monde. Ma chinando gli occhi, si accorge che la sua giubba grigioverde, è chiazzata di sangue.
— È troppo, è troppo! — egli esclama, a sè stesso, ad alta voce.
Poi, volgendosi all’infermiere:
— Santillo, ti prego, dammi una giubba.
— Averla, Lanfranchi mio! Ma dove sono mai le giubbe? — canticchia Santillo, continuando la sua bisogna.
Santillo è un giovane studente di medicina, che è stato combattente quasi tre anni, ma che in questi giorni di vaste e mortali battaglie, in cui tutti i posti di medicazione, i piccoli e i grandi ospedali sono gremiti, è stato destinato come infermiere, presso quella tenda-ospedale, dopo la prima linea di azione. Santillo, il robusto e gaio calabrese, dal viso forte ma fresco di gioventù, dalle membra grosse ma agili, fa l’infermiere rassegnatamente.
— Anche se non mi vada, questa giubba... Anche frusta, ma non mi lasciare con questo sangue sul petto! È sangue umano, lo sai?
— Ma come ti sei conciato così, preticchio mio?
— Ero presso il letto del capitano Mario Falcone, gli parlavo, curvato verso lui... — narra, con una espressione di tristezza e di noia, don Giulio Lanfranchi. — Ha voluto esser sollevato sull’origliere, Santillo: e, a un tratto, mi è caduto addosso, con uno sbocco di sangue... Ah Santillo, è troppo, è troppo! — e palpita nelle ultime parole, la sua esasperazione.
— Il povero Falcone se ne va, ci lascia, sai: forse domattina, forse stanotte... Che bel soldato, amico mio: due medaglie: trentanni e via... — conclude, sospirando, crollando il capo, il buon Santillo. — Io non ho giubbe, da farti cambiare la tua. Che ti fa, tenertela addosso, con le macchie di sangue? Guarda il mio camice: non sembro un macellaio?
— Schifo, schifo mi fa, il sangue umano, sul mio petto, hai capito? — prorompe Lanfranchi.— E non ne posso più, non ne posso più!
— Tutti non ne possiamo più, preticchio! — borbotta Santillo. — Ma non vedi quanti feriti, quanti morti, che fuoco, dappertutto? Siamo alla fine...
— Non ci credo, Santillo! E perchè mi chiami preticchio? — domanda, irritato, nervoso, don Giulio Lanfranchi.
— Ti offendi, eh? Perchè ti voglio bene, ti chiamo preticchio. È un vezzeggiativo calabrese... Non sei, forse, prete e soldato? E io che sono io? Un miserabile infermiere.
E ridendo, prende l’esile, emaciato don Giulio Lanfranchi nelle braccia robuste e gli fa fare una giravolta. L’altro rimane inerte e senza sorriso. Poi, replica, torbidamente:
— Io non sono nè soldato nè prete, Santillo. Sono uno sventurato.
E non è torbida, solo, la sua voce che ha perduto ogni inflessione di dolcezza, di mitezza, ma sono diventati, così, il suo sguardo, il suo gesto, ogni sua espressione, come se tutta fosse stata intorbidata, in lui, la sorgente della sua bontà e della sua pietà.
— Ora cerco di lavartela, questa tua giubba — risponde il paziente infermiere Santillo.
E con un asciugamano bagnato cerca detergere le chiazze di sangue della giubba di Lanfranchi: ma quando la sbottona, si accorge che, sotto, la camicia bianca è intrisa di sangue.
— Ti ha inondato di sangue, perdiana, il capitano Falcone... — esclama l’infermiere.
— Che nausea, che disgusto! — grida Lanfranchi: e si nasconde la faccia fra le mani.
Ma, in questo momento, un grido debole e pur penetrante arriva dall’estremità lontana della tenda-ospedale, dal largo reparto, il più largo, ove i due chirurgi e un loro assistente, medicano i feriti, man mano che essi sono trasportati in quella sala, dalle pareti di tela bianca: e sono lì, taciti, intenti, precisi, in ogni piccolo loro moto, intorno al letto di tortura di quella povera carne lacerata, il maggiore medico Bonelli e il capitano medico Mendoza, che non hanno quasi preso riposo, da una settimana, che par loro quella di Passione. A quel grido che, malgrado la loro consuetudine e il loro coraggio, fa trasalire Santillo e Lanfranchi, si odono giungere, dall’altro reparto, ove giacciono, sui loro letti di sofferenza, i feriti già medicati, ma non trasportabili, quelli che sono destinati a morire, fra qualche giorno, i morenti, da questo reparto giungono gemiti, lagni, sospiri, di coloro che, forse, si erano assopiti, che, forse, tacevano. oppressi, ma che il grido della sala operatoria, ha ridestato,
— Non ci reggo, Santillo, non ci reggo! — esclama Lanfranchi, in un novello scoppio d’insofferenza.
