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— Una giovinetta?

— Una contadinella: l’abbiamo raggiunta; bellina, carina, sorrideva, cantava: e parlava italiano. Capece le ha detto di condurci...

— E vi ha condotti?

— A perdizione, signor capitano — prorompe, come disperato, il caporale. — A un tratto, con un salto, ella è penetrata nella boscaglia ed è scomparsa: e noi siamo stati presi in mezzo, dal fuoco nemico, da un nemico invisibile.

— Fucili?

— Fucili: ma settanta od ottanta, forse, appiattati: e noi dodici, scoperti, quasi indifesi.... Era innanzi, come sempre, Capece, e per il primo ha preso due palle, una nel petto, una in una coscia: insieme a lui, i nostri due poveri compagni, giù, a terra, crivellati di colpi: e due altri feriti, uno al piede e uno nella spalla...

— E Capece?

— Capece ci ha gridato, da terra, come un matto: «È colpa mia, salvatevi, salvatevi, lasciatemi qui, non vi curate di me, ritornate a prendermi, in forze, vi aspetto, via, via, andate!» Io ho preso sulle spalle quello ferito al piede: e gli altri hanno tirato su e portato via, quello ferito alla spalla...

— E il nostro Capece, il povero Capece?

— Abbiamo tentato di prenderlo, di portarlo via... Urlava, si dibatteva: «Via, via, vi è pericolo per tutti, fuggite, venite a prendermi, domattina, o a vendicarmi».

— E il nemico?

— Scomparso, signor capitano, scomparso! Allora, con questi due feriti, addosso, per le vie che poco conoscevamo, senz’aver bevuto un sorso di acqua, nè mangiato un tozzo di pane, abbiamo messo cinque ore, per ritornare qui...

E con un profondo sospiro, pallidissimo, estenuato, curvo su sè stesso, il caporale Martinengo vacilla.

— Martinengo, ma tu sei anche ferito? — chiede Sambucetti, sostenendolo, tastandolo.