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— Il tenente Carletto Valli?

— Sono io. Dà pure — ordina, sommessamente, l’ufficiale, che imbianca e arrossa, mentre riceve la lettera che il soldato avea nella giubba e che gli consegna. Ma egli non legge, davanti al soldato. Costui è immoto, guardando negli occhi l’ufficiale.

— Va pure... — dice Valli, guardando la lettera senz’aprirla.

— Non debbo portar risposta? — osa chiedere il soldato.

— ... no.

— Non debbo dire nulla?

— ... no... cioè, di’ che io manderò una risposta.

— Non altro?

— Non altro — poi, sogguardandolo. — Sei così impolverato... avrai sete... va a bere.

E gli dà una moneta. Il soldato saluta, inforca la sua bicicletta, sparisce. Con passo rapido, Carletto Valli si allontana verso un boschetto, ove è, nel mezzo, una fontana che brilla e canta al sole: ora, egli è nascosto dagli alberi. Strappa convulsamente la busta e legge: «Carletto, è la terza lettera, con cui ti scongiuro di raggiungermi, anche per un’ora, ma è anche l’ultima, perchè se tu sei così spietato, da non udire il grido della mia dolorosa passione, io mi uccido in questa stanza, dove spasimo da venti giorni... Ti aspetterò sino a domattina, non oltre. La vita non mi è niente, senza te, senza il tuo amore, senza il tuo bacio — Loreta».

È seduto, Carletto Valli, sull’orlo della fontana e ha il capo sul petto, sprofondato nel suo desiderio e nella sua disperazione. Federico Altomonte, un suo compagno, un suo amico, lo ha cercato, lo ha raggiunto, lo chiama, lo scuote. Carletto Valli leva il capo e dice:

— Altomonte, stanotte io debbo essere a...

E non pronunzia il nome della città che è lontana, ma non tanto lontana: non è necessario dirlo, Altomonte ha compreso il nome.

— Sei pazzo, Valli, è una pazzia!