— Ma che, sei una feminetta? E chiedi forza a Dio, che ti è amico, che ti concede tutto... Andiamo da questi infelici. Sai che alcuni di essi sono in agonia. Tu non hai viatico, tu non hai olio santo... che prete sei?
— Il più indegno tra i preti — risponde, fosco, don Giulio Lanfranchi. — E non ho viatico e non ho olio santo...
— Alla chiesa di Sant’Anna, non te lo potevi procurare?
— Santillo, la chiesa è lontana: e io non sto in piedi, guardami, guardami!
— Hai ragione, povero figlio mio... Andiamo, vieni a dire qualche parola buona, amorosa, come la sai dire tu, a questi morenti.
— Sì: ora esco, a respirare un sorso di aria, amico mio... Ma torno subito... Non dubitare, io torno.
— Sai bene che quei poveretti ti vogliono, per morir in pace.
— E io li invidio, Santillo! — grida Lanfranchi, come se non potesse frenarsi.
— Che diamine dici?
— Niente! Vado. Ora ritorno.
Ma per venir fuori dal padiglione, Giulio Lanfranchi deve attraversare tutto il reparto ove sono, in giro, i tettucci dei feriti. Alcuni, cerei, con le palpebre scure abbassate, sembrano già morti, mentre non sono che immobili e incapaci anche di aprir gli occhi, tanta è la loro debolezza: altri hanno il viso acceso e gli occhi lustri, ma smarriti, cercanti, qua e là, non si sa che cosa: altri stanno con gli occhi spalancati, ma fissano un punto lontano, forse il vuoto, con le mani raggricchiate sulle coltri. Costoro, malgrado che Giulio Lanfranchi trascorra, cauto, per non destare gli assopiti e trascorra rapidamente, quasi anelante di fuggire, fuori, all’aria, si accorgono di lui e chiamano, piano:
— Lanfranchi....
— Don Giulio....
— Don Lanfranchi....
Ecco, don Giulio deve fermarsi, curvarsi verso un origliere ove è profondata una testa tutta bendata e solo si scorge metà di quel viso, con un naso affilato, una bocca che si contrae: deve raccogliere un lagno, rispondere amorosamente, toccare una fronte che brucia, toccare una mano che si stira, passare avanti, a un’altro ferito, udire, acconsentire, con un cenno, con un motto, con un breve gesto di affetto, e andare più oltre, ancora, e, di nuovo, soccorrere come sa, come può, qualcuno di questi miserelli, martoriati nel loro corpo, sperduti nella loro coscienza: e, ogni volta don Giulio Lanfranchi si rialza, con un movimento di disperata stanchezza, e ogni volta si curva di nuovo, con un moto di spasimante insofferenza, verso un altro ferito che l’ha invocato. Il capitano Mario Falcone è lì, disteso sovra un lettuccio, con un viso più che pallido, livido, ha gli occhi largamente spalancati, ma quasi senza sguardo, con le mani esangui che stringono, ogni tanto, il lenzuolo, in quel segno dei moribondi, che strazia chi li assiste. Egli non si è accorto del passaggio di Lanfranchi: e, costui, è giunto infine presso la porta di tela, ed esce velocemente, e si mette a correre, così, a capo basso, per allontanarsi, per esser solo, portando sul petto scarno la camicia bagnata di sangue umano, la giubba sozza tutta di sangue umano e guardandosi, macchinalmente, ogni tanto, le mani, per vedere se, ancora, vi sieno traccie di sangue. Ha le labbra strette, i denti stretti, Giulio Lanfranchi, per domare i sussulti della insofferenza del suo animo. Giù, giù, alle spalle della tenda-ospedale, fra l’erba folta, ha trovato un grosso macigno, e vi si è buttato a sedere, curvo su sè stesso, con le mani che abbracciano le sue ginocchia: è il capo è così abbassato sul petto, che non si scorge più il suo volto e solo si vede la sua capigliatura incolta, dove è scomparsa la tonsura, la capigliatura che il vento scompiglia. Il vento, lassù, sull’altissima asta centrale del padiglione, fa sbattere l’ampia bandiera bianca, dalla croce rossa, mentre sul tetto del padiglione altre tele bianche, crociate di rosso, sono distese, per salvaguardare l’ospedale dal cannoneggiamento e dalle bombe degli aereoplani. Ma il cannoneggiamento è assai lontano: giunge, a tratti, or sì, or no: e il cielo pomeridiano, in quella giornata di fresco autunno, è puro. Ma non guarda, non vede, non ode nulla Giulio Lanfranchi, tutto ripiegato su sè stesso, come se volesse dominare un dolore fisico, acuto: e ogni tanto, il suo gracile corpo rattrappito, si dondola: egli fa un gesto solitario, come se volesse distogliersi dal più tormentoso dei suoi pensieri.
