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sui cuscini, il malato lo vede giungere, lo squadra, poi, prorompe, con un respiro ansante:
— Don Lanfranchi, don Lanfranchi! Siete voi, voi?
Il sacerdote stenta, un momento, a riconoscere in quel volto massiccio ma scarnito, in quei grossi occhi lucidi di febbre, in quella spazzola di scuri capelli sulla fronte madida di sudore, la fisonomia antica di Cesare Pietrangeli, il popolano romano... Ma è lui, sminuito, sgretolato dalla malattia, quasi irriconoscibile, se non fosse lo sguardo di prima, bonario, e stanco, insieme, se non fosse la parlata romanesca, sempre più accentuata:
— Venite da Roma? Dite, dite...
E con le due larghe mani dimagrite e brucianti di febbre, Cesare afferra le mani fredde e fini del sacerdote, lo attira a sè: costui si curva a deporre un bacio fraterno, sulla fronte dell’infermo.
— No, Cesare mio, no. Non vengo da Roma, purtroppo...
— E da quando ci mancate, dite, dite?
— Non vi sono mai tornato, Cesare — dice, piano, don Lanfranchi — neppure da mia madre, sono andato: neppure dal mio monsignor Morcaldi...
— Oh Dio! — esclama, angustiato, deluso, Pietrangeli.
— E perchè ti affanni tanto? Perchè spasimi così? Non guarisci, più, allora: e non hai la licenza, per andare a casa...
— Ma come posso guarire, don Giulio? — Si lamenta l’infermo, agitando, con le ginocchia sollevate, le sue coltri — Se costoro non mi scrivono, non mi danno notizie, se mi lasciano agonizzare, più pel loro silenzio, che pel tifo?
— Pazienza, pazienza, Cesare!
— Da tre mesi, don Giulio, senza notizie! — dice, cupo, il malato — malati, malati, tutti?
— Staranno, invece, Cesare mio, tutti benissimo! — sorride, affettuosamente il prete — sai come vanno le poste. Tu ti sarai spostato, varie volte... È la cosa più comune, amico mio, non avere let-