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Piuttosto m’eccitava dunque a una vita forte e utile la virtù del sacrificio da me compiuto a pro dell’amcizia?

Via! Contro le pene che mi dava il ricordo dei Moser, poco valeva la soddisfazione del servigio reso a Claudio. Per Claudio era già venuto il dì dell’ultimo strappo: dell’addio alla villa. Che cuore era stato il suo in quel giorno? E Ortensia, che era rimasta con lui fino all’ultimo momento?... Poi sapevo come Claudio, dopo aver trasferito la famiglia a Milano con la speranza di trovarvi subito impiego, consumava la smania di operare in una triste vicenda d’illusioni e delusioni.

Intanto Ortensia e Eugenia dimoravano a Milano, col pericolo d’imbattersi in Roveni o d’esserne insidiate. Senza dirle quale vendetta egli forse meditava, io, partendo, avevo scritto a Eugenia affinchè stesse in guardia; invigilasse soprattutto alla posta e sottraesse qualsiasi lettera indirizzata a Ortensia: dubitavo di una lettera anonima. Eugenia mi aveva risposto che seguirebbe attentamente il consiglio. Ma quel dubbio della lettera anonima mi era, in certi giorni, un’ossessione; mi affliggeva anche il timore che Eugenia potesse scoprire la calunnia incombente su di lei; e avevo un bel dirmi: «avvenga che può, coscienza ci assicura».

Ortensia non l’avevo più riveduta. Per ripugnanza che io assistessi più oltre alla sua distruzione, Claudio non aveva insistito che l’accompagnassi a Vialdigorgo, e io non avevo osato andar con lui, quasi a raccogliere riconoscenza. Così non potevo raffigurarmi Ortensia che con le attitudini e le parole dell’ultima volta che l’avevo vista, runica volta dopo tre anni; e mi ripetevo: «Quel