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— Faremmo una pazzia sola — io dissi ridendo.

— Ma la fareste finita: sarebbe ora!

Guardai Ortensia. Ella esclamò:

— Io non voglio, farla finita! Sempre cane e gatto noi due! E il gatto sono io!

Soffiava contro al bambino e lo minacciava con le unghie.

Egli mi sfuggì, per rincorrerla.

Allora Marcella mi susurrò:

— Se il babbo non fosse cieco, o io potessi parlare....

— Zitta!

— Sì, sì: starò zitta; ma è ora di finirla! Aspettatevi un tiro birbone, Sivori!

Ed io m’aspettai il tiro birbone. Chi m’avrebbe mai detto che Marcella me ne giocherebbe non uno ma due, e uno più ardito dell’altro?

Dopo colazione, Bebe e il cavaliere — che ci promise una grande, strepitosa notizia per l’ora del desinare, entre la poire et le fromage — andarono a godersi un meritato riposo; e mentre Ortensia attendeva a faccende e Claudio e Mino conversavano fuori all’ombra con Cleto l’ortolano, Eugenia mi disse che lei e Marcella avevano una cosa da dirmi.

Marcella m’aspettava nella camera da pranzo. Su la tavola era un piccolo pacco e a quello ricorsero gli sguardi delle signore, che sorridendo l’una all’altra non mi celavano un grande imbarazzo.

— Parlo io o parli tu?.

— chiese Eugenia alla figliola.

— Tu, mamma. Sivori mi mette sempre un po’ di soggezione.