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giorno, lassù, pur nel momento in cui mi confidò il conflitto tragico dell’animo suo, pur quando disperata invocò il mio consiglio, qualche cosa di misterioso s’interpose a quella espansione».

Era stato l’ultimo rancore del male che le avevo fatto? Era stato l’orgoglio ferito dal soccorso che io promettevo alla sua famiglia o dallo stesso consiglio ch’ella si sentiva costretta a chiedermi? O quali altri sospetti ottenebravano l’anima dolorosa mentre l’agitava lo spavento del disonore paterno?

Questo, questo, il mio maggior tormento nelle tregue dalle fatiche quotidiane, o nelle notti insonni!

E quando non ne potei più, sapete che feci? Scrissi a Ortensia, col pretesto d’aver da lei notizie della famiglia. Per poco non mi rimproveravo di soverchia audacia! Ella rispose subito. A leggere e rileggere quelle poche righe — la prima lettera di Ortensia che io ricevevo! — facevo rabbia a me stesso; tentavo esprimere da poche parole un significato che non avevano; non sapevo persuadermi che dopo tanto amore e con tanto amore io dovessi rassegnarmi a una letterina di stile perfettamente amichevole. Stanco di me e della lettera, la stracciai; mi pentii d’averla stracciata. Affettuosamente — e a me pareva in modo freddo — Ortensia mi dava notizie di tutti: del padre sempre in speranze; della madre sempre fidente in giorni migliori; di sé che stava «discretamiente». Aggiungeva:

Si parla ogni giorno di voi, Sivori; se ne parla non solo come di un benefattore ma come di uno di noi, della nostra famiglia che sia lontano.