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— Oh gettarsi là, in mezzo; a correre e cantare!...

— Va! — dissi io.

Ella sorrise triste:

— Non si può, senza calpestare.

Timidamente, nei tardi passi, io avvertivo che il suo sguardo era pieno di ricordi. Ma il suo sguardo era triste, mentre in me pareva approfondirsi la coscienza dello spirito, estendersi la capacità vitale d’ogni senso, vibrare ogni minima forza a una sconosciuta armonia. Che giorno!

Rapiva una letizia lieve quasi di sogno eppure tenace e valida; era un’illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà intorno; un vago desiderio, continuo, di continuo esaudito nel fluire degli attimi; e più che la promessa della semplice felicità umana, ferveva nel sole, nell’aria, nella terra palpitante di fecondità, una felicità certa e immnanente, naturale e sublime.

Ma Ortensia era triste....

Giungemmo all’argine. Quasi per frenare una sensazione troppo forte, essa teneva la mano contro il cuore: attese prima di salire e disse: — Qui l’aria mi sembra più greve.

— Anche pochi passi — diss’io — e saremo al serbatoio.

Di su l’argine mi domandò perchè la risaia era così divisa, in tanti quadri.

Risposi:

— Perchè il vento non agiti l’acqua e l’acqua non rompa le pianticelle ancora tenere.

— Ma dell’acqua ce n’è poca!

— L’acqua è ancora fredda, e, al contrario, la prima messe del riso ha bisogno di caldo.

Eran dimande e risposte che protraevano altre dimande e altre risposte. Io aggiunsi: