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— Non vi è nessuno: nè i corpi dei due poveri compagni, Schiassi e Carravetta: nè il nostro tenente Capece — viene a rapportare, a capo basso, il caporale Martinengo. — Sparito, tutto...
— Dove è caduto, Capece? Ti rammenti? Puoi indicare? — chiede, vibrante di dolore e di sdegno, Moles.
— Qui, capitano, i due poveretti: e là, innanzi, a cinquanta metri, Capece, là, là... Capece era sempre avanti a tutti.
Vanno, Moles e Sambucetti, i due portatori, mentre i fanti restano fermi, in guardia, senza batter ciglio. È in un angolo della radura, dove è caduto Massimo Capece, colui il cui sangue generoso era bruciante della febbre di guerra. Si curva, Camillo Moles, a fissare la terra. Vi sono, sulle zolle aride, sulla poca erba, sulle pietre, delle piccole macchie rosse, ancora vivide: una macchia più larga, sotto un albero che è lì dietro. Anche il rugoso, screpolato tronco, ha una macchia di sangue: Massimo Capece vi si deve essere appoggiato, ferito.
— Ecco il suo sangue... — dice il capitano Moles, che è pallidissimo.
— Il suo sangue... — ripete il tenente Sambucetti: e si sforza a non far cadere le lacrime, onde sono pieni i suoi occhi di amico.
— Morto o vivo, il nostro eroico tenente? — esclama il caporale Martinengo, agitatissimo.
— Morto o vivo è in mano del nemico: e vivo, in quelle mani, Massimo Capece non vi resta. Io conosco. Lo abbiamo perduto — dichiara, tremante di dolore, Sambucetti.
— In un vile agguato, che infamia! — protesta il caporale.
Ma il silenzio, intorno, è attraversato da un rumore leggiero, aereo; è una sottile voce fresca e acidula che canta, non molto lontana, e di cui giunge solo una eco, come un soffio...
— Arm! — urla il caporale. — Là, là!
E addita un punto non molto lontano, visibile,