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— Non va, Eccellenza — risponde il giovine, rauco di emozione. — ancor peggio di prima. Nessuno mi comprende. Nessuno viene a me; io non arrivo a nessuno di loro. Quel che dico, e quel che faccio, è completamente inutile.

— Lei domanda di esser dispensato? — chiede il Capo, fissando anche più intensamente il giovine. L’altro fa un cenno desolante con le mani, e il suo viso si contrae nella tristezza.

— Perchè non comprendono, i fanti? Di chi è la colpa? Di chi parla o di chi ascolta? — E il tono è nitido, gelido.

— La colpa è mia, Eccellenza — dichiara, subito, Fausto Ardore. — Vi è fra me e i soldati che mi ascoltano, un ostacolo, non so quale, un ostacolo ignoto ma forte. È come se ci dividesse un’alta muraglia, Eccellenza; e le mie deboli unghie, non arrivano a sgretolarla. — E un’angoscia palpita in tutto quello che confessa, Fausto.

— Sì, vi è un grande ostacolo — riprende, pensoso, il Capo — e lei non lo scorge, mentre esso è alto e massiccio, appunto, come una muraglia.

— Eppure, eppure, Eccellenza — esclama, trambasciato, il giovine — in aprile, a Roma, a Milano, parlando alla folla, io ho sentito la sua anima fraternizzare con me.

— Sì, ma quelli erano uomini, tenente Ardore.

— Come?

— Questi sono soldati — dichiara, fermo il Capo.

Si stupisce e si sgomenta, anche, il tenente Ardore, e non interroga, e aspetta altra parola.

— Un soldato è qualche cosa di diverso, di maggiore, di migliore, di un uomo, tenente — chiarisce, severamente, il Capo, il vecchio soldato. — Vi è in lui, fante o generale, una idea, ora vibrante e ora sopita, una idea che i frivoli uomini non hanno o non vogliono avere.

— ....?

— L’idea della morte, tenente Ardore — pronunzia, austeramente, il vecchio soldato. — Con questa idea, che ingrandisce e migliora ogni co-