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IV.
Uscendo ai sole dai tuguri ove i malati gemevano o deliravano, ani pareva di gettarmi in un bagno che mi purificasse e ravvivasse d’un tratto. Più: certe volte la vita esterna mi colpiva con tal forza che ricevevo un’impressione quasi dolorosa, quasi di una ferita troppo presto esposta a un calore forte e improvviso.
Comprendevo ora come effetto d’una stessa necessità il fervore che agitava le messi sempre più rigogliose, che moveva i ragazzi e i vitelli a correre e a ruzzare nei prati e la vecchia Rita a cantare con la stessa anima dei passeri affaccendati intorno al tetto della mia casa. Nè io mi ritraevo più da quel fervore, non sfuggivo più a quella necessita; e mi chiedevo quante primavere resterebbero ancora ai miei sensi; e avvertivo in me un egoismo profondo e buono perchè naturale.
Ma abbandonandomi in questo sentivo che gran parte di me stesso mancava ancora a me stesso: sentivo che felicità mi era possibile e che felicità mi rapiva, mi strappava, divisa da me, Ortensia. La sete d’amore in quei momenti mi esasperava.
Se allora avessi avuto dinanzi a me Ortensia e mi avesse convinto che essa non mi amerebbe mai più, che io non saprei mai più ridestarla al mio amore.... che. avrei fatto?
Chi mi aveva condotto ad amarla in tal modo?
Lei! Lei mi aveva ridata la vita; per lei rivi-