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su una tavola: Eugenia con un oh! di grata meraviglia; Ortensia pallida.... Nulla dell’impeto mal represso con cui era venuta a me a Valdigorgo; era pallida, quasi stanca, e mesto il sorriso.

— Come state, Sivori?

— Sapete che non vuol restar da noi oggi? — riprendeva Claudio. Ed Eugenia e Ortensia a una voce:

— Perchè?

— Perchè, perchè un povero diavolo laggiù ha bisogno del suo permesso per andare all’altro mondo! Gli credete? a costui?

— Sì — rispose, naturalmente, Ortensia.

— Non insistiamo — disse Eugenia — , se ci promettete di tornar presto.

Avrei voluto indugiarmi a discorrere con le signore; ma Claudio mi trascinò seco.

— Andiamo dunque! presto! a dare il tuo giudizio della Ca’ Rossa, che ho scoperta io e non tu! Cominciamo, signor critico, dall’esterno.

Intanto Mino aveva ripresa la partita; e madre e figlia ci accompagnarono un tratto ma ristettero dinanzi a pochi meschini vasi di gerani al sole.

— Il panorama non è molto vario — ammetteva Claudio. A levante erano la strada e l’ingresso; a mezzodì, di là dal prato, che una siepe di biancospino in fiore limitava, si estendeva la vigna: tra questa e l’orto, spaziante a ponente e a settentrione, scendeva una carraia....

— La carraia passa da quella casupola laggiù, dove sta l’ortolano vignaiuolo: colui, là, che gioca con Mino. E la carraia prosegue sino al fiume, e di là un sentiero lungo la riva, mi conduce, in due passi, alla fabbrica. Potevo essere più fortunato di così?