— Lanfranchi, Lanfranchi! — viene una voce, da lassù, dalla porta di tela sollevata del padiglione. Questa volta, non è Santillo, il buon giovane infermiere, che lo chiama: è proprio il capitano medico Mendoza, che gli fa cenno di salire. Un profondo sospiro sgorga, ed è un iroso lamento, dalle labbra del prete, il quale si leva a stento, poi resta un poco indeciso e infine risale lentamente il sentiero, per cui era fuggito. Egli giunge presso Mendoza, che è sulla porta, con le maniche del camice bianco rimboccate e i polsi e le mani macchiate di sangue, come la sua veste di chirurgo operatore. Il volto gentile ma virile di Mendoza, i suoi occhi vividi color di acciaio, la sua fronte giovanile, senza una ruga, fanno contrasto con quell’atroce sozzura.
— Lanfranchi, che hai? Ti senti male?
— Tanto, tanto male, Mendoza: non ne posso più!
— A chi lo dici? Qua ci abbattiamo tutti, a momenti... Che tremende giornate, queste ultime! Lo sai che Bonetti ed io, avremo, in tutto, dormito tre ore ogni notte? È un flagello, Lanfranchi mio! Siamo alla fine, si vede; si comprende! Si muore, ma si vince..., e si va a casa, amico!
— Non ci credo, non ci credo! — mormora l’altro. — Ma tu che vuoi da me? Perchè mi hai chiamato?
— Pel capitano Mario Falcone, poveretto: ha balbettato tre o quattro volte il tuo nome... Vacci, vacci... Sai che muore...
— Stanotte o domattina, Mendoza, non adesso... — protesta, stanco, malcontento, Lanfranchi.
— Adesso, adesso, può morire, te lo assicuro... Va, va, Lanfranchi: digli qualcuna delle tue parolette sante...
— Io non ne so più, di parolette sante — risponde, sommessamente, Lanfranchi, avviandosi dentro la tenda. — Nessuna, nessuna più...
Mario Falcone è sul limitare della morte. Il buon Santillo, per farlo respirare meno affannosamente, in questi suoi estremi momenti, lo ha tirato su, sovra una pila di cuscini: la testa è eretta, ma solo gli occhi vi sono ancora viventi, largamente aperti, fissi con una intensa espressione di attesa, verso la porta del padiglione; il petto si solleva irregolarmente, come un piccolo mantice disordinato, e un rantolo esce, disordinatamente, dalle aride labbra, su cui fugge l’aria. Ogni tanto, dal polmone due volte forato, sale una lieve schiuma sanguigna e ne bagna gli angoli della bocca: e Santillo l’asciuga delicatamente, con un fazzoletto di lino. Lanfranchi si accosta all’agonizzante, gli prende una mano sulle coltri, cerca stringerla, si china a parlargli, sottovoce:
— Coraggio, coraggio, fratello mio...
Mario Falcone lo guarda, fuggevolmente: poi, con un fiato rantoloso, tenta parlare:
— Camillo... Camillo...
— Verrà, viene, capitano, il cognato vostro — gli dice pietosamente Santillo. — Sta per arrivare...
Lo sguardo di Mario Falcone si fa più fisso, nell’attesa, volto sempre verso la porta.
— Camillo... — sospira, con un soffio penoso, Mario Falcone.
— Verrà, viene, non dubitate, fratello mio — aggiunge anche Lanfranchi, stringendogli la mano fredda e umida, sentendo sotto le dita il polso del giovine ufficiale farsi filiforme.
Il tempo scorre, su quell’angoscia. Camillo Moles non appare. Il viso di Mario Falcone si fa disperato. Egli emette un suono forte, inarticolato, che pare un appello estremo; poi, quasi si leva, sul letto, e con una voce roca, cavernosa, ma di cui si odono perfettamente le parole, grida:
— Lanfranchi... chiedete a Camillo, a Magda, perdono, perdono...
Ancora tre lunghi urli disperati, in cui pare che si dibatta l’anima, strappata dal corpo; il petto ferito si abbassa, si abbassa, non si solleva più. Mario Falcone è morto. E, nella morte, il volto contratto non si è disteso, non si è pacificato; vi resta impressa l’ultima sua disperazione. A occhi distratti, don Giulio Lanfranchi gli fa, con la mano, tre segni di croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto; non altro segno cristiano. Poi, senza voltarsi, va via, fugge, sparisce.
Crepuscolo limpido e fresco di settembre; i chirurgi, gli assistenti, gli infermieri, hanno un’ora di tregua, Sono venuti fuori dalla tenda, all’aria aperta a respirare, a fare qualche passo, a stirarsi le braccia. Hanno smesso i lunghi e larghi camici, tutti lordi; si sono a lungo lavati e spazzolati. Bonelli, il maggiore medico, il gran taciturno, va e viene, fumando sigaretta sopra sigaretta, curvandosi, quasi, sulla sua immensa stanchezza, più silenzioso del consueto: il capitano medico Mendoza, più socievole, scambia, ogni tanto, qualche parola con Santillo e con Bandini, i due infermieri; Lanfranchi è, come sempre, da qualche tempo, in disparte, appoggiato a un mucchio di casse vuote. Essi credono che egli preghi, che egli dica il rosario e non lo disturbano. Un automobile velocissimo giunge, rombando; di colpo, si arresta, il capitano Camillo Moles ne discende, pallido, agitato, mordendosi le labbra, quasi a dominarsi; egli interroga, con lo sguardo, il maggiore Bonelli e il capitano Mendoza, che gli sono andati incontro. Bonelli gli risponde con lo sguardo triste, facendo un gesto di rassegnazione, gli stringe fortemente la mano. Camillo Moles comprende; i suoi occhi si velano di lacrime, ma non piange.
— Povera sorella mia, povera Magda — egli dice, come fra sè. — Mario ha sofferto molto?
Il buon infermiere Santillo risponde subito;
— Sì, molto, ma per un tempo breve, poveretto.
— Ha detto qualche cosa?
— Qualche parola, capitano: al sacerdote Lanfranchi, che lo assisteva.
— Volete chiamarmelo?
— Lanfranchi, Lanfranchi, vieni qui, il capitano Moles ti vuol parlare — dice Santillo, a voce forte, per scuotere il prete soldato, che è distratto, assorto.
Costui si avvicina, lentamente, fissa il capitano Camillo Moles:
— Mio cognato si è confessato?
— No, capitano. Non ne aveva la forza.
— Ma ha detto qualche cosa?
— Vi aspettava; pareva ansioso; vi ha chiamato varie volte.
— Solo me, ha chiamato?
— ... ha nominato Magda.
— Ah! Nuli’altro?
Don Giulio Lanfranchi, le cui risposte sono state sempre più esitanti, adesso resta perplesso. Il capitano Moles aspetta una risposta.
— ... qualche parola, ha pronunziato, confusa... — balbetta Lanfranchi. — Forse delirava...
— Ripetete, vi prego, don Lanfranchi — insiste, più preciso, Camillo Moles. — Debbo ripetere queste ultime parole a mia sorella...
— Mi pare... mi pare che mi abbia detto: «Chiedete perdono a Camillo, a Magda...» — dice, fiocamente, Giulio Lanfranchi.
— Ah! — esclama, soltanto, il capitano Camillo Moles. E un pensiero improvviso gli sta, fra ciglio e ciglio, sugli occhi inariditi.
— E si può sapere dove ti sei nascosto, preticchio matto, iersera, stanotte, stamane! Dove hai pranzato? Dove hai dormito? — così apostrofa, col suo largo, spontaneo riso Santillo, prendendo sottobraccio Lanfranchi e costringendolo ad andare e venire, fra l’erba, fra i sassi, sullo spiazzo, innanzi al padiglione. — Confessa i tuoi peccati al tuo amico: io ti assolvo.
— Mi son fatto condurre, da un automobile, ieri al Gran Comando, Santillo. È lontano — risponde don Giulio Lanfranchi, col suo tono stanco e annoiato. — Mi avevano detto che vi avrei trovato il mio capo, il Vescovo Castrense.
— E lo hai trovato?
— No. Non l’ho trovato. È la mia mala sorte, che mi perseguita...
