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— Sì: un poco: al braccio: ho perduto molto sangue — risponde, piano ma fermo, il caporale Martinengo.

— Una donna, una giovinetta... — dice, come fra sè, il capitano Moles.

— È una spietta: è una belvetta austriaca. Si ammazza, se si trova, questa femmina signor capitano — dice, a denti stretti, il caporale ferito.

Un silenzio triste nell’ombra e nel gelo della sera. La voce chiara e decisa del capitano Moles si ode.

— Andiamo, domattina, tenente Sambucetti, ai boschi di Mettler a cercare Capece? Andiamo a cercare i nostri nemici? Poichè essi non vengono, qui, andiamo noi...

— Andiamo, certo, signor capitano — risponde subito, vivace, il tenente Sambucetti, che era stato tacito e turbato, fino allora.

— Vengo anche io: mi fascio il braccio — soggiunge, deciso, il caporale Martinengo. — Adesso so la via: la so.

Così vanno, l’indomani, nel chiaro mattino, sotto un cielo scolorito, in un’aria ferma: i fanti, col loro caporale Martinengo, che ha il braccio sospeso al collo, ma cammina svelto, attentissimo, con l’occhio, con l’udito, scrutando le vicinanze, fissando le distanze. Accompagnano i fanti, per raccogliere i morti, due barellanti, due soldati di sanità. Uno è Luigi Fratta, colui che era prete, prima della guerra: e l’altro, malgrado che sia un territoriale, Stefano Assante, un povero medico condotto di Calabria, che ha chiesto di servire al fronte, in estrema avanguardia. Fratta porta pesantemente, a tracolla, la branda arrotolata e cammina sfiaccolato e scontento. Stefano Assante porta una valigetta, con ferri chirurgici e le medicature. Vengono, accanto, il capitano Camillo Moles e il tenente Paolo Sambucetti, l’amico fidato di Capece: sono chiusi nei pastrani, coi colletti di pelliccia rialzati, perchè all’alba, quando hanno lasciato il campo, il freddo era molto vivo. Poi, più tardi, un sole debole ha intiepidito l’aria. Marciano