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Il grosso lume a petrolio che discende dal basso soffitto di legno ed è circondato da un tondo paralume di carta verde, appena appena dirada l’oscurità di quello stanzone lungo e stretto; un altro lume a petrolio, fumicante, è posato sovra un bancone alto, di legno grezzo, che segue un lato dello stanzone; e nella scialba luce di questo altro lume, si distingue una testa di uomo, calva sul davanti, con una zazzera ispida di capelli rossicci sulla nuca, che si curva sul bancone, a scrivere con lentezza, in un registro aperto; ogni tanto, l’uomo che scrive, leva gli occhi in aria, come se si volesse ricordare un nome o una cifra e, allora, si scorgono i tratti rugosi, terrei, di un viso offlosciato, una bocca molle sovra una dentatura giallastra, e due occhietti tondi, mobilissimi, quasi spiritati, in quella faccia moscia. Egli è avvolto in un peloso pastrano di lana, di cui tiene sollevato il colletto sino al mento; e, talvolta, egli si ferma dallo scrivere, per strofinarsi le mani freddissime, per soffiarsi sulle dita intirizzite. Quello stanzone che par fatto tutto di legno, ha delle strette aperture, a diritta e a sinistra, delle mezze finestre, ma esse sono sbarrate dalle imposte di legno; la porta di entrata, in fondo, è sbarrata con un grosso catenaccio di ferro, che la traversa quasi tutta. Là dentro si gela. Fuori, su quel giogo di montagna altissimo, in quella notte dell’anno cadente, nevica; la neve non fa rumore, fioccando, ma nello stanzone l’aria si fa sempre più glaciale. Laggiù, lungo l’altra parete dello stanzone, vi è un camino nerastro, sotto una nerastra cappa che lo ricovre; e aguzzando gli occhi, vi si vede pendere una catena affumicata, a cui è sospeso un calderotto, Il camino non dà nè luce nè calore: è