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guerra è per lui una liberazione... Purchè non gli venga troppo presto!

— Che dice, tenente? — esclama Camillo Moles, trasalendo.

— Dico che è tardi e che la ricognizione avrebbe dovuto già tornare... — confessa, così, la sua inquietudine, il tenente Sambucetti.

— Capece è un folle, è un folle! Chi sa dove avrà trascinato i miei uomini! Vada, tenente, s’informi meglio, mi porti notizie.

I due uomini si separano senz’altro. Il capitano Camillo Moles rientra nella rustica stanzuccia, che egli occupa in quella osteria fredda e sporca, che porta la insegna grossolana Stallazzo con alloggio di Gasparin. Il tenente Sambucetti si allontana, scendendo, presto, verso il campo fatto di baracche e di casupole miserabili. Camillo Moles, inquieto, agitato, va avanti e indietro, curvando quasi la testa, sotto quel tetto basso, dalle travi nude e rose, fermandosi, ogni tanto, all’unica finestretta, i cui vetri rotti sono stati sostituiti da fogliacci di carta giallastra, tutti macchie: egli ha schiuso le sgangherate impannate, e sogguarda, fuori, per la centesima volta, in quell’angolo di una valle di alta montagna, all’estrema avanguardia, dove lo hanno mandato coi suoi uomini, con qualche altro ufficiale, da tre mesi, senza nulla sapere, non un ordine, non una parola, solo l’arrivo del rancio, dal fondo della valle e ogni settimana, la posta, arretrata, i giornali vecchi. Obbliati da tutti? Chi sa mai! Il capitano Camillo Moles somiglia, oramai, molto poco, a colui che fu il grande professionista romano, l’eloquente penalista; tutte le linee del suo volto e della sua persona si sono trasformate. Egli si è molto dimagrito e la sua figura è più agile, più disinvolta, sotto i panni militari che indossa da tanto tempo: il suo volto scialbo, un po’ gonfio, si è come disseccato, gli zigomi e le mascelle si disegnano, sotto la epidermide fattasi bruna dal sole, dall’aria: spesso, non può radersi la barba e ciò aumenta lo scu-