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sciuto senza padre; e corre verso il suo amico Guido Soria, con cui non s’incontra da mesi. E si abbracciano, strettamente. E si scambiano parole bizzarre, imbrogliate, domande che non aspettano risposta, interruzioni; poi, il discorso unico:

— Che fate, Guido, che fate?

— Trincea, trincea, trincea... — esclama, sottovoce, pallido di noia, Guido Soria.

— Molte privazioni, è vero? — chiede affettuosamente, Gianni Scalese.

— Privazioni di combattere, di vincere il nemico, ecco! — prorompe Guido.

— Ma siete vicini, col nemico, io lo so.

— Vicinissimi, purtroppo! È esasperante, Gianni, Ci scorgiamo, di qua, di là, ogni tanto, se qualcuno di loro, di noi, tira fuori la testa..., E non possiamo nè mirare, nè sparare... Essi, neppure sparano... Dopo un minuto di osservazione, che pare indifferente ed è esasperante, ognuno di noi, di loro, sparisce, si sprofonda...

— Nessuna sortita?

— Nessuna. I nostri comandanti, o sono morti, o sono pazzi, Gianni.

— Zitto, Guido...! — e gli fa cenno, per coloro che potrebbero ascoltare.

— Io schiatto di collera, fratello mio, in quella topaia, dove sono sepolto...

— E i tuoi uomini?

— Oh quelli! Quelli si sono intorpiditi; hanno perduto il gusto del combattere... Se mai l’hanno avuto...

— Esso non è naturale... — dice, piano, il tenente Gianni Scalese,

L’altro non ha udito. E riprende:

— Sai che t’invidio? Sai che t’invidio forte?

— M’invidii? E perchè m’invidii?

— Tu comandi queste lucide e belle mitragliatrici, tu comandi la morte del nemico, tu puoi distruggere il nemico, Gianni... È questa la guerra, la vera guerra, Gianni; non il sotterraneo e il sonno.