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— Signor tenente — e si curva, Costantini, verso Soria per concludere — questo prigioniero parla italiano: italiano, come me!


— Come tanto tempo, don Lanfranchi, senza venirci a trovare? — e suor Serizia, dalla voce un po’ cantante, dal benigno piccolo sorriso, crolla la testa, sotto le candidissime bende, datele da san Vincenzo de’ Paoli.

— È vero... è qualche tempo: ma se sapeste, suor Serizia, che vi è lassù, al Podgora, donde vengo... — e il sottotenente Lanfranchi, che porta sul berretto del grigio verde, il segno sacerdotale, non continua, come sfinito.

— Mi sembrate assai stanco... sediamo, don Lanfranchi — e suor Serizia conduce don Lanfranchi, a un vecchio banco di legno, sotto una larga e fronzuta acacia.

Un tepido sole di settembre riscalda quel giardino, che è dietro l’ospedale della piccola città: il giardino è un po’ arido, un po’ brullo nelle sue aiuole non curate, ma le acacie e gli olmi che vanno lungo il sentiero centrale, sono ancora floridi e ricchi. In fondo al giardino dove il sole batte meglio, sono seduti i convalescenti dal tifo, in lunghe tuniche azzurro scure: non parlano, bevono l’aria, si scaldano al sole: sono lontani e non si possono vedere i loro visi, ma si intende tutto il mite conforto, che viene loro dalle forze che ritornano, dall’aria, dal sole.

— Sono stanchissimo, suor Serizia — sospira don Lanfranchi, guardando in terra. — Mi credevo più forte.

— Eravate, forte, don Lanfranchi...

— Ero, sì: ero contadino, sovratutto, magro, ma forte. Roma, la città, mi ha ammollito...

— Lassù, al Podgora la vita sarà assai dura...