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— Dieci: più il caporale Martinengo e il tenente Capece.
— Conoscevano le vie?
— Fino a un certo punto, pare che le conoscesse Martinengo. È un giovine serio, è un buon soldato.
— Si saranno dispersi? Caduti in un agguato?
— Chi sa, chi sa!
E si guardano, penetrati di una penosa incertezza. Adesso, sono discesi, uno dopo l’altro, nella via alpestre e scabrosa, camminando malamente, inciampando, urtandosi, discendendo verso il campo, laggiù, verso le baracche, di cui già brillano i lumi e, fuori, vi ardono dei fuochi. A un tratto, nell’ombra della sera, un soldato che viene in su, a capo basso, affannando, e già si ode il grosso respiro della sua corsa, si butta sul petto di Sambucetti che non lo riconosce e gli grida:
— Chi sei?
— Sono Martinengo, il caporale... — prorompe, ansante, anelando, il soldato.
— Martinengo! — esclama Camillo Moles, che è sovraggiunto. — Siete salvi, dunque?
— Eh no, no, non siamo salvi, signor capitano! — risponde, l’altro, concitato. — È stata una gran brutta giornata.
— Avete perso uomini? Quanti? Parla!
— Due compagni, due fanti, morti: e tre feriti.
— Capece?
— Ferito, capitano: ferito gravissimo — e la voce del milite si fa roca.
— E dov’è Capece?
— Lassù...
— Lassù, solo, ferito, gravissimo? E lo avete abbandonato? Ma che soldati siete, voi?
— Mi scusi e mi ascolti, signor capitano — trema di dolore, narrando, il caporale Martinengo. — Abbiamo dall’alba, camminato quattro o cinque ore; non trovavamo più la strada: volevamo tornare indietro, ma il tenente Capece correva, correva sempre, avanti, avanti, chiamandoci, incitandoci.... E a, un tratto, gli è fuggita innanzi, una giovinetta...