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la speranza d’aver abbastanza sofferto per mitigare il mio destino; l’energia ricuperata mi pareva bastevole a superar il destino, se mai mi tornasse avverso!


III.


La prima domenica di maggio vidi la Ca’ Rossa nella realtà, priva della poesia con cui me l’aveva descritta Moser. Di lontano, dalla strada appariva quale una vecchia casa di campagna messa a uso di villeggiatura e ritinta, se non di rosso, di gialliccio. Vi piombai inatteso durante l’intervallo fra due corse del tram a vapore. A scorgermi dal cancello — un cancello di legno — Mino, che giuocava alle bocce con un operaio, gridò: — C’è Sivori! c’è Sivori! — ; e Claudio, che assisteva alla partita, fumando, mi corse incontro anche lui; mi furono addosso, con abbracci soffocanti.

— Un saluto in fretta.... — rispondevo a quell’aggressione gioiosa. — Ho un malato grave laggiù.... Non posso trattenermi....

— Eugenia! Ortensia! Correte!; se no, scappa! — urlava Claudio.

— C’è Sivori! Sivori! — urlava Mino correndo intorno e tornando ad abbracciarmi.

Non ci eravamo visti da tanto tempo, noi due! Com’era cresciuto, il piccolo Mino! La commozione della nostra amicizia scusava il turbamento con cui mi presentavo a Eugenia ed Ortensia.

Erano uscite per la loggia, da una camera a terreno, ove scorgevasi della biancheria distesa