— Ma che gli volevi dire al tuo vescovo?
— Voleva supplicarlo che mi liberasse... che mi mandasse via... perchè tu sai bene che non ne posso più, amico mio!
E il consueto grido d’intolleranza gli esce, lacerante, dall’anima.
— Ma che ti hanno detto al Comando? Quali notizie?
— Mi hanno detto che ci si batte, dappertutto, e chè noi si va avanti, vincendo, dappertutto... e che siamo alla fine, a una fine di gloria...
— Amen, amen! — esclama, sincero, il giovane Santillo.
— Ma si muore, dovunque, Santillo; centinaia, migliaia di morti; e scorrono torrenti, fiumi di sangue... è un flagello, un flagello...! — grida, concitato, Giulio Lanfranchi.
— Sono gli ultimi sacrifici, forse — dice, pensoso, un po’ triste, l’infermiere. — Tu parli di flagello? È anche peggio, adesso, amico mio; sono feriti, stroncati uccisi, i giovani, i molto giovani, i giovanissimi, tutta una generazione di ventenni che sparisce.
— Santillo, non mi far bestemmiare... — dice, così sordamente, Giulio Lanfranchi, che l’altro non raccoglie la sacrilega parola.
— Sai quanti ne sono venuti, stanotte, di questi giovanissimi? Sette od otto... Ti assicuro che mi tremavano le mani, dalla pena, quando li tiravo sui tettucci, ove dovrà perire la loro giovinezza...
Don Giulio Lanfranchi, muto, leva gli occhi al cielo; ma Santillo non vede lo sdegno di quegli occhi.
— Stamane, all’alba, abbiamo portato via il povero capitano Falcone; lo hanno interrato nel cimitero di Sant’Anna, presso la chiesa... Tutta la sua roba l’abbiamo mandata al cognato, il capitano Camillo Moles, che la consegnerà alla vedova, sua sorella...
— Tutta la roba di Falcone? A Moles? Credete di aver fatto bene?
— E perchè? Che pensi?
— Non so... non penso niente — risponde l’altro, crollando le spalle.
— E dopo due ore, stamane, vi è stato qualcuno che ha preso il suo posto, sul tettuccio funebre... Giovanissimo, te l’ho detto. Era in agonia, stanotte. Impossibile salvarlo. Vieni, vieni a dargli una benedizione.
— Sono così sfinito, così finito, Santillo!
— Sai, la merita, questa benedizione: è una faccia di angelo.
E con una mossa vivace del suo vigoroso braccio, Santillo trascina, passo passo, Lanfranchi, verso un piccolo, segregato ridotto, ove non è che un lettuccio mortuario. Giace, su questo letto, l’appena ventenne Giorgio Ardore, a cui, in combattimento, una scheggia di mitraglia ha tagliato la carotide; e il giovine ha perduto tutto il vivo sangue delle sue vene, mentre il suo volto è rimasto intatto. Il suo viso è più bianco dell’origliere, su cui è poggiata la sua testa; mai viso fu più bianco; e su quella indicibile bianchezza, le sottili palpebre violacee abbassate, sembrano due fiori; le labbra sono esangui, ma composte in quella loro linea giovanile di grazia; i capelli castani dai riflessi fulvi, ricciuti, sono stati ravviati da una mano pietosa e completano la funebre beltà di quel volto, Una leggiera coltre bianca è distesa sul corpo snello e agile, che pur si delinea, sotto quel lieve drappo. Le mani lunghette e fini si chiudono, sul petto, sovra un piccolo crocifisso. Per la luce incerta, Giulio Lanfranchi non riconosce subito Giorgio Ardore; ma chinandosi sul tettuccio, ecco, a un tratto, egli ha un convulso moto di terribile stupore, e si gitta sul petto di Santillo, nascondendovi la faccia, soffocandovi il suo grido...
Ma un’ombra, un’ombra alta, è penetrata nella stanzetta mortuaria e si scorge quest’ombra, accostarsi, un istante, al tettuccio, dare uno sguardo, un istante al bellissimo morto e precipitare a terra, gridando:
— Giorgio, Giorgio, Giorgio!
È Fausto Ardore che ha ritrovato il cadavere di suo fratello, Giorgio Ardore. Il suo urlo continua, ora mugolante, ora stridente, talora si spegne, poi scoppia novellamente, sempre col nome del morto, mentre l’uomo si contorce, per terra, come una belva ferita. In un angolo Giulio Lanfranchi gesticola, follemente, con le pugna levate in alto...