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— Lo sai che sei la mia sposa, la mia donna, innanzi a Dio? Te lo ricordi? Vuoi tener la tua fede? Vuoi obbedirmi? — E la voce di Carletto, ha un potere che ella non ha mai conosciuto.

— Prometto... — ella risponde, tremante.

— Giura.

— Lo giuro — e, questa volta, ella consente con umiltà, con devozione.

— Mia Loreta, mia Loreta — egli prorompe, in singhiozzi, senza lagrime, abbracciandola strettamente, come quando è entrato nella sordida stanza di quella casa equivoca.

E ai primissimi gelidi verdastri albori, che Carletto Valli e Loreta Leoni si separano; egli la fissa, negli occhi, con una novissima, singolare espressione di disperata tenerezza, che la donna non approfondisce, ma che ricambia con gli impetuosi segni della passione. Ora, le sue guancie sono accese, i suoi capelli neri sono discinti, i suoi occhi allucinati; ella si aggrappa a lui, si avviticchia, tutta, come se mai volesse staccarsene. A un tratto, l’uomo, in quell’ora delirante, sente, gli sembra confusamente di sentire, fra loro due, un’aerea presenza e sulla sua spalla, un tocco lieve, ma che si fa sempre più forte; una mano, sì, una mano che, prima, lo abbia attirato a sè e che, poi, lo sospinga, fuori, lontano, via, dove? Questa strana sensazione dura pochi istanti, ma al tenente Valli è insopportabile; per infrangerla, per farla dileguare, egli torna ad abbracciare la sua Loreta, in silenzio. La respinge, prima, con dolcezza, poi fermamente, nella lercia stanza; e fugge, discende, fuggendo, la scaletta ripida, fugge per il vicolo stretto e puzzolente, a capo basso, senza voltarsi indietro, via, via, col primo mezzo più veloce, un automobile vuoto, via, via, sino alla villa patrizia, che il grande Palladio disegnò, in fondo al fiorito giardino chiuso...

Deserto, il giardino; tutti spalancati e vuoti, i veroni e le finestre della villa; non un soldato, un ufficiale, fuori, dentro; non una voce; non un