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della sudicia, fumosa, puzzolente baracca; e aspetta, paziente, fra il disgusto e la nausea dei suoi sensi. Egli si sente affogare dai cattivi odori, dal fumo dell’acetilene, dal puzzo della paglia; vorrebbe andar via.... A poco a poco il fracasso cede, quasi si cheta, poichè la truppa umana ha compiuto il suo bagaglio ed è pronta a partire. Qualche grido di fastidio; qualche sbadiglio animalesco; qualche brontolìo sospiroso; e un continuo parlottìo, nei dialetti diversi. I fanti escono, ad uno ad uno: il tenente Ardore è obliato nel suo cantuccio. Una voce fresca lo interpella, a lui dappresso:
— Ardore?
È un altro tenente, molto più giovine di Fausto, appena venticinquenne: volto imberbe, ma virile: persona magra, ma muscolosa. Dal colletto arrovesciato, si scorgono le modeste stellette di fanteria.
— Borgatti ti ha malmenato? — e ride benignamente.
— Abbastanza, Cinisello.
— Abbi pazienza. È un bravissimo uomo; un soldatissimo. Viene dalla gamella e odia le armi dotte. Tu vuoi parlare a questi fanti?
— Debbo. Lo desiderano, in alto....
— A te piace, però, Ardore!
— Mi piaceva, un tempo.... — egli risponde, con malinconia. — Ora, son comandato.
— Usa bontà, con questi uomini, Ardore. Sai bene dove andiamo, domattina, con Borgatti, con loro. Si va: e forse non si torna più indietro.
Il tenente Cinisello non è triste, parlando così; ma i suoi begli occhi chiari si fissano, vagamente, verso un punto lontano.
— Ma voi altri pensate spesso alla morte, Cinisello? — domanda, trambasciato, Fausto Ardore.
— Sempre, amico mio — risponde il bel giovane, fresco, sano, simpatico.
Fausto Ardore ricorda, novellamente, il colloquio di sera, nel cadente dicembre, col Grande soldato. Tace.
— .... ma ci siamo abituati, a questo pensiero