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— Capitano Borgatti, si può dire, stasera, qualche parola amica ai suoi fanti? — domanda il tenente Ardore.

— Che vuol dir loro, di grazia? — interroga, brusco, rozzo, il capitano Borgatti.

— Qualche semplicissima idea, qualche parola fraterna, sul loro dovere.

— Dovere? Dovere? Lo sa, lei, signor tenente, che questi miei fanti e io, con loro, domattina, si va in trincea? A Sainette? Ne ha inteso parlare? A Sainette si deve fare molto, ma molto più del proprio dovere.

Il capitano Borgatti, burbero, parla freddamente; ma ciò che dice, ha un senso profondo.

— Sì — risponde il tenente Ardore. — So. So bene il loro grave rischio, rischio di morte.

— Anche i fanti lo sanno. Ci pensano, forse; non lo dicono. I miei uomini, più tardi, si batteranno e si faranno uccidere, senza tante chiacchiere.

Nell’animo del tenente Ardore si profila la figura marmorea, austera del Capo; l’oscuro capitano Borgatti ripete quel che l’altro diceva.

— Cercherò di accostarmi a loro, capitano....

Il tenente Ardore, triste, stanco, rientra nella sordida baracca, ove son vissuti quei fanti, nei giorni di loro tregua e donde debbono andar via, fra poche ore, al loro ignoto destino di combattimento. Tutto vi è sossopra, lì dentro; paglia, coltri, tavolacci sgangherati, mastelli; e tutti gli uomini sono alla loro bisogna di partenza, in confusione e in tumulto. Chi si leva, chi si accovaccia, chi è ginocchioni, chi si butta sull’altro, volendo accatastare la roba nello zaino, brontolando, dialogando, a scatti violenti, fischiando, canticchiando, bestemmiando. Invano il tenente Ardore vorrebbe dirigersi a qualcuno di loro; nessuno si occupa di lui, non è del loro reggimento, e nessuno vuol accorgersi di questo tenente del Genio, appartenente a un corpo superbo e sprezzante, quindi odiato dal fante. Ardore è seduto in un cantuccio