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Plumbeo, algido crepuscolo di gennaio, che declina rapidamente a sera, sotto una pioggia che si fa sempre più fitta, velando i carriaggi dell’artiglieria che salgono, salgono ininterrottamente, per la larga, fangosa, fumante di umidità, via maestra, a una lontana mèta di montagna, celando i camions lucidi e neri automobili, celando la massiccia forma dei muli, sul pesante carico che ondeggia sui loro fianchi quadrati. Ombre umane, nere, in larghi cappotti fatti tesi, come legno, come metallo, dalla pioggia, sotto larghi cappucci che sembrano grondaie, salgono, scendono, conducono carriaggi, conducono automobili, camminano a lato dei muli, e tutto è nero, tutto è lucente di acqua che scivola, sulle cose, sulle persone; e il gran fiato umido dell’aria, aumenta l’ombra crepuscolare. Sulla porta, socchiusa, di una lunga e bassa baracca, sta il tenente Fausto Ardore, seduto sovra una pancaccia; ha gli stivaloni incrostati di fango; infangatissimo il cappotto, sino al collo; non ha berretto e prende la pioggia sul capo e sulla fronte, quasi senza accorgersene. Dentro, nella baracca, è un grosso tramestìo di persone, è un vocìo alto e concitato che, ogni tanto, si abbassa, si estingue, ripigliando improvvisamente. Il tenente Ardore, distratto, assorto, guarda il cielo basso e pallido, donde cade, sempre, la freddissima pioggia. Ritto, accanto a lui, è un altro ufficiale, tutto chiuso nel suo mantello pesante di pioggia, tanto ne è immollato, nel colletto folto di pelliccia, che nasconde il mento e quasi la bocca, lasciando vedere solo un grosso mustacchio, tagliato all’antica, tutto brizzolato; sotto la visiera del berretto, sformato dalla umidità, si scorgono due sopracciglie nere, ispide, e due occhi torbidi.