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con un solo grosso mobile, una scrivania nera, carica di fascicoli, di fogli e di qualche registro: colà suor Serizia segue il movimento del suo ospedaletto, notando e conteggiando. Alle pareti, un crocefisso nero e bianco: dirimpetto, un quadro sacro, ove è dipinta la Madonna dei Dolori. Qualche sedia. Non altro. Una monaca alta e scarna con un viso lungo e fine, sotto le ali bianche della cuffia, suor Michelina, viene a consegnare, in silenzio, a suor Serizia, un pacco di lettere, e si allontana. L’altra suora, viso paffuto e roseo, di una freschezza giovanile contadinesca, suor Benedetta, arriva, cariche le braccia di lenzuola e di foderette: ambedue, a bassa voce, scambiano qualche parola, con Serizia e spariscono, con quel passo feltrato, leggero, che è delle religiose di san Vincenzo.

— Andiamo, don Lanfranchi — e lo precede nella sala centrale.

Tutte le finestre larghe di questa sala, sono schiuse all’aria e al sole di settembre: ma è sempre fortissimo, l’odore dei medicinali. Venti letti, bianchissimi, sono allineati, a diritta e a sinistra, dieci e dieci, abbastanza distanti l’uno dall’altro: quattro non sono occupati, con le coltri bianche tese. Negli altri letti giacciono i tifosi, quasi tutti in posizione raccolta, come stretti in sè stessi, col capo sprofondato nell’origliere: sembra che dormano: ma non dormono: o sono leggermente assopiti, in quel dormiveglia bizzarro, che dà la febbre, quando è molto diminuita: o sono abbattuti dalla febbre forte, respirando affannosamente, col sudore morboso che bagna loro le tempie e non li solleva. E a malgrado l’aria fresca e confortante di autunno che circola, nella nitida sala, sui bianchi letti, di cui si cambia ogni giorno la biancheria, vi è, insistente, quel particolare odor di febbre, che è nelle stanze di tutti gli infermi, e di cui s’impregnano le mura e i pavimenti, negli ospedali. Laggiù, non giace disteso, ma è seduto sul suo letto, quel tifoso che è arso da una febbre