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— E a chi, dunque? Donne non ve ne sono, da queste parti!
Il caporale Costantini leva la testa, inghiotte con difficoltà la sua saliva e risponde:
— A un prigioniero.
— A un prigioniero? — esclama, Guido Soria. — Dov’è, questo prigioniero, Costantini?
— Laggiù, nella chiesetta. Sono prigionieri che vengono da Strigno: li condurranno in giù, domani, tenente. Sono tre, anzi: ma due hanno mangiato qualche cosa: il terzo, il mio, muore di fame, poveretto....
— Il tuo? Il tuo? — seguita a gridare Soria, fuori di sè. — Tu soccorri un nemico, un austriaco?
— Non è nemico: non è austriaco: è prigioniero — risponde, a voce dimessa, ma chiara, il caporale.
— Costui, ieri, poteva ucciderti!
— Ma non mi ha ucciso: e, oggi, patisce la fame e la sete, tenente — seguita a rispondere, pianamente, ma senza esitazione, il marchigiano.
— I suoi compagni, i suoi compatriotti, domani, potranno uccidere me, te, i nostri compagni!
— Non è loro colpa, tenente — risponde, più fermamente, il caporale Costantini.
— E di chi è la colpa?
— Di chi ha voluto la guerra — dichiara Costantini, senz’altro.
— Chi l’ha voluta? Lo sai, chi l’ha voluta?
— I governanti: i superiori: i capi — dice, vagamente, Costantini, guardando in aria,
— Non sai altro?
— Non so altro, tenente. Nè debbo saper altro, io.
— E perchè hai pietà, di costui, perchè? — ritorna al suo violento sdegno, il tenente Soria.
— Perchè è uomo come me: avrà una famiglia, che ama, come me: una casa, a cui pensa, come me — e la voce del caporale Costantini, si vela di un’emozione che non sa vincere.
Il tenente Guido Soria, pallido, fremente, tace.