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È una gran cosa, contro il nemico; è una gran cosa assai... — dice, con voce sognante, inconsciente con occhi sognanti ma sereni, il soldato Califano.

Ha sempre taciuto, durante lo strano dialogo, il tenente Gianni Scalese, forse lontano con lo spirito. Guido Soria ne conosce la mitezza, la bontà, sa il fondo di tristezza di quella vita orfana di padre. Così, è con animo amichevole che egli dice:

— Io lo so, Gianni; tu non ami nè Palmetella, nè Moscardino, che i tuoi buoni soldati, così semplici, vezzeggiano come delle amanti; io, se mi avessero messo fra i mitraglieri, le avrei abbracciate ogni mattina, queste armi... Ma, dimmi, quando sei negazione, non ti ecciti, non ti esalti? La strage che fanno le armi da te comandate, non t’inebbria?

— Io non la veggo, Guido — Gianni risponde malinconicamente. — Le mie armi uccidono lontano. Veggo l’altra strage, invece...

— E quale?

— Quella che colpisce, accanto a me, intorno a me, i miei uomini, i miei compagni... Anche gli austriaci hanno le mitragliatrici — e uno smorto sorriso gli sfiora le labbra.

— Ma voi, che comandate, siete più al securo, Gianni? Credevo...

— No, Guido, no. Non siamo al securo. Mia madre lo crede: io gliel’ho giurato. Ma non dobbiamo essere al securo. Nè importa la nostra securezza. Importa obbedire.

Queste parole sono pronunciate con semplice fermezza: ma la malinconia di quell’anima giovanile, è impressionante. E Guido legge nei mesti occhi del suo amico, oltre la tristezza, questo rigido senso dell’obbedienza. Se deve morire, morirà al suo posto. È triste, anche lui, Guido, adesso, e abbracciando fraternamente Gianni Scalese, prova una emozione singolare, di cui non si dà conto. E si allontana dal silente chiostro del vecchio monastero, va passo passo, verso il paesello deserto di abitanti, già due volte ripreso dagli austriaci e