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E io:
— Ti proibisco di tirare alle rondini!
Ne accennai il nido ad Ortensia.
— No! babbo! sii buono! — pregò essa con pietà che parve improvvisamente ridestata in lei.
— Hanno il nido!
— Lasciatemi fare! I rondoni sono scapoli!
E sparò contro una rondine, s’intende, senza colpirla.
Dopo che la colazione fu divenuta merenda e mentre Claudio e il vecchio s’incamminavano verso il paese, io e Ortensia prendemmo il sentiero più breve per giungere alla risaia. Ortensia non aveva notizia della sciagura dello Zingaro; nondimeno evitai la parte ov’era stato il «capanno» e la condussi a costa della landa, di dove più spaziava lo sguardo. Ella guardava, con poche parole: io godevo che lo splendore del giorno le penetrasse nello spirito. Mai più chiaro cielo; mai aria più aulente e quieta; mai più vivaci fiori nell’aperta piana, in cui il fieno maturava per la seconda falciatura.
La varietà dei colori assorgeva concorde dal verde come quella delle voci in una sinfonia meravigliosa: giallo di stelline, crocifere e ranuncoli; lilla di porrette; viola di morette, castagnole e salvie; bianco di magnugole e nigelle, ravizzi e narcisi; rosa di ginestrine, lupinella e trifoglio; rosso di serpillo, sorbastrella e papaveri; porpora di graziole; cilestre e azzurro di giacinti e fiordalisi, di poligole e bugiasse....; e margherite da per tutto! Quante!
Di tratto in tratto Ortensia si chinava a spiccare un fiordaliso, o un garofano, o un geranio campestre. Poscia tendendo la mano esclamò: