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V.
La sera dì quello stesso giorno che mi consolò la lettera di Moser, il caso (sempre il caso?) mi volle solo spettatore d’un fatto che restò quale orribile episodio di miseria e di sventura nella storia del mio paese. Lo narro perchè io, atterrito un tempo dal pensiero della morte, fin da esso derivai argomento d’esaltare la vita.
Ero tornato a casa da qualche ora e fumavo alla finestra della mia camera. Dalla luna quasi colma pioveva sul mondo una luce di letizia.
Mi giungeva il cricrire copioso e vasto dei grilli e il gracidare delle rane e il canto dei birocciai, dalla via maestra:
Guarda la bella notte e il bel sereno!
Quest’è una notte da rubar le donne:
Chi ruba donne non si chiama ladro;
Si chiama giovinetto innamorato....;
ma al di sopra e al di là di quelle voci era l’immenso sensibile silenzio della notte feconda, quando la natura raccoglie e rinfranca in segreto le sue molteplici forze e si prepara alle più rigogliose espansioni.
Improvvisamente, da sotto la finestra, il Biondo mi chiamò:
— Signor dottore!
— Che volete?
— C’è qui giù la Tisa dello Zingaro, che ha suo marito che sta male.
Bisognò discendere. E venne innanzi l’ombra