Addio (Neera)/Addio
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Amor che nasce e si matura in colpa, |
A bordo della Trinacria, 17 aprile 1876.
.... Lasciando il mar Jonio, il bastimento si culla dolcemente sulle onde azzurre dell’Adriatico. — Fra pochi giorni toccheremo i lidi di Grecia.
Che fai, cuor mio? Perchè tremi? La sorte è gettata.
L’ampio mare si farà ora guardiano della mia passione ed appena i suoi flutti mormorando porteranno alle sponde italiche i miei sospiri..... Rinchiuditi o cuore.
E tu, culla delle mie illusioni, addio! Addio, mia patria, mia casa paterna, dove crebbi innocente e pura; addio, mie gioie d’una volta, mia vita felice!... addio passato!
La brezza d’aprile folleggia intorno, tutta profumata di sali marini; i passeggeri giulivi ciarlano appoggiati al parapetto del ponte — si prevede un’ottima traversata.
Io sola cupa, pensosa, contemplo invano il sorriso del cielo sospeso come un’ironia sulla profondità degli abissi.
Non vedo che lui... lui — sempre lui! La sua pallida faccia rigata di lagrime, i suoi occhi potenti, la sua voce che mi grida: Vieni meco, t’amo!
Oh! sciagurata io posso mettere l’oceano fra noi due, ma non posso cancellare dalla mia bocca l’impronta de’ suoi baci e dall’anima mia la sua imagine! Finché il mio labbro saprà pronunciare una parola, ripeterà il suo nome.
Io fuggo; ma l’amore mi segue indomito. Che farà egli ora? Che penserà di me?
Massimo, te lo giuro — qui dove nessun mi sente, su queste pagine che nessuno leggerà mai, alla presenza di Dio che solo deve giudicarmi, io compio il mio dovere, ma ti amo — ti amo disperatamente. Ancora una volta; Massimo, ti amo!
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Scrivere è l’unico mio conforto su questa nave dove sono straniera e che mi trasporta lungi dalla mia patria, lungi da tutto quanto ho amato in terra.
Mi compiaccio nel ricordare il mio breve passato e prepararmi per l’avvenire, che torbido e indefinito mi si presenta, una specie di tempio dove possa raccogliermi in me stessa e rivivere i giorni che non torneranno mai più.
Ma è forse colpa anche questa. Io dovrei calare una pietra immobile come l’avello sulle mie reminiscenze... è vero; ma chi non ama visitare i suoi morti nelle tombe? A chi non è concesso coltivarvi un fiore?
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Figlia a un intemerato veterano delle patrie battaglie — glorioso soldato del ventuno e del quarantotto, campione di tutte le virtù — io crebbi come una giovane spartana, fra gli esempi di magnanimità e di valore. Mi insegnarono a disprezzare tutto ciò che è basso e codardo, a odiare l’ipocrisia, a portare nobilmente e alteramente come un diadema regale il blasone dell’onestà.
Impaziente di cimentarmi nelle lotte di cui la mia giovanile baldanza mi mostrava facile il trionfo, entrai nel mondo a fronte alta e sicura; il nome di mio padre m’era solo usbergo, la severità de’ miei principî, arma infallibile; ed io la inalberai in atto di sfida.
Come l’Eva senza peccato, mostrava orgogliosamente il mio cuore nudo, ignaro delle insidie.
Non era coraggio il mio — era temerità. Il pericolo di una caduta non si presentava neppure al mio cuore battagliero, avido di emozioni.
Aveva vent’anni, e credeva che il dovere bastasse a riempire tutta una vita.
Il mio corpo sano e vigoroso non conosceva mollezze. L’aria libera dei campi, le cavalcate, il lavoro, le letture serie e istruttive, poca musica, il disegno e le lunghe chiacchierate con mio padre erano tutte le gioie, tutti i piaceri della mia giovinezza.
Non aveva amiche.
Qualche volta mio padre mi conduceva in città; qualche altra si radunavano nelle vecchie sale del nostro castello i suoi antichi fratelli d’arme; ed erano allegre serate dove la galanteria non aveva nulla a che fare, ma dove io mi divertivo ascoltando racconti di guerre e di congiure.
In questo modo conobbi un colonnello che aveva trentanove anni — ed era sicuramente il più giovane dei nostri amici.
Alto, biondo, un po’ calvo, di nobili maniere, simpatico, meritava l’attenzione di una fanciulla da marito — ed io gliel’accordai non appena mi accorsi che egli l’implorava.
Tacitamente i nostri amori tranquilli ebbero l’approvazione dei veterani che ci osservavano con interesse. Un giorno mio padre mi disse:
— Il colonnello ha chiesta la tua mano. Egli è un nobile cuore al quale confido ben volentieri l’unico tesoro ch’io m’abbia — sono convinto della felicità che ti aspetta con lui; ma la tua inclinazione non dev’essere violentata. Consulta te stessa mia diletta figlia; è l’amore, non l’obbedienza, che deve condurti all’altare.
— Io l’amo: risposi fermamente senza arrossire e senza tremare.
La sera stessa il colonnello riceveva dalla mia bocca la solenne promessa.
I timidi pudori, le caste esitazioni, tutti i palpiti, tutte le ansie segrete delle giovani spose io non le conobbi.
Balda di sicurezza, vincolai lealmente il mio avvenire a quello di un compagno che stimavo, che amavo — nè mai ombra di dubbio offuscò la mia fede serena, mai paura di pentimento venne a turbarmi.
Dal canto suo mi aveva ciecamente confidata la sua felicità, nè alcun matrimonio fu contratto sotto migliori auspici del nostro.
Nessuna nube prima — nessuna nube poi.
I marinai pretendono che quando il cielo è soverchiamente calmo si prepari più terribile la bufera.
I mesi si succedevano e noi eravamo proprio felici.
Mio marito mi usava le più affettuose premure; il suo carattere sempre eguale, benevolo, un po’ serio, armonizzava perfettamente co’ miei gusti e colle mie abitudini.
Egli era studioso, ed io amavo lo studio; ambedue nemici della sentimentalità, ma entusiasti della natura; la medesima simpatia ci guidava nella scelta dei nostri poeti. Noi preferivamo Shakespeare ad Ossian, Hugo a Lamartine — e dei poeti italiani non leggevamo che Dante. Foscolo lo avremmo ammesso volentieri senza il fallo imperdonabile dell’Ortis.
Mio marito diceva spesso: L’amore è il fuoco che riscalda, la passione è l’incendio che distrugge.
Nelle ore solitarie che ci riusciva di sottrarci alle esigenze del mondo, quante volte sotto i platani inargentati dalla luna o presso la fiamma del domestico focolare, colle mani congiunte, cuore su cuore, io lo udiva dolcemente commosso parlarmi così:
— Valeria, io non ti amo perchè tu sei bella. Migliaia di donne sono belle come te! — ma tu sei molto più che una femmina leggiadra, sei l’altare de’ miei voti, sei il tabernacolo della mia fede, sei la custode immacolata dell’onor mio e della mia virtù.
Io era fiera di mio marito. Pel suo talento, per i suoi meriti militari, per la sua vita integerrima egli primeggiava fra tutti gli altri ufficiali; una onoratissima carriera gli si schiudeva davanti — era prediletto dai superiori e gli inferiori lo amavano perchè buono e indulgente.
Un solo dispiacere turbava qualche volta la pace della nostra vita intima.
Dopo due anni di matrimonio io non aveva ancora la speranza di diventar madre.
Il colonnello affettava di non parlarne, ma in segreto soffriva — ed io pure.
Noi vivevamo in una agiatezza che confinava col lusso. I gretti pensieri dell’economia non gettavano la loro prosa orribile sulla poesia del nostro matrimonio — eravamo felici e ricchi.
Sì, lo ripeto — mai due esistenze raccolte sotto l’egida dell’amore, trascorsero giorni più placidi, più sereni — e lo ripeto non per confortarmi, ma per un’amara voluttà di tormento che mi fa più acre e insopportabile il rimorso.
Egli era nobile, leale, generoso... ed io l’ho indegnamente tradito. Ah! la mia espiazione non sarà troppo dura. Pellegrinando nel mondo sola, avvilita, sotto il peso di un lutto eterno, vedrò giovani coppie felici e la mia coscienza mi ripeterà tremando:
— Così tu eri... sposa venerata e cara.
O mia perduta felicità, o santi diritti della donna onesta, o precetti d’onore calpestati o padre, padre mio!
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Coraggio! La via della penitenza è tracciata; percorriamola con passo sicuro; — e tu mio povero cuore esala gli ultimi aneliti di una passione che deve morire.
Il grado di mio marito, la sua nascita, il suo stato, le nostre stesse relazioni mi obbligavano a ricevere molte visite e a frequentare le conversazioni. Io vi portava, come da fanciulla, tutto l’orgoglio de’ miei principi, tutta la fierezza della mia virtù.
Mi ammiravano, convien dirlo, ma mi amavano poco. Alle donne io facevo invidia — agli uomini dispetto, ma io non cercavo l’amicizia di nessuno e le strette di mano che l’usanza impone non oltrepassavano la pelle del mio guanto.
Una sera — in casa della principessa — qualcuno nominò il giovane marchese Lit*** che era stato recentemente promosso a un alto grado nel Ministero degli Interni.
— Le sue conquiste cresceranno ora, — disse la principessa.
— È dunque un don Giovanni? — domandò il sottotenente B***.
— Direi che è un don Giovanni in senso inverso; egli non cerca le donne, ma le donne cercano lui.
La principessa aveva almeno sessant’anni e poteva parlare impunemente; un sorriso incredulo spuntò tra i baffi del sottotenente che si fe’ lecito mormorare:
— È un uomo fatale senza dubbio!
— Appunto, fatale! C’è in lui qualche cosa d’indefinibile che affascina e che soggioga.
— È vero — interruppe mio marito — ha uno sguardo magnetico.
Io che non aveva ancora parlato in proposito esclamai:
— Ma qui vi sono degli increduli sul magnetismo; per la prima mi dichiaro contraria alle teorie di Mesmer.
Il sottotenente, che era sciocco e vanesio, mi ringraziò con uno sguardo, supponendo forse che avessi voluto sostenerlo; — io provai allora un sentimento di alterezza offesa e replicai per confonderlo:
— Eccetto che non si tratti di quel magnetismo naturale che diffondono due occhi intelligenti e che noi siamo così poco avvezze a vedere nei nostri ridicoli e pretensiosi damerini.
Il sottotenente si morse le labbra; la principessa riprese la parola con fuoco:
— Non discutiamo il magnetismo, — chiamatelo come volete, ma qualche cosa in quegli occhi c’è. Conosco più di una signora che perdette i sonni per aver creduto di poterli guardare impunemente. Vi confesso che tre secoli addietro non mi sarei fatta scrupolo di accusarlo come stregone... salvo però a fabbricargli io il rogo.
Questa facezia della principessa fece ridere e la conversazione cambiò argomento.
Aveva quasi dimenticato il nome del marchese Lit*** quando uno dei miei poveri venne a raccomandare un suo figliuolo per una supplica al ministro. Gli risposi che non conoscevo alcuno ed egli mi citò il marchese come persona autorevolissima, il cui appoggio sarebbe stato oltremodo prezioso.
Quantunque il marchese non fosse de’ miei amici, capii che era cosa facilissima fargli pervenire un cenno della supplica. Proprio in quel momento capitò la principessa e mi parve occasione favorevole per il mio protetto.
— Siete fortunata, io devo recarmi da Lit*** — disse la principessa — parlerò subito di questo affare; ma... potreste venire anche voi, — è forse meglio.
— Permettetemi di non crederlo; io sono affatto sconosciuta al marchese.
— Ragione di più. Si tende sempre più o meno all’ignoto, il marchese non saprà resistere ad una X così seducente.
— Ma, cara signora volete che io mi presenti a un uomo che non conosco, per chiedergli un favore?
— Timidezza da collegiale. Oramai le collette e le fiere di beneficenza hanno reso comuni le visite dalle donne agli uomini. — Notate che noi ci rechiamo al Ministero degli Interni, terreno neutrale, sale d’ufficio, un luogo pubblico infine. Fate conto che siamo due patronesse del baliatico, e che prendiamo d’assalto il marchese nelle sue trincere di diplomatico per portargli via venti lire. Andiamo, decidetevi, — la mia carrozza è abbasso; fra mezz’ora siete di ritorno.
Duravo fatica a risolvermi, ma entrò il colonnello e la principessa colla sua loquela se ne fece un alleato.
Non potevo più rifiutare. Gettai in testa un velo, lo fermai con una viola, e mi dichiarai pronta.
— Nessuno dirà che ti rovini per il lusso! — esclamò mio marito vedendomi così dimessa.
— Vo a fare l’avvocato dei poveri, — risposi sorridendo.
Il marchese ci ricevette in un salotto semplice e severo; egli scriveva, quando entrammo annunciate da un domestico d’ufficio.
Si alzò e mentre stringeva la mano della principessa lo guardai curiosamente. Anzitutto non mi parve tanto giovane, — e poi freddo, sotto la sua maschera di cortesia convenzionale; — nulla di singolare nei lineamenti, — una dignità riservata e studiata: i famosi occhi che io mi figurava grandi, neri e scintillanti, erano grigi seminascosti sotto le lunghe palpebre.
— Una mia buona amica, la contessa Murari, — disse la principessa presentandomi, — ella ha qualche cosa da chiedervi, spero bene che non le direte di no.
Avevo fretta di spiegare il motivo della mia visita e non lasciai tempo al marchese di farmi molti complimenti, — del resto non so se me li avrebbe fatti.
Il suo contegno era serio, di una serietà un po’ astratta e malinconica.
Promise di occuparsi del mio protetto e si impegnò a darmi subito una risposta.
— Potrò aver il piacere di portarla in persona? — chiese dopo un momento di esitazione.
Non avevo nessuna ragione per dirgli di no, — anzi il più semplice precetto delle convenienze mi impose l’obbligo di rispondere che il piacere sarebbe stato mio nel riceverlo.
— Dunque, Valeria, — disse mio marito aprendo una finestra, poichè il caldo era intenso nella piccola sala dove avevamo pranzato, — com’è andata la tua missione diplomatica?
— Oh diplomatica! amico mio, mi fai troppo onore. Fu una cosa semplicissima; chiesi la promozione di un bravo e buon giovane, — mi si rispose colle solite promesse, tutto finì lì.
Attilio si appoggiò al davanzale, — io me gli feci accanto, — e poichè gli alberi di un vasto giardino mascheravano la nostra finestra, curvai la mia guancia sulla sua spalla. Un senso arcano e pauroso mi dominava, una insolita tenerezza, una malinconia fantastica e irrequieta.
— Attilio — gli dissi — come mi piacerebbe rivedere in questi giorni la mia casa paterna e il mio buon babbo!
— È un desiderio naturale, legittimo, ma perchè, cara, proprio in questi giorni?
— Non so — forse la stagione.
— Tu sei libera, Valeria; ma aspettando qualche settimana io potrei accompagnarti.
— Ora non puoi?
— No, assolutamente; il servizio mi tiene fra i suoi ceppi.
— Non ne parliamo più.
Il discorso cadde.
Io continuavo a tenere la testa sull’omero di mio marito e la mente vagava lontano lontano, sotto i platani del giardino ov’era trascorsa la mia fanciullezza, in quelle gran sale del vecchio castello, sulle pareti istoriate che avevano così sovente ripercosso l’eco delle mia grida infantili tra i racconti di memori battaglie.
E più lontano ancora, — in paesi incogniti, in mezzo a foreste sbattute dal vento, su sabbie dorate lambite dall’oceano, su montagne inaccessibili, entro grotte imaginarie di corallo e di lapislazzuli, tra le emozioni del deserto, sotto l’ombra delle palme... che so io!
Mai la mia immaginazione erasi eccitata in tal modo.
— Valeria! — chiamò dolcemente la voce di mio marito.
Mi scossi e rialzai il capo.
— Ti senti male?
— No, amico mio.
Le tenebre si addensavano sull’orizzonte; chiusi la finestra e accesi i lumi.
— Vuoi uscire, Valeria? La sera è bellissima.
— Ti ringrazio, mi sento stanca.
— Io ti terrò egualmente compagnia.
Un impeto di tenerezza mi spinse a gettargli le braccia al collo.
— Quanto sei buono, Attilio!
— Buono? — diss’egli sorridendo — no, ti amo.
L’ordinanza del colonnello entrò portando lettere e giornali.
Intanto che mio marito leggeva la sua corrispondenza, io apersi i fogli cittadini e percorrendo con occhio indifferente le notizie del giorno fui colpita dall’annunzio di un duello.
— Attilio, sai? un duello fra il sottotenente B*** e l’avvocato F***.
— Sì, per cagione di sua moglie; — ebbe luogo stamattina.
— Possibile? — dopo un anno di matrimonio!
— Eppure è così. Da oltre un mese la signora F*** aveva secreti abboccamenti col giovane ufficiale; non si sapeva nulla della tresca condotta con somma prudenza; ma un biglietto smarrito, credo, o il destino che si diverte a tessere e ad imbrogliare intrighi, svelò tutto.
— È orribile. Ingannare un marito così onesto, così degno di stima come l’avvocato, — e per quell’antipatico B***! E poi fossero anche le parti invertite, antipatico il marito e l’amante pieno di meriti, non scemerebbe punto la colpa.
— La società, mia cara Valeria, non è tanto rigida: perdona volentieri o almeno dimentica questi peccati color di rosa; — si ammettono le circostanze attenuanti, l’occasione, i nervi, il fascino irresistibile...
— Ah! no, Attilio, è un’infamia. Non può esistere nessuna scusa per questa sorta di delitti.
— Tu sei un angelo, vedi il mondo attraverso la tua virtù!
Così parlò quel nobile amico attirandomi sul suo cuore... l’ultima volta forse che io era degna di posarvi sopra.
La mia vita scorreva sempre placida e serena.
Era sbollito in me l’impeto momentaneo per la campagna e se desideravo ancora di abbracciare mio padre, non sollecitavo però la partenza. Restammo d’accordo, mio marito ed io, che si sarebbe aspettato l’autunno.
— Ho qui una lettera per te, — disse un giorno il colonnello entrando nella mia camera.
— Chi scrive?
— Lo ignoro; fu recata da un servitore.
— Aprila, mio caro; non ho segreti. È forse la nota della sarta.
— Non credo. La calligrafìa è femminile, ma oltremodo ferma ed energica per essere proprio mano di donna; troppo bella poi per una sarta, — infine il suggello è sormontato da una corona coi tre gigli del marchesato.
— Aprila dunque, vedremo il motto della sciarada! — esclamai mostrando una indifferenza spigliata che non sentivo in cuore.
— A voi contessa! — rispose Attilio porgendola con galanteria; — l’ufficio di segretario è troppo... o troppo poco per un marito.
Presi la lettera con una mano, mentre con l’altra lo tratteneva, avendo egli fatto un movimento per lasciarmi.
La busta era di carta grigia finissima; la stracciai con un po’ di violenza, e spiegato il piccolo foglio che conteneva, lessi in calce: Massimo Lit***.
Il marchese mi scriveva due parole per avvertirmi che le sorti del mio protetto si avviavano bene, ma occorrevano alcuni schiarimenti sulla sua vita antecedente.
Gettai la lettera con un lieve dispetto.
— Quanto rumore per nulla!
Mio marito era venuto a prendermi per fare una passeggiata; accettai la sua proposta, e uscimmo insieme. Alla sera risposi un bigliettino al marchese dandogli le spiegazioni che io sapeva; — ebbi cura di adoperare il suo medesimo stile grave e laconico; ma per quanto facessi, non potei imitare la calligrafia che era di una eleganza squisita e tutta aristocratica.
Due giorni dopo mi trovavo sola — un po’ annoiata anche — quando il domestico d’anticamera mi annunciò il signor marchese Lit***.
Ero lungi dall’aspettarlo, non potei frenare un tremito che attribuii alla sorpresa. Mi composi però subito a freddezza pronunciando con calma la parola d’ordine:
— Fate passare.
Egli entrò — mi parve tutt’altro uomo. Di mezzana statura, ma di forme eleganti e di modi gentili.
Il suo volto pallidissimo non aveva barba; solo due baffi neri gli ombreggiavano il vermiglio delle labbra. Le occhiaie infossate, come di chi o lavora o pensa o vive troppo, lo mostravano a tutta prima più vecchio di quello che fosse in realtà — aveva forse trentadue anni — non più sicuramente.
Con una grazia perfetta egli disse che la mia lettera lo aveva rischiarato troppo poco sul conto del mio protetto, sperava che parlandoci ci intenderemmo meglio.
Lo ringraziai e mi feci a spiegargli le circostanze richieste.
Il salotto, tappezzato di un rosso cupo colle pesanti cortine di damasco che arrestavano sulla finestra i raggi del sole, ci lasciava in una oscurità blanda piena di mistero.
Intanto che io parlavo i suoi occhi stavano fissi ne’ miei, — come mai non li avevo osservati prima? Erano occhi profondi e luminosi, carichi d’elettricità come un bel cielo d’estate; lo sguardo dardeggiava audacissimo sotto le palpebre semichiuse e colorandosi ai riflessi di un fuoco interno, assumeva tutte le gradazioni dal bruno dorato all’azzurro fosforescente. Nella nera pupilla, fissa sul fondo tremulo, si raccoglievano fasci di luce di un effetto potente.
Compresi allora tutto ciò che si diceva su quello sguardo e perchè lo chiamavano magnetico.
La nostra conversazione per sè stessa non avea nulla d’importante, ma gli occhi del marchese parlavano un linguaggio diverso della sua bocca, ed era un linguaggio che parlava stranamente ai sensi.
Per sottrarmi al fascino cercai una frase:
— Signore, se qualche cosa mi può far perdonare dell’abuso che faccio della vostra gentilezza è il pensiero che vi associo ad un’opera buona.
— Dimenticate, contessa, il lato migliore per me.
Si interruppe — mi guardò — le sue pallide guancie si accesero d’un riflesso purpureo.
Mi alzai col pretesto di rimettere a posto le cortine.
Egli pure si alzò.
Vi fu un momento di confusione, fugacissimo, perocchè mi affrettai a stendergli la mano.
— Quando potrò sapere l’esito sicuro?
— Dipende dal ministro, ma io sarò ben felice di tenervi ragguagliata sulle speranze che mi daranno.
Non vi era altro da aggiungere. Strinse la mia mano con una dolce energia; con quella pressione consapevole e sapiente che fa del più comune fra gli atti un godimento raffinato di voluttà: — ma bisogna avere, com’egli aveva, una mano morbida, tiepida, singolarmente bella. Tenne per un istante le mie dita chiuse fra le sue, poi le lasciò andare ad una ad una, lentamente, quasi il distacco gli costasse fatica — e si sentiva sotto l’epidermide trasalire il sangue.
Da tutta la sua persona emanava un fluido caldo, simpatico; un’espressione che dava vita ai suoi lineamenti, una tristezza appassionata che soggiogava.
La prima volta che lo avevo veduto, sì, è vero, ero restata fredda; — il suo decantato fascino non si palesava esteriormente che con una avvenenza comune.
Ma conveniva parlargli da solo a sola, respirare a due passi di distanza l’aria tutta piena del suo magnetismo; conveniva sussultare e arrossire e smarrirsi davanti a quello sguardo che scendeva dritto nei recessi del cuore a frugare le più nascoste sorgenti della debolezza umana!...
È facile custodire il nostro cuore sotto una corazza di bronzo, finchè le freccie nemiche sono d’acciaio e vi si spuntano.
Ma quando giunge la freccia infuocata che scioglie e disperde tutto; quando, sicuri del nostro baluardo, ci troviamo invece un dì esposti sulla breccia, quando l’ora terribile è giunta?..
Ah! va, va sciagurata — nessuna ora appartiene alla colpa — essa possiede soltanto quelle che la virtù le abbandona!
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Affranta dalla lotta terribile che combatto con me stessa, martire volontaria di un tremendo sacrificio, la mia testa si perde molte volte e tenta illudersi — ma per un grido della passione sorgono i mille gridi della coscienza e chiamano bugiarde tutte le teorie di un colpevole amore.
Non vi è grazia per la donna caduta — l’espiazione è l’unica meta della sua esistenza.
Io, io stessa lo diceva — sono un’infame!
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Or ripiglia la tua croce e cammina!
La visita del marchese mi gettò in un turbamento inesprimibile — nuovo affatto per me. Ero stata così poco giovine fino allora!
I begli anni che si sogliono consacrare all’ideale, io li aveva trascorsi in un positivismo ascetico e selvaggio; aveva imparato a odiare la debolezza senza conoscerla, e persuasa nel mio orgoglio che non l’avrei conosciuta mai.
Che sapevo io dell’amore? I miei sensi dormivano quando feci la scelta d’uno sposo — la mia profonda ignoranza in proposito potè farmi scambiare per amore l’abitudine di un’affettuosa amicizia.
Le occupazioni serie, il lavoro, la regolarità di una vita attiva allontanano dalla mente le fantasie erotiche, — ma non è men vero che la parte materiale del nostro essere compia in segreto il suo svolgimento.
Resistetti sulle prime, mi ribellai contro questo sentimento sconosciuto che tentava smuovere le mie più ferme e più antiche convinzioni. Cercai un rifugio nella tenerezza costante di mio marito e piansi sul suo cuore lacrime incomprensibili.
Attilio rispettò lo sfogo di una malinconia della quale era ben lungi dal sospettare la causa. Dopo due o tre giorni mi parve di essere calma e mi rinfrancai pensando che presto sarei andata alla villa, e verrebbe per tal modo interrotta la relazione col marchese.
Mi dava un po’ d’inquietudine la sua prossima visita, eppure... eterna contraddizione! — provai internamente un senso di rammarico quando mi portarono un suo biglietto nel quale si scusava di non poter venire in persona.
Una sconfitta dopo la battaglia avrebbe avuto i suoi conforti; ma prima...
Era, se non altro, una prova che il nemico non mi giudicava degna di misurarmi con lui.
L’amor proprio offeso si alleò coll’amore nascente; come fiamma entro cui soffi un vento impetuoso, il mio cuore divampò frenetico.
Quello stesso orgoglio di cui la mia virtù erasi fatta sgabello, piegava ora sotto i miei piedi. — Occorre poca cosa per capovolgere un’esistenza; un granello di sabbia fra due ruote, una scintilla in un braciere!
Io frequentava sempre le serate della principessa; là più che altrove sentiva parlare del giovane diplomatico. Si mettevano avanti con gran mistero le iniziali delle sue nuove conquiste, la principessa sosteneva che l’alfabeto era esaurito e bisognava inventarne un altro.
— È un’esagerazione, — scappava fuori a dire qualcuno, — il marchese è uomo serio, studioso; non so come troverebbe tempo per occuparsi di galanteria.
— Egli non se ne occupa, d’accordo; ma la figlia minore del consigliere A*** ne va pazza, — e la signora V*** lo segue di sala in sala, di teatro in teatro, di contrada in contrada, dappertutto ove può cacciarsi colla speranza di trovarlo. E poi sapete tutti che la moglie dell’avvocato F*** non accettò la corte di B*** che per dimenticare il bell’indifferente. Vi annuncio che si principia a chiamarlo così.
— Quantunque (seconda interruzione) egli abbia un’amante titolare nella famosa tedesca Klepper.
— Non credetelo (terzo partito). Egli ama l’elegante duchessa di Vallombrosa.
Tutte queste dicerie io le ascoltava in silenzio, sforzandomi alla calma; — ma i palpiti or lenti or concitati del cuore mi avvertivano che la passione lo dominava già tutto.
E Attilio?... l’amico di mio padre l’amoroso compagno de’ miei giorni, — così nobile, così buono, così generoso!...
— Oh! certo io non lo ingannerò; custode del suo nome intemerato, sarò degna di portarlo fino all’ultimo.
Ma perchè io faceva a me stessa queste esortazioni? Perchè il mio trepido cuore chiamava ad ogni istante soccorso?
Non era io la donna altera, inaccessibile alla colpa?
Come! — già tanto mutata che il nome di un uomo veduto due volte mi fa trasalire?
E tutta la mia vita trascorsa, mio padre, i miei rigidi principi d’onestà, la mia fama, il mio pudore, la mia coscienza, tutto ciò dev’essere nulla? Un istante distruggerà l’edificio superbo e onorato che per venticinque anni mi compiacqui d’innalzare?
No, no, no!
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Combattuta fra il desiderio e il dovere ora vittorioso, ora soccombente, passava i giorni incresciosi e agitati, finché presi la risoluzione di non abboccarmi più col marchese.
Gli scrissi due righe che secondo me dovevano terminare l’affare del mio protetto e rendere inutile qualunque altra visita in proposito; — epperò non contenta lasciai ordine al portinaio di dire che non mi trovava in casa qualora egli venisse.
La pace tornava a poco a poco nel mio cuore; incominciava a ridere delle mie paure e fui sul punto di confidarle a mio marito; ma temetti scapitare nella sua opinione col mostrarmi capace di una leggerezza.
Intanto la principessa, che andava tutti gli anni ai bagni di Livorno, diede la sua gran serata di addio.
Era una specie di festa alla quale convenivano tutti i suoi amici non solo, ma anche i semplici conoscenti.
Io, frequentatrice abituale de’ suoi convegni, non potevo mancare.
Mi ricordo che feci per l’occorrenza un vestito di crêpe rosa della China, tutto coperto di blonde spagnuole,... e lo specchio, più adulatore del solito, dichiarò apertamente che stava bene.
Entrando nelle sale della principessa, la prima persona che vidi ritta accanto all’uscio fu il marchese Massimo.
Nello sfondo dorato delle pareti la sua testa sembrava più bruna, più pallido il suo viso che era già pallidissimo e gli occhi ardenti lampeggiavano sotto la fronte immobile.
Risposi appena al suo saluto.
La principessa che mi distingueva fra tutte le sue amiche, mosse ad incontrarmi. Nel primo scambio delle usate cortesie riuscii a nascondere il turbamento che m’aveva cagionato quella improvvisa apparizione.
— Cara contessa sembrate un angelo questa sera.
Davvero mi guardavano tutti e incominciai a turbarmi; il marchese era là, fisso al medesimo posto; — la sua attenzione mi opprimeva più che tutte le altre. Per uno strano sentimento di modestia — dico strano riguardo alle usanze della civile società che ci avvezza per tempo a mostrare in pubblico ciò che non mostreremmo a un solo uomo nella nostra camera — gettai una sciarpa di velo sulle mie spalle nude.
È pur vero che il rossore implica quasi sempre una idea di colpa!... per lui solo io arrossiva — davanti a’ suoi occhi penetranti che m’investivano come una fiamma.
Un giovinotto dei soliti, brutto, vanesio, affettato, senza spirito, venne a recitarmi la sua parte obbligata, ed io ne fui in breve così ristucca che mi alzai, col pretesto di fare un giro per le sale.
Il rimedio era peggiore del male; dovetti accettare il suo braccio, — ma me ne liberai prontamente fermandomi colla principessa.
Il ganimede dovette credere che io avessi qualche importante argomento da trattare con lei, mi lasciò libera; ottenuto questo intento, non ebbi altro desiderio che trovare Attilio in mezzo alla folla.
Sentivo prepotente il bisogno di appoggiarmi a lui — ero stanca della festa, annoiata, malcontenta....
Malcontenta, perchè?
— Contessa! — mormorò al mio fianco una voce che mi diede le vertigini.
Raccolsi tutto il mio coraggio e risposi in apparenza pacata:
— Buona sera, marchese.
— In qual senso devo prendere questo augurio? È l’espressione di una gentilezza convenzionale, od è un atto di pentimento?
— Non capisco. Credevo che il saluto fosse una cosa tanto semplice da non provocare spiegazioni diverse da quella che esso esprime.
Tacitamente il marchese mi aveva offerto il suo braccio e la folla che si pigiava da tutti i lati, obbligavalo a tenermi stretta. Egli replicò a bassa voce, quasi tremando:
— Quando ricevo un bacio, voglio che me lo dia l’amore, quando mi si getta un insulto, pretendo che l’odio lo spieghi.
Tentai sorridere.
— Signore, siete più che mai incomprensibile. Non mi vanto di una memoria straordinaria, ma ci conosciamo da poco tempo, dovrei ricordarmi se vi avessi offeso.
— Sì, mi avete offeso; ma ditemi che mi odiate almeno!
— Se ciò vi fa piacere,.... ma l’odio non è il mio peccato, come non è mio costume l’insulto....
Mi interruppe con fuoco:
— Signora, avete lasciato un ordine al vostro portinaio e quest’ordine è che non siete in casa per me!
Al calore del suo accento opposi una freddezza studiata:
— Io supponeva in voi una maggior conoscenza di mondo; è lecito a una donna sentirsi male o non aver tempo di ricevere visite.
— Sono ben sfortunato! — e voi pure, contessa, vi sentiste male tre giorni consecutivi....
Da beffardo che era il suo accento si fece timido, supplichevole; riprese:
— Oh! ditemi che cosa ho fatto per meritarmi questo gastigo?
Che cosa egli aveva fatto!... ma null’altro che turbare la mia pace per sempre.
E intanto, come doveva io rispondere? I suoi occhi mi guardavano attraverso un velo di malinconia così toccante, che perdetti tutto il mio coraggio. Che colpa aveva egli, mio Dio, se io l’amava?
— Farò il possibile per trovarmi in casa quando verrete a visitarmi, ma... presto vo in campagna.
Con questa frase speravo di aver soddisfatto le esigenze della cortesia e quelle della mia coscienza.
Il marchese sorrise con amarezza; benchè non aggiungesse sillaba, il suo sconforto si palesò così grande che ne sentii quasi rimorso.
Procedevamo lentamente in silenzio.
Tratto tratto egli mi guardava....
Si parla con tutti e parlando si guarda; — ma guardare e tacere è privilegio dell’amore.
Tutti gli uomini pretendono conoscere questo linguaggio; pochi lo sanno adoperare. L’ardire impudente, la sciocca malizia, l’ammirazione stupida, la goffa timidità, — sovente un miscuglio di tutto questo insieme sono le rivelazioni di questi sguardi. Offendono o fanno ridere.
Dall’occhio del marchese, profondamente appassionato, traspariva un impeto di desideri repressi, una audacia rispettosa, un fuoco e una dolcezza che si fondevano nel più incantevole languore, — e al disopra di tutto, quel filtro arcano e magnetico che serpeggiava nelle sue vene diffondendosi nei più piccoli moti del sangue, sia che un rossore improvviso gli coprisse le guancie o un raggio gli attraversasse la pupilla o l’emozione di uno slancio contenuto facesse fremere i suoi muscoli.
Uno sguardo simile da uomo a donna è più che un amplesso. La sensualità vi presta tutte le sue scintille, l’amore le adombra con i suoi pudori; è la Venere resa più provocante sotto l’ombra di un velo; è la seduzione terribile e sicura. Un tale sguardo ebbero certamente Paride in Grecia e Cesare in Roma.
Immersa in uno smarrimento pieno di fascini, io tremava e avvampava.
La parte libera de’ miei pensieri volgevasi anelante all’unica persona che potesse togliermi dall’estasi pericolosa.
Finalmente vidi il colonnello. Il suo onesto e sereno volto mi procurò un palpito di sollievo, di riconoscenza, d’inesprimibile affetto.
Con lui mi pareva di riacquistare la mia libertà e la mia dignità.
Scambiato un breve saluto col marchese, pregai Attilio di ritornare a casa.
Appena fummo adagiati nel nostro coupé, gettai le braccia al collo di mio marito.
Era pur santo e soavissimo il bacio che egli posò sulla mia fronte! Ma chi avrà pietà di me se confesso che il desiderio di altre labbra mi attraversò il cuore come una spira di fuoco?
— Aiutatemi, mio Dio! — mormorai dal fondo dell’anima.
Pochi giorni dopo partivo per la campagna.
La villa di mio padre era un antico castello che si alzava tra gli alberi, sotto un cielo sempre azzurro, accarezzato dalle aure marine che il vicino Mediterraneo esalava e che giungevano a noi traversando foreste d’olivi e d’oleandri. Vi si conduceva una vita solitaria che conservava per me tutta l’attrattiva delle vecchie abitudini.
Mio padre, infermo, non usciva mai; i suoi amici erano morti tutti; conoscenze nuove nessuno aveva voglia di farne.
— S’è stabilita nei dintorni la moglie dell’avvocato F*** — disse un giorno mio marito. — Ha preso in affitto un villino, e ricomincia una seconda luna di miele collo sposo per far dimenticare la cattiva riuscita della prima.
— Mi hanno detto, — soggiunse mio padre, — che desidera di fare qualche relazione nel vicinato.
— Non sarà con me certamente! — esclamai.
Il colonnello approvò la mia dichiarazione, completandola con queste parole:
— Valeria è troppo altera del suo nome e troppo gelosa della sua riputazione per istringere amicizie di un genere equivoco.
Per altro i consigli di una donna virtuosa potrebbero giovare a quella disgraziata.
Non credo, padre mio. Si è o non si è onesti.
— Sei un po’ severa. Non ammetti dunque la riabilitazione?
Quel giorno mi sentivo forte. Lontana dal marchese, i miei principi austeri pigliavano il sopravvento; l’orgoglio, per un momento pericolante, si atteggiava più che mai a sfida. Come un etico condannato a morire vuol godere senza limiti la vita, io, quasi presaga del naufragio, lottavo disperatamente attaccandomi al nome della virtù. Risposi colla fronte accesa:
— L’espiazione sconta la colpa, non la cancella, — è come un debito che sta sempre scritto nel libro del dare e dell’avere.
Ed è giustizia. Perchè la donna caduta potrà tornare a quel posto che altre non hanno abbandonato mai, — egualmente riverita, stimata, apprezzata? Che vantaggio resterebbe allora a quella che lottò e che vinse? La fanciulla pura, la moglie fedele avranno acquistato inutilmente il diritto di portare la testa alta, se colei che cadde, può rialzarla del pari. Voi dite che la macchia si lava, — è vero — ma l’acqua resta torbida. Ah! la virtù sarebbe troppo comoda se si potesse prendere e lasciare a seconda dei casi. No, il trono della dignità femminile è uno solo: chi lo discende, non è più degno di salirvi.
Una nobile alterezza raggiava sul volto del colonnello, mentre mio padre, commosso, rispondeva:
— Mi piace questo linguaggio, Valeria; esso sta bene nella tua bocca perchè è l’eco del tuo cuore castissimo. Tu hai il diritto di essere severa e puoi gettare la pietra perchè sei senza colpa.
Senza colpa? — e fino a quando?
Non era già colpa il fuoco tormentoso che mi si agitava nelle vene? — la smania, il tedio, la malinconia, i subiti slanci, i distratti languori, mille sintomi che apparivano e sparivano senza lasciare traccia, ma che indicavano un profondo e fatale turbamento?
Vi erano dei giorni in cui non potevo cacciare dalla mia mente l’imagine del marchese. La sua voce mi seguiva mormorando sotto l’ombra dei platani; gli occhi, il sorriso, il fascino della bella persona mi stavano sempre presenti; sentivo ancora e sopratutto il morbido abbandono di quella mano stretta nella mia....
Sintomo grave: le carezze di mio marito non mi toccavano più; sembrava quasi che un istinto di repulsione mi allontanasse da lui. Piacevami allora passeggiare sola nei boschi fantasticando. — Io, così positiva, così nemica delle affettazioni romantiche! Ma non era il romanticismo che cercavo nella natura, non la poesia delle albe e dei tramonti, non la mistica contemplazione dei fili d’erba curvi sotto il peso della rugiada.
Nel silenzio e nella solitudine io ascoltavo la voce del mio cuore che lottava colla coscienza, — e fra le ansie tormentose, fra il cozzo delle passioni agitate, i sensi trepidavano smaniosi d’incognite ebbrezze. All’ombra dei folti alberi, sui prati ondeggianti e molli, si sbrigliavano come puledri che hanno rotto il freno; e, se il vento soffiavami tra i capelli, mi pareva una tempesta di baci; se una farfalla aleggiando mi sfiorava il collo, se un fiore dal fecondo calice innalzava fino a me il profumo della sua vita d’amore, se le foglie stormivano o gemeva nel suo nido l’allodola abbandonata, non era l’inno della creazione ideale che saliva dal mio petto in fiamme; — era l’attrazione della materia prigioniera che si dibatteva in mezzo a quel tripudio della materia libera.
A tali orgie dei sensi e dell’imaginazione succedevano giorni di calma, durante i quali rientravo in me stessa domandandomi se avrei osato ancora riprovare la colpa.
L’orrido aspetto della donna traviata m’incuteva sempre ribrezzo e terrore; ma incominciavo a modificare le mie massime, a dividere l’anima dal corpo, il pensiero dall’azione.
La colpa — io dicevo — seguì un fatto; prima non la si conosceva. Iddio non ha ammesso la colpabilità astratta; noi siamo mallevadori delle nostre opere, non dei nostri vaneggiamenti.
A chi posso nuocere col desiderio? — a nessuno. L’onore è in salvo; un guizzo fuggevole della fantasia non lo appanna, anzi, dandogli in pascolo un po d’ideale, non sarà che maggiormente corazzato contro la realtà.
Mio tormento e mio conforto insieme era la sicurezza che per alcuni mesi non lo avrei riveduto. Avevo tempo di tranquillarmi, di equilibrare i miei pensieri: — non era forse in conclusione che una questione di nervi.
Con quali parole il serpente sedusse Eva? Lo ignoro, ma sarà stato certamente con dei sofismi: — se pure non avea due occhi intelligenti e mesti!
Una lettera della principessa:
«Cara! Domani vengo a trovarvi; preparatemi una colazione fra le rose e un letto sul muschio; — voglio vivere dodici ore di idillio. Non vi dispiacerà, spero, che mi prenda per cavaliere il marchese Lit***. Egli è abbastanza gentile da assumere questa parte con una povera vecchia. Vedete che ho ragione di volergli bene.»
Questo annuncio fu veramente un colpo di fulmine; la metafora non sembrerà esagerata.
Nel primo momento pensai fuggire, — ma come? dove? Pensai di svelare tutto al colonnello: — ma tutto?... che cosa?
Un turbine di idee, di paure, di pazzi disegni, di risoluzioni stravaganti m’investivano il cervello. E poi una gioia sfrenata, una febbre di voluttà, un delirio di desiderii, più pazzi, più stravaganti ancora.
Le ore mi scorrevano lente, eterne; — non potevo impiegarle in nessun modo, — evitavo di trovarmi con mio marito, con mio padre, con tutti.
La notte fu tremenda, piena di sogni e di visioni.
Mi alzai disperata quando spuntava appena l’alba; uscii sotto i platani coi piedi nella rugiada, colla testa ardente.
Di ritorno a casa trovai Attilio nel salotto.
— Mia buona Valeria — disse accarezzandomi i capelli umidi e scomposti — tu pigli troppo alla lettera la tua parte di padrona.
Egli credeva ch’io mi fossi levata anzi tempo per sorvegliare i domestici e impartire ordini.
Alle nove eravamo tutti pronti; io, vestita e pettinata, ma colla morte nel cuore.
Verso le dieci una berlina da viaggio ruzzolava dolcemente sulla sabbia del viale; il colonnello, accorrendo allo sportello, aiutò la principessa a discendere.
Anche il marchese balzò a terra levandosi il cappello con quella grazia particolare dei gran signori che egli possedeva in sommo grado.
Egli e mio marito già si conoscevano, non fu duopo di presentazioni; solo il marchese si scusò della sua visita e il colonnello gli fece la più cortese accoglienza, dimostrandogli una stima e un rispetto che nella franchezza del suo carattere non potevano essere mentiti.
Una trentina di passi ci separavano dall’uscio del salotto terreno, ove mio padre, confinato nella sua poltrona, aspettava i forestieri.
Attilio offerse il braccio alla principessa Lit*** prese il mio, e prima che potessi aprir bocca (la qual cosa per altro sarebbe stata ugualmente dubbia, perchè l’agitazione mi serrava le parole in gola) disse:
— Signora, la vostra freddezza a mio riguardo non m’incoraggiava a seguirvi fin nella tranquillità della campagna; ma fui trascinato dalla principessa,.... il mio cuore non seppe resistere. Mi perdonate?
— Non so perchè vogliate sempre cercare nella mia condotta una freddezza che non ha ragione di essere; ho per voi gli stessi sentimenti di considerazione come per qualunque altro gentiluomo.
Questa doccia gelata mi cadde dalle labbra lentamente, senza un tremito nella voce — ma forse egli sentiva il mio braccio vacillare sotto il suo.... Impallidì leggermente e rispose:
— Grazie, contessa. La vostra crudeltà mi fa bene; — è come la mano amica che estrae il ferro dalla piaga; si muore, ma non si soffre più.
Eravamo giunti. Abbandonando il suo braccio dovetti appoggiarmi al muro perchè mi sentivo mancare.
La principessa mi disse:
— Aveste torto a mettere oggi un vestito lilla; sembrate molto più pallida del consueto.
La colazione passò silenziosa. I sessant’anni della principessa non le permettevano di parlare e di mangiare contemporaneamente e quantunque ella fosse abbastanza ciarliera per natura, sapeva curare la propria salute e il proprio appetito.
Il marchese aveva l’aria di un uomo tratto al patibolo; il colonnello tentò invano di diffondere un po’ di buon umore; il buon umore propriamente non l’aveva che la principessa; la quale, terminato il suo ultimo biscotto, ricominciò subito a parlare per proprio conto di mille nonnulla e terminò proponendo una passeggiata in giardino.
La situazione era disposta in modo che io non potevo sfuggire il marchese, poichè il cavaliere d’obbligo della principessa era mio marito e mio padre non abbandonava mai la poltrona.
Andammo dunque in giardino.
Tutte le mie premure furono volte allo scopo di restare uniti, generalizzando la conversazione; ma la principessa, umore vagabondo e bizzarro, pieno di leggerezze giovanili e di capricci, esclamò dopo qualche tempo:
— Spero, contessa, che non sarete gelosa e vi stancherete alla fine di fare la guardia a vostro marito. Dico questo, perchè vedo laggiù una panchina romantica, dove c’è posto solamente per due..... mi sederei volentieri.
Io non la conobbi giovane, ma dev’essere stata una donnina incantevole, se anche adesso coi capelli bianchi, ha tanta ricchezza di grazia e di spirito.
Sorrisi al suo scherzo, e, per quanto mi dolesse, non potei impedire al marchese di continuare con me la passeggiata sotto i platani. Ma giunti appena alla svolta del viale tentai svincolare il mio braccio mormorando:
— Perdonate, ho qualche ordine da dare in casa.
Egli mi trattenne per la punta delle dita, ma il suo sguardo fisso mi inchiodò al suolo.
— Signore — replicai — cosa volete da me?
Non rispose; il suo occhio limpido e profondo raggiava d’amore. Feci per allontanarmi; le forze mi mancarono... Volli parlare, volli muovermi — non so s’io caddi — certo egli tese le braccia per sorreggermi e mi strinse in un frenetico amplesso.
Tutto ciò ebbe la durata di un lampo. Il marchese si gettò a’ miei piedi, supplicandomi di perdonarlo.
— Siete voi pazzo? — è la sola scusa che potete addurre.
Così risposi; ma la mia voce tremava e ne’ miei occhi smarriti egli dovette leggere il turbamento del mio cuore.
Si rialzò, mi prese una mano e posandola solennemente sul suo petto disse:
— Vi amo.
È impossibile riprodurre l’accento, lo sguardo che accompagnarono queste due parole. Fino d’allora io dovevo sentirmi perduta.
— Marchese — balbettai appoggiandomi al tronco di un albero — rammentate chi siete, chi sono e il titolo per cui foste ammesso in questa casa.
— Vorrei poter dimenticare tutto e vivere soltanto in voi, ma se mi ordinate di rammentare, rammenterò. Permettetemi appena di amarvi.
— Non si accetta, credo, quando non si può contraccambiare.
— Io non vi chiedo nulla, contessa.
— E se io invece vi chiedessi un favore?
Mi guardò con estrema malinconia; sembrava indovinasse il mio pensiero.
— Allontanatevi...
Io ero sempre appoggiata all’albero. Gli stesi la mano, egli la prese, s’inchinò quasi per baciarla, ma la lasciò ricadere lentamente riconducendola fra le pieghe del mio vestito.
Poi, senza guardarmi, senza pronunciare una parola, fuggì rapidamente scomparendo sotto i platani.
Restai immersa in un’estasi deliziosa, nessuna voce di rimorso turbò quei primi incanti di una passione sciagurata.
Credevo ancora nella mia virtù; credevo che un amore nobile e puro potesse sbocciare senza colpa.... come se il più ideale dei fiori non sorgesse anch’esso dalla terra.
O giovinette, che nella casta ignoranza dei vostri quindici anni vi abbandonate al delirio di uno sguardo ricambiato, di un dolce sorriso, di una stretta furtiva, — e sotto i palpiti frequenti del vostro cuore ingenuo credete innalzarvi a’ voli di etereo amore, o giovinette, quei palpiti sono materia che si accende! E quando nel silenzio delle ore solitarie, al raggio delle stelle, pensando ai versi di un poeta caro o alle note di una romanza malinconica, vi sentite improvvisamente scorrere il sangue più rapido nelle vene, state in guardia, o inesperte, sono i sensi che si svegliano!
Vi parleranno d’imaginazione, di scambio d’anime. Non credete! L’amore è uno solo e tende a un solo scopo.
Anch’io fui presa alle larve poetiche del sentimento; volli persuadermi che il cuore è una cosa e il corpo è un’altra; accettai la superba teoria dello spirito superiore alla materia — e caddi inconsapevole nell’agguato.
Credevo di governare i miei sensi, quando già essi mi dettavano la legge.
Per mio marito sentivo una fraterna amicizia non scevra affatto di esitazioni e d’incertezze, ma pure conciliabile col nuovo sentimento che mi dominava.
L’amore del marchese mi rendeva fiera, godevo di mostrarmi egualmente buona, egualmente amorosa con Attilio. Mi figuravo di scontare con un raddopiamento di premure la parte d’affetto che gli rapivano i miei pensieri.
Così trascorse l’autunno — due mesi intieri senza vederlo.
Tornata in città, la principessa non stette a lungo senza parlarmene:
— Sapete, quel povero Lit***...
Impallidii. — Ella continuò colla solita volubilità:
— Deperisce a vista d’occhio — non so cos’abbia. Si dice che sia innamorato; di chi poi? — mistero. Lo interrogai un giorno; mi rispose colla questione ottomana. Mi sono provata a consolarlo; gli ho detto: Caro marchese, se avete bisogno di amore, io vi amerò come Giulietta, dal primo trillo dell’allodola fino all’ultimo gorgheggio dell’usignolo e viceversa. Ma pare che la proposta lo abbia lasciato freddo. Ora si trova in Svizzera per consiglio dei medici: — ci capite qualche cosa voi?
— Io no sicuramente.
Ipocrita! — qual battito festoso mi sentivo in petto, quale tenera malinconia pensando a lui che errava tutto solo per i monti della Svizzera!....
Un po’ prima di Natale la Società protettrice dei bambini lattanti dispose una vendita a beneficio dell’istituzione e molte signore furono pregate di prestare l’opera loro per accrescere l’interesse e l’importanza della fiera.
Io, che non avevo nessun impegno di famiglia nè di bimbi, accettai senza esitare. Mi trovavo per la prima volta in questo caso e nei primi giorni mi divertii a vedere gli impegni delle dame venditrici per avere a segretario il cavaliere più giovane e più amabile. I vecchi erano respinti spietatamente.
Il ventenne baronetto G***, bersaglio ai più audaci, se non palesi attacchi, fu eletto segretario della famosa signora F*** — la moglie dell’avvocato.
A me, che non avevo brigato punto, toccò un elegante sulla cinquantina, ritinto e asmatico.
Ne risi molto col colonnello; ma alla vigilia del giorno prestabilito un piccolo avviso mi annunciava che il mio segretario erasi ammalato e sarebbe stato sostituito alla meglio.
— Il peggio non è a temersi, — disse Attilio scherzando.
Fa duopo dirlo? — il nuovo segretario era lui.
Arrivato appena dalla Svizzera, inciampò nel preside della Società che volle sequestrarlo a totale beneficio della fiera e in surrogazione al vecchio elegante ammalato.
Sapeva il marchese che la dama destinatagli ero io? — o proprio il destino me lo gettava per la seconda volta nelle braccia?
Egli non me lo disse.
Pallido, composto, coi grandi occhi grigi velati dalle palpebre nere e con un mesto sorriso che cresceva l’incanto della sua bocca graziosissima, sedette presso a me nello spazio ristretto di un banco di chincaglierie: — nè parlò, nè io gli parlai per lungo tempo.
Aveva i capelli neri largamente ondulati rari sulla tempia; la fronte nobile, il profilo da cammeo antico, le labbra piccole ma virilmente risentite. Le pupille stranamente affascinanti, gettavano sprazzi di luce sulla fisonomia un po’ severa; e il sorriso, tra sarcastico e molle, tra provocante e malinconico, aggiungeva alimento al fuoco del mio cuore in tempesta.
Egli taceva; ma i suoi occhi dicevano «Ti amo, mi piaci, sei bella, vivo per te!»
Una dichiarazione sarebbe stata meno pericolosa di quel silenzio.
E poi, non l’avevo già avuta la dichiarazione? Non ricordavo io parola per parola il nostro breve dialogo sotto i platani, e quel lampo d’ebbrezza durante il quale mi aveva stretta contro il suo petto?
Alla mia destra vendeva fiori la bella signora F*** — una bionda grassa e provocante — coadiuvata dal baronetto G***. Ridevano e ciarlavano occhieggiando per la sala. Quale contrasto con noi due muti e palpitanti!
Il nostro turbamento era troppo palese e troppo compromettente.
Cercai dissiparlo, avviando una conversazione su argomenti frivoli, ma non vi riuscii. Lit*** li lasciava cadere con una noncuranza sdegnosa, oppure li rilevava con acre ironia.
Era uomo rotto alla galanteria, viziato un po’ dalla società aristocratica in cui era sempre vissuto, e tratto tratto pendeva alquanto allo scetticismo. — Allora il suo sorriso diventava pungente; non ci voleva meno della limpida trasparenza de’ suoi occhi per far credere che in fondo era ancora buono, ancora suscettibile di entusiasmo e di fede.
Si capisce come egli restasse indifferente alle affezioni mondane che ispirava; i suoi sensi avevano sfruttato tutti i campi della voluttà semplice, ed ora anelava alla suprema voluttà che si sposa col sentimento.
Giovane di cuore, questa giovinezza scompariva sotto l’arte acquistata in trent’anni di giostre eleganti, di facili vittorie; nè era questa la sua maggior seduzione, perchè dottamente sensuale, amabilmente cinico qual era, lasciava trapelare, a traverso uno spolverìo abbagliante e quasi a sua insaputa, la sorgente viva di affetti e di aspirazioni sincere.
Romeo e don Giovanni ad un tempo, faceva vibrare i nervi della voluttà, ma toccava l’anima.
Mi ricordai che già da qualche mese il mio protetto aveva ottenuto un pieno compimento de’ suoi desideri e non potendo dubitare che la facilità della riuscita fosse opera del marchese, sentii l’obbligo di ringraziarlo.
Egli sorrise di quel sorriso stanco e scettico che appariva qualche volta sulle sue labbra.
— Ah! marchese, perchè fate così? — avete l’aria di volervi mostrare cattivo.
— E come potrei essere buono?
— Come?... ma, credo, ascoltando il vostro cuore.
— Allora lasciatemi dire che v’amo, — il mio cuore non ha altra voce.
Sostenni il colpo e risposi con placida clemenza:
— Ebbene, suppongo non vi sia nulla di cattivo in ciò. Io ho molti amici che mi amano e mi rispettano, — mi manca un fratello — volete esserlo voi?
Scosse il capo amaramente.
— Ah, no — vi ringrazio della vostra generosità, ma non posso accettare. Sentite la mia mano.... vi sembra quella di un fratello?
La sua mano ardeva, — e dopo aver stretta la mia sulle mie ginocchia — mi gettò tale sguardo che mi parve di essere sospesa sopra un abisso.
Oh! chi non le conosce queste vertigini dell’amore? chi non ha sentito, al lampo d’una pupilla accesa, vacillare i più saldi propositi e venir meno ogni eroismo di virtù?
Bisogna fuggire allora, fuggire, fuggire... ed io rimasi.
Rimasi accanto a lui, involta nell’aria magnetica, che lo circondava, bevendo il dolce veleno d’ogni suo sospiro, d’ogni suo sorriso — inebbriandomi fino al parossismo. E quando, spossata dal delirio, coperta di lagrime, mi gettai sul mio letto e chiusi l’uscio della camera ordinando che nessuno venisse a disturbarmi perchè mi sentivo male — ero realmente ammalata di quella febbre acuta che è l’amore.
Oh, c’è una giustizia terribile e sicura al disopra degli eventi che sembran regolati dal caso!
Io, la fiera, l’inflessibile dittatrice della virtù, la donna forte, la donna onesta per eccellenza, io discesi passo passo umiliata, battuta, colla catena ai piedi, quella scala del disonore che avevo audacemente fulminato dall’alto della mia superbia.
Io caddi di gradino in gradino, baciando le orme di tutte quelle che caddero prima di me, e asciugai colla mia fronte orgogliosa le lagrime e i sudori che non avevo voluto comprendere.
Io, la casta sposa venerata, idolatrata, giunsi al punto di mentire come una cortigiana, di concedere col sorriso sulle labbra e con la morte nel cuore un amplesso spergiuro.... e ditelo voi segrete penombre del talamo, quante volte il mio infame labbro ha soffocato sotto i baci un singulto!....
La punizione incominciava prima ancora del fallo, lenta, inesorabile, — ed era il martirio d’ogni ora, d’ogni minuto.
Attilio mostravasi calmo, sereno, senza alcun presentimento della procella che gli si addensava intorno.
La sua tranquillità era per me una sferza sempre sollevata; sentivo come fosse indegna cosa l’abusare di una così nobile confidenza, Succedevano allora i giorni di ravvedimento, durante i quali tornavano a prevalere i buoni principii dell’educazione paterna — ma un sogno, un fremito, la voluttà di un ricordo annientavano qualsiasi proposito — e ad ogni concessione mi si ribadiva più forte l’ignobile catena.
Un’osservazione importante è che il marchese sembrava sdegnare i mezzi soliti di seduzione. Non mi assediava con visite, domande, preghiere; non mi imponeva il fardello del suo amore; non demoliva, secondo l’uso, la mia pace domestica e la mia felicità coniugale per sostituirvi promesse di più vive gioie e di delizie imperiture.
Scorrevano mesi interi senza vederci — e allorchè il dio protettore degli amanti ci riuniva per poche ore, il fuoco malinconico de’ suoi grandi occhi, i suoi sguardi eloquenti pieni di fascino e di tenerezza erano i soli interpreti di una passione che ingigantiva nel silenzio.
Ho nutrito una costante antipatia per gli uomini che hanno fretta in amore. Penso con Goëthe «ciò che subito sfavilla muore rapidamente» — e pare infatti che essi vogliano sollecitare la fine di un amore per riservarsi il tempo d’incominciarne un altro.
Tra me e il marchese non era una questione di tempo — ci eravamo scambiati inconsapevoli la vita!
Sole di primavera, misterioso fecondatore dei bulbi nascosti fra le radici, vita di mille e mille atomi che s’infiammano sotto il tuo raggio, anima dell’universo... o sole! — quante colpe consigliano i tuoi caldi baci! Allor che gli alberi mettono le prime gemme e dentro la sua crisalide trasalisce la farfalla, quando di sotto il muschio si destano all’amore i coleotteri dall’ali d’oro e sulle rive dei tepidi ruscelli corrono le libellule azzurre a succhiare il grembo dei ciclamini, — quando tutto freme nella natura, anche noi poveri esseri ragionevoli, fatti a somiglianza di Dio e dei fili d’erba, sentiamo palpitare ogni fibra del nostro organismo, e una voce sola che parte dagli alveari, dai fiori, dagli animali ci grida:
— Esulta, o argilla, finché il mio soffio divino ti ispira!
O tu, nata dalle fragranti alghe marine, terrena voluttà, — donna, che gli antichi fecero Dea, — in quali sottilissimi filtri ti immedesimi e penetri fin dentro le ossa!
A te son ministri i molli calici dei fiori, le brezze esportate dalle esotiche aiuole, l’insetto che brulica, l’uccello che garrisce, perfino il cielo glauco, tranquillo, come un ampio velo disteso sulle nozze dell’universo.
Si avanzava quel dolce mese d’aprile ai cui profumati effluvi già era vacillata la virtù della Fornarina e il sangue come lava bollente mi circolava più rapido nelle vene, rinfocolato dalla mia funesta passione.
— Valeria — mi disse un giorno il colonnello attirandomi sul suo cuore — tu non sei più la gaia e serena compagna della mia vita; qualche cosa ti turba; io leggo un pensiero triste ne’ tuoi occhi soverchiamente malinconici. Dimmi, o cara, non sei felice?
Non osai guardarlo. Tersi colla mano un freddo sudore che mi inumidiva la fronte e mormorai:
— Ma no, t’inganni. Io non ho nulla.
Pochi giorni dopo si festeggiava in casa dell’ambasciatore d’Austria la mezza quaresima e le signore avevano votato concordi per un ballo mascherato a beneficio di non so più chi.
Attilio si occupò egli stesso amorosamente del mio travestimento da gitana e quella sera mi allacciò colle sue mani un vezzo di monete arabe intorno al collo.
La cameriera mi fece osservare che una delle monete non sembrava attaccata bene, ma io ero troppo preoccupata per dar retta a quell’avviso.
L’istinto della vanità, che non muore mai completamente in un cuore di donna, mi lasciò appena scorgere le linee flessuose e morbide che il costume andaluso disegnava intorno al mio corpo, il vivace effetto del raso rosso sotto le trine nere.
Non so di quale fango e di quali raggi sia composta la natura umana, ma certo è un misto di sublime e d’ignobile e l’angelo e il demonio se ne contendono violentemente il possesso.
Se sapeste come un cuore di donna nuota nella voluttà, quando le labbra che essa ama, la chiamano la più bella; quando negli occhi smarriti, nelle parole accese, nelle mani tremanti, nei ginocchi che piegano davanti a lei, essa vede un uomo, un re, un mondo, una vita, una eternità cui muove il suo sorriso!....
Il soldato ha bisogno della spada, il regnante del trono, il filosofo dei libri, il poeta della penna — la donna combatte e vince con uno sguardo.
Dio fa il mondo. Eva lo capovolge.
Converrebbe che la donna fosse più forte di tutti gli uomini riuniti per non sentirsi inebbriata del suo potere.
E se i molli vapori sorgenti dalle acacie fra i tappeti di velluto, se i lumi scintillanti, gli specchi popolati da lascivi riflessi di spalle nude, se l’onda armonica di un valtzer sensuale, se i lampi di cento pupille scuotono ed elettrizzano fino al fondo dei visceri questa donna, questa fata dalle fragili ali, chi la sosterrà, povera bella?
Non lagnatevi, no, della vostra pace oscura, o intemerate spose cui la felicità sorride sotto il tetto modesto della famiglia; non lagnatevi della vita monotona, del lavoro e dei figli. Quel lavoro, quei figli, sono i vostri angeli tutelari — benediteli!
Oh! che il vostro cuore non senta mai l’acre desiderio di piaceri vietati. È un turbine violento che passa sradicando ogni buon germe e lascia dietro a sè la sterilità e la morte.
Benedite, o madri, i vostri dolori; benedite la fronte dei vostri bambini, sulla quale le vostre sante labbra potranno posarsi sempre!
Benedite l’amore legittimo, l’amore fecondo, l’amore imperituro!
Perchè, mio Dio, perchè non fui madre?
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Come un condannato la sua catena, io trascino meco le mie memorie; ogni anello mi ha scavato un solco profondo nelle carni e rimovendolo cambio il posto del supplizio.
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Fu una sera fatale.
Il marchese era irresistibile negli impeti della sua passione.
— Ma non sapete che io ne morirò?
Così diceva stringendomi sul suo cuore, mentre seguivano le cadenze oltre ogni dire molli e affascinanti di un valtzer che allora si cantava dappertutto sulle parole: perchè non vieni ancor...
Quel valtzer sembrava fatto apposta per cullare l’ondeggiamento di due amanti insieme abbracciati e far perdere ogni resto di ragione.
— Fate male a parlare così; sapete che non posso amarvi.
— Non potete! Non potete! Io so che vi amerei a dispetto del mondo intero.
— Che è mai il mondo? — lo disprezzo. Non ubbidisco al mondo, ma al mio dovere.
— Astrusa parola!... Perchè il vostro dovere mi condanna ad essere infelice? Fuggiamo, fuggiamo, Valeria — dove vorrete — in Grecia. Che ne dite? Ci ameremo all’ombra degli aranci, presso le rovine di un mondo che non esiste più e il mondo che vive ci dimenticherà presto.
— Meno presto di voi forse.
— Come siete crudele!... Amate dunque molto vostro marito?
Questa domanda fu da lui fatta con accento basso e tremante.
— Sì, lo amo.
Uno scoraggiamento profondo si dipinse sul suo volto — nessun moto di collera o di dispetto — nessuna esclamazione, nessun rimprovero. I suoi occhi ardenti si spensero come se un velo li avesse improvvisamente coperti.
Il valtzer era finito; mi ricondusse in silenzio al mio posto e scomparve tra la folla.
Ma il mio cuore era in tempesta.
Lo cercai.... quale confessione!... sì, lo cercai di sala in sala, smarrita, ebbra, quasi pazza.
Egli si era rifugiato in una galleria solitaria, ed ivi stava col volto nascosto tra i cuscini di un divano. Ristetti un momento sulla soglia e vidi le lagrime scorrere attraverso le sue dita...
Tutto il coraggio mi abbandonò.
Sentii di amarlo più del mio dovere, più di qualunque cosa al mondo.
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In anticamera giacevano alla rinfusa alcuni domino che avevano servito per una mascherata veneziana. Senza riflettere a nulla, senza paura di nulla, corsi a impadronirmene; ne vestii uno, me lo strinsi intorno alla vita, tirai il cappuccio sul volto e così travestita ritornai nella galleria.
Il marchese non si era mosso; mi avvicinai tanto dolcemente che solo quando gli fui presso ei s’accorse della mia presenza.
Allora, rapida come il lampo, chinai la mia bocca presso la sua, nel posto dove brillava una grossa lacrima... e la raccolsi.
Egli balzò in piedi, ma io fuggii senza dargli il tempo di conoscermi.
La mia agitazione era estrema; mi sentivo ardere il sangue e dopo quel bacio la mia bocca scottava.
Massimo non lo saprà mai! — questa era la scusa che offrivo, tremante, alla mia coscienza.
Lasciai subito il ballo — avevo la febbre.
Nello spogliarmi vidi che mancava una moneta alla mia collana...
Non credo di esprimere un pensiero nuovo dicendo che l’indomani di un ballo è la cosa più triste che si possa immaginare.
Non più lumi, non più musica, non più illusioni — l’abito gualcito che penzola sulla sedia come un corpo privo d’anima — il libretto delle danze pieno di nomi indifferenti e di bugie — i guanti stracciati, un po’ d’emicrania.... e la persuasione di non esserci divertiti.
Nel caso mio c’era, di peggio, una sciagurata passione che rendevami uggioso e melanconico ciò che avrebbe dovuto essere la mia consolazione.
Le abitudini quotidiane, l’ordine della famiglia, i pensieri che una donna deve più o meno consacrare alla casa erano altrettanti pesi per me — era una spietata realtà che mi strappava alle mie fantasticherie.
Anche il colonnello mi irritava.
La sua calma sembravami freddezza, la sua fiducia indifferenza, e tutto il suo contegno mi pareva ispirato da un insopportabile orgoglio.
Per la prima volta, forse, corrisposi aspramente alle sue carezze.
Egli mostrò di non accorgersene e si chiuse in un silenzio pieno di riserbo e di dolcezza.
— Ma è dunque cieco! — mormorai fra me con dispetto — ah, questi uomini di ghiaccio è un peccato l’amarli!....
La giornata minacciava di essere eterna; lessi un poco Byron — Dante mi era diventato noioso da un pezzo — Parisina mi piaceva più che l’arcivescovo Ruggeri.
— Signora — gridò a un tratto la mia cameriera entrando precipitosamente — si è fermata una carrozza. La signora non ha detto se riceve...
— Sì, sarà una distrazione.
— Ma siccome non è vestita...
— È vero: allora non ricevo.
In quel punto sentii la voce del marchese che ordinava al domestico di annunciarlo.
Tutto il sangue mi affluì al cuore e tremante, confusa, balbettai:
— Però.... aspetta.... credo....
Mi sarei compromessa infallibilmente se l’uscio, spalancandosi davanti al marchese, non avesse fatto fuggire la mia cameriera. Il primo movimento di Lit***, quando fummo soli, mi spaventò un poco. Egli mi prese tutte e due le mani senza parlare e le coperse di baci.
— Che fate marchese? Io sarò obbligata a non vedervi più se vi comportate in tal guisa.
— Ma perchè mentire, Valeria? Perchè non volete dirmi che mi amate? Temete che la gioia possa farmi impazzire? No — rassicuratevi; io voglio conservare tutta la mia ragione per amarvi, per adorarvi, per essere felice.
Avevo ancora un po’ di fermezza in serbo e la impiegai nel rispondere:
— Siete molto alterato, calmatevi e ragioniamo. Fino ad ora vi limitaste a dichiararmi il vostro amore — pazienza, non eravate in campo che voi — ma adesso avete la pretesa che io vi corrisponda.... anzi ne palesate la certezza. — È un po’ troppo. Chi vi dice che io vi ami? Io non vi amo affatto.
Si alzò pallido e grave; involontariamente ricacciai indietro la mia poltrona, presaga di un pericolo ignoto.
— Contessa, una sera io vi dissi: quando ricevo un insulto voglio che l’odio me lo spieghi: quando ricevo un bacio pretendo che me lo spieghi amore. Voi questa notte mi avete baciato.
Trasse dal petto una piccola moneta, quella stessa che io aveva perduta e gettandomela sui ginocchi, esclamò:
— La riconoscete? Essa cadde dal vostro seno.
Con uno slancio ardente ripigliò la moneta sul mio grembo e appressandola alle labbra mormorò:
— Vi lascio, ma conservo questo pegno che, se non volete sia d’amore, sarà di tradimento!
— Massimo!...
Quale accento fu il mio? quale confessione traboccò dal mio cuore ricolmo?
In un baleno egli fu a’ miei piedi stringendomi appassionatamente, tempestandomi di baci che io ricambiava tremando, e in quel supremo delirio, in quell’estasi senza nome, tutto fu dimenticato.
Una voce ci svegliò — voce terribile come la squilla del giudizio finale.
— Valeria!
Ci scostammo sbigottiti.
Il colonnello entrò turbato in volto e agitatissimo. Non vide neppure il marchese. Mi porse una lettera fissandomi cogli occhi pieni di lagrime.... Dio!
Mio padre era moribondo.
Cadere dal cielo negli abissi — essere stella e sciogliersi in fango — passare dall’amore alla morte — dalle braccia ardenti dell’uomo adorato alle gelide braccia di un vecchio padre che non si osa più guardare in volto.... Tutto ciò io provai.
E come l’impronta viva, rovente di quei baci mi tornava alla memoria, nella eterna notte che trascorsi al letto dell’agonizzante! Come l’imagine di Massimo cara e bella appariva, ad onta di tutto, in quella camera mortuaria!
Ma insieme uno sconforto, un cruccio profondo, una vergogna di me e di lui.
Alcuni momenti tentavo illudermi; dicevo: non è vero, ho sognato.
Ho sognato!! — piacesse a Dio! Oh! per questa gioia farei voto di restare sempre in ginocchio davanti a quella tomba che le mie preghiere oltraggiano e dalle quali sorge minaccioso, implacabile il rimorso.
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Il venerando vecchio volle baciarmi sulla fronte, e tra i rantoli dell’agonia mormorava:
— Muoio tranquillo nelle tue braccia, o figlia mia, mia diletta Valeria. Io non lascio interamente la terra poichè un sì dolce anello mi congiunge alle generazioni future...
Lagrime disperate erano la mia risposta. Nascondevo il capo fra le sue mani tremanti e le sentivo irrigidire sulla mia fronte.
Il colonnello, trattenuto da affari importantissimi del suo reggimento, non aveva potuto accompagnarmi.
Ero sola davanti a quella agonia.
Due vecchi domestici singhiozzavano nella camera vicina e il vento della notte, sibilando tra le aperte finestre, doveva ripeterne agli echi del castello le melanconiche cadenze.
Il medico, obbligato ad accorrere altrove, ci aveva lasciati, ma ritornò verso le quattro del mattino.
L’infermo era peggiorato — non c’era quasi più polso; coi primi raggi del sole spirò.
Dopo qualche ora giunse il colonnello, a cavallo, tutto coperto di polvere.
Appena mi vide comprese che ero orfana; io non potei profferire una parola. Quando mi tese le braccia piangendo, quando il suo cuore leale si posò sovra il mio per consolarmi, perdetti completamente i sensi.
L’ultimo pensiero che balenò nella mia mente, lo ricordo come fosse adesso — fu un desiderio infinito di morire; chiusi gli occhi sperando di non riaprirli più.
Ma la morte sarebbe troppo dolce cosa se venisse quando è invocata.
Io dovevo vivere.
Non mi aspettavano giorni di lutto, di angosce, di orribili battaglie? — Non dovevo portare la croce del mio rimorso? — Non dovevo scontare con un lungo supplizio un breve, ma incancellabile fallo?
Ah! morire, morire coi baci di Massimo sulle labbra, coricarmi nella stessa tomba del mio genitore e dormire tranquilli tutti e due sotto le medesime viole.... che incantevole sogno!
Ma e Attilio? Dio mio, Dio giusto, Attilio non sarà vendicato?
Sì, di una vendetta nuova e implacabile — una vendetta che egli mi fece subire tutte le ore, tutti i minuti, senza saperlo, senza volerlo — benedicendomi!
Oh! piuttosto che i suoi teneri sguardi, piuttosto che le sue parole nobili e affettuose, io avrei preferito il suo disprezzo.
Vedersi l’oggetto di un’alta stima, di un costante amore, e sentirsene indegni, è tale martirio che li supera tutti!
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Era tepida ancora la salma di mio padre che già io avevo preso una risoluzione irremovibile: Non vedere più il marchese.
A questo scopo e secondando la profonda malinconia che mi opprimeva, decisi di non ritornare così subito in città.
Avevo bisogno di pace, di solitudine, di raccoglimento.
Il colonnello faceva delle frequenti gite, approfittando largamente di ogni giornata disponibile per passarla al mio fianco. Io era compresa da una gratitudine immensa, ma presso a lui diventavo più triste e più silenziosa.
Una lettera ardente del marchese aveva fatto vacillare, per un istante, la mia risoluzione appena nata — ma non ebbi poi bisogno di grande energia per rispondere in modo da non lasciargli alcuna speranza.
Altre lettere seguirono quella prima, le respinsi senza leggerle — ma non vedeva egli la traccia dei baci e delle lagrime sulla soprascritta mezza cancellata?
Tutti i ragionamenti che la colpa declama dalle facili tribune io tentai farli a me stessa.
Dissi che l’amore è un sentimento, che i sentimenti sono liberi, che il matrimonio è un’istituzione contraria alle leggi della natura.
Sì tutto ciò io dissi nelle profonde meditazioni di quei giorni, nè mi mancavano le opinioni di eletti ingegni che scrissero su questo argomento — le teorie esaltate di Giorgio Sand, il materialismo di Büchner, il cinismo di Rousseau.
Ma in questo turbine io roteavo senza potermivi confondere. Dopo tutto e sempre sentivo che la mia colpa era superiore ad ogni sofisma.
Il cuore si appassiona, la fantasia vola, il cervello crea dei ragionamenti, la lingua pronuncia delle frasi — e poi? La verità, la giustizia ci vengono dalla coscienza.
Se noi vogliamo ascoltarla, essa ci mostra che il lavoro della civiltà ha distrutto i diritti della natura selvaggia, che dovunque, in tutti i tempi, presso ciascun popolo, l’uomo ha creato delle leggi oltre le leggi di Dio.
Se l’amore fosse libero, questa libertà dovrebbe far accettare l’adulterio; e se si accetta l’adulterio, dov’è la ragione per respingere il furto?
Queste lotte interne mi occupavano tutta. Io avrei voluto trovare un punto, un punto solo che mi sorreggesse, una parola che mi mandasse assolta dal tribunale della mia coscienza; ma non vedevo intorno a me, nella mia condizione, nel mio avvenire, che rovine squallide.
Io non potevo bere alla coppa avvelenata il secondo sorso; i palpiti dell’amore si mutavano in sospiri ed in singhiozzi appena toccò il confine della mia bocca spergiura.
Così trascorse l’estate. Non sapevo risolvermi ad abbandonare la campagna; m’ero dolcemente assuefatta al ritiro; l’idea del mondo, della società, mi sgomentava.
Il colonnello aveva chiesto un permesso — era sempre meco o nelle camere deserte del castello o sotto i platani del vecchio giardino dove era nato il nostro amore, tranquillo, felice....
Egli compativa la mia tristezza, e nell’infinita bontà del suo cuore trovava compensi così delicati, così teneri, che mio malgrado mi sentivo vinta e mi scioglievo in lagrime sotto i suoi baci che non osavo rifiutare nè rendere.
Nelle placide sere d’autunno noi passeggiavamo muti e soletti, tratto tratto sospirando — io di dolore — egli di compassione — e forse chi sa! di rimpianto verso il dolce passato, quando le mie pupille erano specchio fedele dell’anima mia ed egli vi si mirava beato.
O Attilio, perdono! perdono! perdono!
Una sera, più del solito, ci eravamo dilungati. La luna era così limpida, così stellato il cielo, l’aria così pura e rotta a ondate dai penetranti olezzi che mandavano dal mare i boschetti d’oleandri, sotto il verde dei grandi alberi gorgheggiava così soavemente l’usignolo, che nessuno di noi due poteva risolversi a rientrare.
Dov’era il mio pensiero?
Il suo tornava malinconico ad una lontana sera — anche allora noi percorrevamo i medesimi sentieri, sotto la medesima luna, ma i nostri cuori battevano insieme, ed egli estatico, felice, aveva improvvisato dei versi.
Li ricordava? Io non li avevo dimenticati e ben mi sgorgarono dal cuore commosso quando egli mormorò:
Questo ombroso viale ci è noto per antiche e care memorie...
Si interruppe — tacque — ed io ridissi fra me quei versi:
«Io t’amerò, Valeria, infino a quando |
Come un miraggio di lontani cieli mi appariva, insieme a quei versi, lo splendore delle passate memorie; ritrovavo passo passo, ripensandovi, le speranze che mi avevano allietata nell’alba serena della vita.
Il viale dei platani, innalzando da una parte e dall’altra le sue folte pareti di foglie, si congiungeva quasi nell’alto, ma non interamente, così che la luna vi pioveva nel mezzo una striscia lattea e tremolante, da cui fuggivano le lucciole per ripararsi nel più fitto della boscaglia.
Attilio camminava sotto il raggio della casta dea, colla fronte alta, lo sguardo pensoso; ed io nell’ombra lo guardavo.
Era pur sempre la nobile figura che raggiò bella d’amore sui sogni freddi della mia giovinezza — che aveva trasformato me, giovinetta selvaggia e ritrosa, in donna amata ed amante — era egli il Prometeo che aveva rapito la prima scintilla del mio cuore!
Una luce straordinaria, una luce che sembrava celeste, circondava i suoi capelli biondi, svolazzanti al di sopra dell’orecchio e così fini, così leggeri che si sarebbero detti un’aureola.
Non ne avevo mai osservato il colore luminoso come allora che la luna vi diffondeva sopra, in una combinazione di raggi e d’ombre, sì poetico riflesso.
La sua fronte spaziosa mostrava, tra i candori di una purezza quasi infantile, una vena azzurra rilevata che l’attraversava diagonalmente da sinistra a destra e che gonfiava all’impeto delle passioni d’affetto e di sdegno; nella calma si rilevava appena con una linea serpentina dolcissima a vedersi.
Tutta la sua fisonomia portava il carattere della lealtà e l’occhio bruno, tranquillo, rifletteva la pace di una coscienza imperturbata.
Alle sue ultime parole io non avevo risposto che internamente.
Il silenzio in quell’ora, in quel luogo, aveva qualche cosa di solenne; un’anima pura doveva sentirsi trasportata verso Iddio — la mia gemeva, accasciata.
Il viale andava man mano restringendosi verso un gruppo di alberi giganteschi, dove la luna penetrava a stento strisciando frammezzo le foglie.
Si sentiva il rumore del mare portato sul vento insieme al profumo degli oleandri e i lievi vapori sorgenti dalla terra umida impregnavano l’aria di mollezza.
Istintivamente mi accostai a mio marito; egli circondò con un braccio il mio corpo, e così continuammo alcuni passi.
Una foglia di platano staccandosi dall’alto cadde su’ miei capelli. — Attilio la prese e la ritenne colle labbra.
Fremetti come se una lama agghiacciata mi fosse scesa dalla nuca giù nelle reni.
— Mio amore! — disse egli accarezzandomi.
Lo abbracciai disperatamente, con un impeto da pazza; ma quando di sotto ai platani egli mi trasse al raggio della luna per contemplarmi, vide il mio volto inondato di lagrime e pallido come uno spettro.
Dovette portarmi a casa sulle sue braccia.
Corcira, 22 aprile.
Eccomi finalmente tra voi, isole del mar greco, mio ardente desiderio!
Siatemi pietosi delle vostre ombre o aranci, o pallidi ulivi, nascondetemi agli occhi di tutti. Mi saranno cella le antiche foreste dove echeggiava il canto di Saffo e chiostro il mare.· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Come mi amava Attilio!
Il suo sguardo cercava con ansia il segreto dei miei pallori, delle mie lagrime, delle veglie agitate.
Il suo sorriso pieno di indulgenza sembrava accarezzarmi; non usciva una parola dalle sue labbra che non fosse di candido affetto.
Avrei potuto essere così felice!...
I vicini di campagna che ci incontravano lungo i sentieri o che intravedevano le nostre figure sempre insieme, sotto i platani del giardino, chiamavano il mio castello: l’Arcadia.
Ma già correvano delle voci sul visibile decadimento della mia salute. La gran parola etica, uscita non si sa donde, percorse tutto il paese finchè giunse a mio marito, ricca di commenti paurosi e di melanconici presagi.
Le ansie del colonnello crebbero e le sue cure del pari. Ma più egli mi si mostrava affezionato, più il rimorso mi dilaniava il cuore. Ero giunta al punto di non poter affrontare direttamente il suo sguardo e di vivere in una agitazione continua.
Il novembre si avanzava nebbioso e cupo; io avevo dichiarato di non voler tornare in città, benchè il soggiorno del castello diventasse ognor più monotono.
Una mattina tossii un poco. Attilio tutto tremante mi guardò nel bianco degli occhi.
— Non è nulla — dissi sorridendo — ieri sera tenni un po’ troppo aperta la finestra.
— La stagione è insopportabile in questo luogo, Valeria, tu non puoi rimanervi a lungo; non lo permetterò.
— Sai che mi turba il pensiero della società colle sue etichette e le sue esigenze. Non ho voglia di divertirmi quest’anno — mi sento immensamente portata alla solititudine.
— Ma la solititudine alimenta i tristi pensieri e tu hai bisogno di svagarti, mia gentile romita.
— Te ne prego, Attilio, lasciami qui; verrai a trovarmi spesso...
— D’onde questa facile rassegnazione a startene lungi da me... tu che una volta non te ne saresti spiccata un solo giorno?
Non v’era ombra di amarezza nell’accento, ma le parole erano terribilmente vere.
— Attilio, la disgrazia che mi ha colpita...
Vile menzogna! — non ebbi il coraggio di proseguire, ed egli soggiunse con fuoco:
— Qui non devi rimanere, ad ogni costo; ogni persona, ogni oggetto ti richiamano penose memorie. Ho un’idea — vuoi sentirla? Se tu mi ami, verrai meco in quel dolce paese dove l’inverno non ha rigori, dove il cielo sorride eternamente, tra Baja e Posilipo: Domanderò l’aspettativa; voglio vivere soltanto per te o mia Valeria. Tu guarirai e saremo ancora felici.
Potevo io accettare il sacrificio di quella nobile esistenza? Non era meglio svelargli ogni cosa e terminare lo strano supplizio!
E poi? O perdonata o maledetta io sarei stata egualmente infelice; e strappando la benda da’ suoi occhi lo consolavo forse?
Ma d’altra parte, l’avvenire di Attilio dipendeva dalla sua carriera militare; un’assenza troppo prolungata doveva nuocere al suo avanzamento. Io colla mia tristezza, col mio bisogno di solititudine gli tornavo d’impaccio. Libero, avrebbe potuto guardare dritto davanti a sè e mirare ai più alti gradi.
— Ti ringrazio — dissi con una tenerezza di gratitudine che mi sgorgava sincerissima dal cuore — tu vuoi mettere ai miei piedi la gloria e gli onori che ti aspettano; non li merito, Attilio, non li voglio!...
Un singhiozzo mi ruppe le parole. Egli si chinò verso di me baciandomi sulle guance e sui capelli e talvolta sulle labbra per impedirmi di parlare — frattanto diceva:
— La mia gloria, il mio onore sei tu — e sei anche la mia unica gioia. Che farei senza il tuo affetto? Nè ambizione, nè povertà mi costringono a vivere per gli altri — sono padrone di me stesso; e poichè tu sei stanca del mondo, quale motivo avrei per rimanervi? Deh! lasciamo questo tetro castello. Vieni con me! È il tuo sposo, è il tuo amante che ti prega....
Mi sentivo affranta; per quel giorno non feci altra resistenza.
— Un contadinello chiede di parlare alla signora contessa.
— Sarà per qualche soccorso, fatevi dire di che si tratta — io non ricevo nessuno.
Il domestico col quale avevo scambiato queste parole ritornò quasi subito dicendo che il contadinello insisteva per vedermi.
— Ebbene, che entri.
Era un ragazzo dalla faccia sveglia, curioso miscuglio di onestà e di furberia. Non sprecò molte parole; consegnommi un biglietto per parte di un signore e guizzò via come una freccia.
Il biglietto, leggermente profumato, coperto da una scritturina elegante e minuta diceva: «Lasciate che vi possa vedere un solo istante!» e poi una frase ardente, di quelle frasi che due persone appena devono leggere — l’uomo che le scrive e la donna cui sono dirette.
Dante espresse con due versi celebri questo pudore della passione che non vuole mostrarsi a tutti gli sguardi — sublime nel segreto, nella pubblicità ignobile:
Parlammo cosa che il tacer è bello |
Il biglietto non portava firme, ma tra una riga e l’altra io vedevo scintillare gli occhi del marchese.
Ne fui turbata immensamente.
Il fuoco tornava a sprigionarsi di sotto le ceneri con tanta cura raccolte.
Che cosa dovevo fare? Stracciai subito il foglio giurando di non rispondere, ma le parole mi si erano scolpite nella mente a caratteri di fuoco e mi bruciavano.
Rivedevo mio malgrado quegli sguardi così potentemente luminosi, quel sorriso caustico pieno di seduzioni, quel volto dove la passione sembrava adagiarsi tra pallide e morenti rose.
L’ebbrezza mi dominava. Fantasie sensuali facevano risonare al mio orecchio una musica di baci — sentivo la stretta frenetica delle sue braccia e la sua voce melodiosa susurrarmi tremando: io t’amo!
Era un inferno.
Mi dibattevo contro me stessa, accusandomi, percotendomi come un leone che si spezza il cranio alle sbarre della sua gabbia.
Chi non ha provato queste smanie furenti non può comprendermi. Le donne che amano e che piangono senza scomporre la leggiadria del viso e la sapiente architettura dei capelli, che sospirano colle labbra tinte di cinabro e singhiozzano moderatamente nel loro busto stringato, queste donne mi chiameranno esagerata.
Esse cinguettano d’amore gentilmente come le colombe sui tetti — ma il mio era ben altro amore!
Colle guancie solcate da lagrime appena terse, con un sorriso che mi costava atroci spasimi, passai la giornata come al solito in compagnia del colonnello.
Verso sera, siccome spirava una brezza pungente e il cielo coprivasi di nuvoloni neri neri, Attilio chiuse i vetri e fece accendere la lampada del salotto.
— Vedi? l’inverno si avanza; ma a Posilipo non c’è inverno.
Egli pronunciò queste parole metà ilare, metà serio; io non risposi e mi coricai sul divano. Poco dopo, vedendolo assorto nelle ricerche di un atlante geografico, mi alzai chetamente e uscii di camera — le pareti mi opprimevano, il soffitto mi sembrava una cappa di piombo.
Senza alcun preconcetto disegno presi, all’avventura, il viale dei platani, ed errai per qualche tempo sotto gli alberi sfrondati, finchè l’umido della notte, penetrando il leggiero tessuto della mia veste e immollandomi le ossa mi ricondusse insensibilmente verso casa.
Costeggiavo il muro di cinta sul quale si arrampicavano folte ghirlande d’edera, quando udii un fruscio vicinissimo a me e subito dopo una apparizione che mi gelò di spavento.
Il marchese mi stava davanti scongiurandomi di ascoltarlo.
Io volli gridare, volli fuggire, volli imporgli silenzio, ma non feci nulla, ed egli intanto mi dipingeva a vivi colori le sue smanie e i suoi delirii; mi ridisse cento volte t’amo e non so quanti baci impresse sulle mie mani che fredde ed inerti io gli abbandonava.
Finalmente trovai un filo di voce ed a mia volta tentai commoverlo col racconto della mia vita piena di angoscie e di rimorsi; feci appello alla sua generosità, alla sua compassione — che mi usasse la misericordia di non pensare più a me!
Egli protestò non poterlo fare.
— Ma che pretendete dunque? — esclamai. Non vi basta di aver cambiato la mia felice esistenza in una tortura senza nome? Per voi ho perduto l’onore, la pace, la stima di me stessa.... deh! lasciatemi la libertà di scontare il mio fallo e di dimenticarvi.
— Ma tu sei mia, Valeria! Se ad altri ti lega la solennità di un rito, io sento in me la forza di contenderti al destino. Lascerò tutto per seguirti — il mio mondo sarà dove tu posi la testa, e la mia vita dove tu respiri. Perchè vuoi farmi morire se m’ami?...
Egli parlava con veemenza e le mie mani strette sul suo cuore ne sentivano i battiti accelerati.
— Massimo, una sola prova d’amore voi potete darmi, ed è quella di credere che mi resta ancora un po’ di onestà per resistervi. Voi avete trionfato d’una donna che sfidò per venticinque anni ogni debolezza, e che si credeva invincibile. Vi basti.
— E come posso io perdervi, Valeria, ora che il mio amore si converte in culto? Non sapete....
— Addio! — interruppi bruscamente e con accento risoluto.
— No, non così — baciatemi almeno!...
Fui coraggiosa fino all’ultimo. Mi sciolsi con prestezza dalle sue braccia e fuggii nella direzione del castello chiamando ad alta voce i lumi. Tutti i servi uscirono sbigottiti.
Mio marito mi raggiunse in un attimo sgridandomi con dolcezza per essere uscita di notte a sua insaputa. Tossii molto e fui presa dalle convulsioni, che si spiegarono facilmente con un po’ di spavento preso in giardino.
Un sentimento ineffabile dominava il turbine dei miei pensieri. Al di sopra dell’agitazione della tempesta dei sensi, provavo la soddisfazione calma e profonda di aver adempito il mio dovere.
Ad Attilio che mi si era posto vicino prodigandomi mille cure delicate, osai stringere la mano e dirgli con desiderio sincero:
— Andiamo a Posilipo!
Non era felicità la mia — la felicità l’avevo spenta nel primo bacio colpevole — non era nemmeno gioia — era una dolce malinconia che mi creava un bisogno di penitenza, una voluttà novissima di redenzione.
Ho tradito l’uomo che in me ripose tutto il suo amore, ma il castigo sarà uguale alla colpa — un avvenire d’abnegazione e di sacrificio non basterà per assolvermi? Sì, lo spero — ho bisogno di questa consolante fiducia, di questa meta serena per ritemprare le mie forze e continuare animosa nella via appena tracciata.
Così pensavo lasciando il paterno castello — e, agguerrita dalla onesta risoluzione, trovai un sorriso per salutare il cielo di Napoli e l’incantevole golfo che gli si apre a’ piedi.
Attilio aveva appigionato una graziosa casetta, tutta bianca in mezzo al verde degli ulivi, con una terrazza sporgente sul mare.
Una barca ci conduceva spesso lungo le rive imbalsamate di fiori, su quell’acqua cangiante come l’iride — ora azzurra, ora bruna, ora a striscie color di rosa e d’argento.
Più sovente ancora, io me ne stavo appoggiata al parapetto di marmo della terrazza, contemplando le profondità misteriose dell’orizzonte.
L’isolamento nei primi giorni era completo, ma in una delle nostre gite sul mare incontrammo la principessa, mollemente sdraiata su cuscini di raso cremisi.
Il riconoscimento fu cordiale da una parte e dall’altra.
— Voi vedete, mia cara contessa, son qui come Cleopatra — meno Marc’Antonio — ma la colpa non è mia. Mi son decisa a passare l’inverno a Napoli per esperimentare se le dolci aure del golfo hanno il potere di sottrarre una ventina d’anni alla somma de’ miei peccati.
Ella rideva, come sempre, sotto i suoi fulgidi capelli bianchi e con i suoi occhi neri brillanti del fuoco della gioventù. Era una bellissima vecchia, alta, ritta, calzata con civetteria e vestita da gran signora. La sua mano piccolissima nascondeva le infedeltà del tempo entro guanti chiari di pelle di Svezia, sui quali ricadevano ampi manichini di pizzo.
La principessa non mi avrebbe per nulla fatto maraviglia dicendo che aveva un amante.
Ma ella viveva da cenobita e da filosofo in mezzo alle tentazioni; era uno spirito liberale, umoristico, un po’ volterriano; buona donna e brava in tutta l’estensione della parola.
Il suo incontro modificò l’itinerario pastorale della nostra esistenza e sparse qualche raggio di gaiezza sui rapporti malinconici tra me e mio marito.
Si rammentarono naturalmente gli amici lontani e il nome del marchese non fu l’ultimo a comparire.
Un giorno la principessa che aveva un debole per lui, lo confessava molto volentieri, lagnavasi di non averlo veduto da molto, ma da molto tempo.
— Non se ne sa nulla — ella diceva col suo solito brio — pare impossibile! Un uomo come lui non scompare a questo modo.... salvo che non stia tra le pieghe di una gonnella. Ma che gonnella poi? — qui sta il nodo. Strascico di dama, percallo di modistina, velo di danzatrice? Tenebre e mistero.
— Un uomo così seducente — concluse Attilio senza dubitare che le sue parole mi mettevano alla tortura — dovrebbe scegliere una bella fanciulla e coronare col vero amore l’edificio sempre fragile e caduco degli amori illegittimi.
— Voi parlate come uno dei sette savii, caro colonnello, dimenticando però che il mondo non è popolato di Valerie.
Che cosa feci per troncare questa conversazione? Non mi ricordo. Probabilmente mi alzai, col pretesto di vedere se il sole era scomparso dal terrazzo.
Dev’essere stato così perchè la principessa e mio marito mi seguirono parlando degli effetti del tramonto sul mare.
Quando la luna incominciò a far capolino dietro le cime del Vesuvio, alcune barchette vennero a guizzare sulle onde, portando nel loro grembo o allegre comitive di giovanotti o coppie di innamorati patetici.
Una spiccava fra le altre per la forma speciale, e perchè l’unico rematore la spingeva lentamente sostando a guisa di chi cerca o pensa o non si cura degli oggetti che lo circondano.
Io stavo sola, curva sul parapetto — Attilio e la mia amica ciarlavano seduti.
La barca solitaria passò rasente al muro; l’uomo era vestito elegantemente da marinaio e un fez posto avanti sulla fronte gli nascondeva il volto — guardò in su, s’inarcò con un movimento pieno di grazia e mi fece cadere ai piedi una rosa.
Fu un istante — ma al raggio della luna mi parve di riconoscere quelle pallide guance e quegli occhi sfolgoranti.
Egli mi aveva seguita.
Attilio raccolse il fiore e scherzando sul galante anonimo mi disse ridendo:
— Conservalo. Lo metterai fra le memorie di Posilipo.
— Non mi piacciono i fiori appassiti — risposi con freddezza.
Mi sporsi fuori dal terrazzo e lasciai cadere la rosa — la bianca spuma del mare la travolse portandola lontano.
Egli, ritto nel mezzo della barca, mi contemplava.
Non lo vidi più per tutto il tempo che restai in riviera, e potevo credere di essermi ingannata, di aver ceduto a un’illusione della mia fantasia, se pochi giorni dopo la principessa non mi avesse confidato di aver visto «errante pensoso sotto i melagrani come un eroe da ballata» una mesta figura che somigliava tutta al marchese. Ella era in vettura e non potè accertarsene con sicurezza, ma «il cuore me lo dice, era il mio caro Lit***».
Anche il mio cuore lo diceva — purtroppo! e tant’altre cose mi diceva, dolorose e tristi, allorchè Attilio sedevami silenzioso al fianco e la bianca luna ci avvolgeva nel medesimo raggio, là su quel terrazzo di marmo!
Attilio languiva nell’inazione. Senza che egli se ne accorgesse, l’ozio pesava alla sua attività robusta. Io era la cagione di avergli fatto abbandonare il reggimento e con esso amici, lavoro, tutte le abitudini di una vita agitata e feconda.
Egli si sacrificava per me.... povero Attilio, per me che ne ero sì poco degna. Ma non volli che questo esilio si prolungasse; poichè il mio cammino era tracciato e la penitenza doveva occuparlo tutto, a che scopo secondare una debolezza?
Posi in opera ogni mia virtù per decidere il colonnello a riprendere il servizio; egli dapprima ne fu maravigliato, poi contento, e infine si combinò la nostra partenza per i primi di marzo.
La principessa non ci accompagnava. Noi la lasciammo innamorata del cielo di Napoli, sotto il quale sperava sempre di poter ricominciare una seconda giovinezza. Se il miracolo è possibile, ella è ben capace di farlo; quante donne di vent’anni vorrebbero avere il brio e l’eleganza di quell’amabile vecchia!
L’itinerario del nostro viaggio era molto semplice — la strada ferrata doveva condurci direttamente alla città, ma io pensai che con una leggiera deviazione avremmo potuto sostare un giorno al castello.
Oh! se avessi preveduto che questo cambiamento insignificante mi apparecchiava una nuova sventura! ma forse il mio sacrificio non era completo, e un grande castigo ci voleva per placare l’infallibile giustizia.
Giustizia di Dio? degli uomini? del caso? — non so. Io non credo a un tribunale sempre pronto a punire o a scrivere le colpe sul libro leggendario dei tormenti eterni; ma credo nella giustizia immensa della natura, nell’equilibrio universale che non tien conto dell’individuo, dei tempi e del modo, che colpisce il padre nel figlio e l’uomo nei popoli. Talvolta la giustizia è immediata, come nel mio caso — il volgo allora crede scorgervi un intervento divino — ma tal altra si nasconde al breve giro di un’esistenza, poichè cos’è un’esistenza nell’ordine immenso della natura? e cos’è un’anima d’uomo con tutto il suo orgoglio, con tutti i suoi vizii, in confronto della grande anima dell’universo?
Ma basta — comunque sia, bevetti fino alla feccia l’amaro calice e n’esulto.
Il mio cuore ritemprato e mondo può gittare uno sguardo sicuro nell’avvenire.
Quindici miglia separano la nostra villa dalla stazione ferroviaria. Avendo telegrafato ai domestici, il cocchiere ci venne incontro colla carrozza.
— Questi non sono i miei cavalli! — esclamò il colonnello appena vide i due puledri, dai vivacissimi occhi, che mordevano il freno e che il cocchiere teneva fermi a stento.
— I cavalli del signor conte sono un po’ indisposti, il signor barone ha creduto bene di darmi i suoi.
Questo barone era un vicino di campagna, già amico di mio padre e guardiano del castello quando noi eravamo lontani.
Non si pensò ad altro. La giornata era senza sole, ma mite l’aria e c’era tutto intorno qualche cosa che annunciava la primavera.
Facemmo scoprire la carrozza per goder meglio la vista del paese, ed essendo gli alberi privi di foglie, Attilio mi fece osservare, allo svolto d’un sentiero, il belvedere del nostro castello che dominava la spaziosa e ondulata campagna.
I cavalli fino allora erano andati benissimo, ma quello di destra incominciò a dar segni di inquietudine rizzando le orecchie e fiutando il vento colle narici dilatate.
Sull’estremo lembo dell’orizzonte si addensarono alcune nubi ed un rapido cambiamento d’atmosfera avvertiva la minaccia di un temporale.
— Sei sicuro del cavallo di destra? — domandò mio marito al cocchiere.
— Oh, signor conte, non dubiti.
— Procura di guadagnar tempo sulla pioggia; non mi sembrano bestie molto pazienti queste del barone.
Per un poco il cavallo bizzarro si chetò, ma ad uno scoppio improvviso di tuono diede un balzo e piantossi sulle gambe di dietro, coprendo il morso di schiuma e di sangue.
Incominciai allora a temere qualche sciagura. Attilio cercò di calmarmi e sopratutto di farmi coraggio.
Ma i tuoni spesseggiavano, strisce di fuoco lambivano i neri nuvoloni che si avanzavano con incredibile rapidità.
Lo sgomento divenne generale. I cavalli, quasi pazzi, si erano dati ad una corsa sfrenata, e i due domestici, lividi di spavento, riunivano invano le loro forze per trattenerli.
Io leggevo negli occhi di mio marito una calma disperazione che era ben lungi dal rassicurarmi.
A un tratto le ruote, trasportate con violenza, inciamparono in un albero che attraversava la via, la carrozza si rovesciò, il cavallo di destra, rotto il freno, proseguì la sua corsa disperata, mentre l’altro anelante cadeva sui ginocchi.
Nel momento terribile io mi sentii sollevata da due forti braccia, e tra lo sfacelo delle molle e dei legni caddi dolcemente senza farmi alcun male.
Ma Attilio?
Attilio per salvarmi non aveva badato a sè stesso e giaceva con una gamba sotto le ruote, privo di sensi.
Nel vederlo immobile, pallido, quasi esanime, non ricordai più nè la posizione in cui mi trovavo, nè il cavallo che fuggiva, nè i servi che sbigottiti e malconci dalla caduta aspettavano i miei ordini.
Pensai ch’egli si era posto sotto a me per difendermi e che forse moriva per salvare una donna che lo aveva disonorato.
Ignoro come riuscimmo alla villa; non mi preme ricordarlo. Tutte le mie cure furono rivolte a lui, sempre privo di sensi. Oltre la lacerazione delle gambe gli era toccata una forte scossa cerebrale e il medico chiamato immediatamente non mi nascose che le ferite erano gravi....
Dicono che non si sente mai tanto il valore di una cosa come quando si teme di perderla; non è questa la sola verità che il buon senso del popolo abbia eretto a massima....
Se non avessi mai amato mio marito, avrei incominciato ad amarlo allora quando, curva sul suo capezzale, lo vedevo impallidirmi davanti.
Colle mani strette nelle sue io rifacevo il passato e m’illudevo di essere, come nei primi tempi del mio matrimonio, la sposa intemerata, l’angelo tranquillo del nostro focolare, dove amore accendeva non la più viva, ma la più soave delle sue faci.
Che cosa non avrei pagato per riacquistare la pace della mia coscienza irremissibilmente perduta!
Ecco — pensavo — quest’uomo crede doverti essere riconoscente per quei pochi servigi che tu gli presti; crede di doverti amare, di doverti benedire perchè vegli le notti per lui e lenisci colle tue cure i suoi dolori — ma egli non sa che tu usurpi una missione sublime, che osi vestire l’abito della carità, tu, perduta!
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Qualche volta il delirio mi faceva uscire in parole sconnesse, forsennate; Attilio che le attribuiva alla debolezza di eccessive fatiche mi cingeva amorosamente con le sue braccia, mi obbligava a posare la testa sul suo guanciale, baciandomi — e una lagrima dell’offeso cadeva, rugiava inconsapevole e misericordiosa, sulla povera pentita.
Egli ignorava tutto. Come avrebbe potuto il sospetto penetrare in quell’anima elevata?
Ma appunto per ciò inasprivasi il mio tormento. Mira d’onde sei caduta! gridavami l’orgoglio.
Qual amore sprezzasti! — mi sussurrava il cuore. E dov’era il compenso?
Poteva Massimo rendermi una sola delle pure gioie che gli avevo sacrificate? Ah, l’amore colpevole non rende felici — per un giorno basta l’ebbrezza, ma la vita ha bisogno di pace.
Come cacciare dalla mia mente i ricordi di una passione che un solo istante di debolezza aveva segnato con traccie roventi?.... Massimo s’interponeva fra me e il rimorso, alimentando di sorgenti meno pure le lagrime del pentimento.
I giorni passavano e il colonnello peggiorava. Il medico faceva di tutto per illudermi e mi sarei forse illusa; ma Attilio parlava del suo prossimo fine con quella calma dignitosa, con quella severa rassegnazione che l’uomo onesto sente all’avvicinarsi del tremendo mistero.
In pochi mesi era già la seconda volta che mi trovavo di fronte alla morte. Essa mi rapiva i più nobili affetti, quasi per punirmi di averli oltraggiati.
Io tremavo e nascondevo il volto ardente di rossori, mentre nell’impeto di un tardivo amore esclamavo prostrata davanti al suo letto:
— Potessi salvarti! — oh, dimmi se ti basta il mio sangue, la mia misera vita. Parla! Dimmi che non soffri, dimmi che non morrai!
Mi pareva, in quei momenti, che mi sarebbe stato agevole scontare ogni colpa e vivere gli ultimi anni redenta e felice con lui che era stato il mio primo amore.
Questo pensiero mi esaltava fino alla disperazione e copriva di baci la sua fronte smorta, la livida bocca che fra gli spasimi mi sorrideva ancora.
Una sera — chiare raggiavano le stelle, il cielo senza luna scendeva come una cortina azzurra sui vetri della finestra — Attilio era mesto più dell’usato.
— Mia diletta — mormorò con debole voce — l’ora dell’estremo distacco è giunta. Io ti lascio giovane e bella e sola in questo mondo che l’amore appena colora di rosei riflessi — e sono pur fuggevoli riflessi, tu il vedi, Valeria!... Ma comunque, senza amore è intollerabile troppo la vita. Ascolta: se un uomo di cuore venisse ad offrirti giorni meno duri, se l’esilio ti sembrasse soverchiamente acerbo a compiersi senza guida — pensa che dalla tomba io ti benedirò, mia dolce amica. L’egoismo delle umane passioni si frange contro la pietra del sepolcro — sii felice, Valeria. Io ti lascio sola.... ma libera!
— No — lo interruppi con slancio vivissimo — se Dio accetta ancora il giuramento di una disgraziata, per la memoria di mio padre, su questa tua mano che ognora mi resse pietosa, giuro, Attilio, che non sarò mai d’altri!
Una scintilla riaccese l’occhio del morente. In quei supremi istanti la maschera mi bruciava sul volto. I miei sguardi smarriti dovevano rivelargli più che dolore. Io volevo confessare la mia colpa — sì, me ne sentivo il coraggio — sentivo il bisogno di umiliarmi, di comparire idolo abbietto e spergiuro su quell’altare dov’egli mi aveva adorata.
Attilio — gridai — Attilio mio....
Ma un pallore terreo si diffuse sulle sue guancie — balzai in piedi chiamando soccorso, pazza d’affanno e di terrore.
Si mandò subito pel medico; era uno svenimento, cagionato dalle soverchie emozioni, per cui la calma più assoluta diventò indispensabile.
Quale notte trascorsi al suo fianco, muta, struggendomi in lagrime!
La cortina azzurra del cielo, perdendo a poco a poco le sue gemme, si fondeva in un grigio diafano attraversato da strisce color di rosa — l’alba spuntava, eterna giovinezza del mondo!
Attilio aperse gli occhi, mi guardò; guardò la luce serena, sorridendo, come se al disopra di quei raggi scorgesse l’infinità di altri mondi; fece un movimento per alzarsi, ma ricadde colle mani tese in avanti, la pupilla velata, freddo cadavere nelle mie braccia.
Triste come la vita: disse un poeta.
Le gioie vi sono scarse, frequenti i dolori, e mentre le prime sorvolano senza lasciare traccia, schifi leggieri su di un mare tranquillo, i secondi come nave sbattuta dalla tempesta gettano sulla riva le sfasciate loro rovine.
Sul cammino dell’esistenza procedo oramai sola, fra due morti.
Un nome terribile e caro osa salirmi qualche volta dal cuore alle labbra.... ma voi mi perdonate, o Signore, perchè conoscete il mio sacrificio!
Vivevo così ritirata anche prima, che non ebbi bisogno di dare nuovi ordini!
Nella solitudine più perfetta mi scorreva il tempo pensando a coloro che io avevo amati e perduti.... e a colui che tentavo strapparmi dal cuore, inutilmente.
Dov’era? Conosceva i miei casi? Mi amava ancora? — dubbi amarissimi e cocenti sospetti fra cui l’amore, l’orgoglio e il dovere combattevano fiere battaglie.
Ma egli venne — e tanta speranza riluceva ne’ suoi occhi, tanti desiderii frementi e giulivi irrompevano dalle sue labbra che ebbi l’intuizione di una nuova tortura: dover uccider io stessa la mia felicità — avere in mano la coppa dell’amore e spezzarla!
Per quanto le angoscie e i rimorsi avessero smorzato in me l’ardore dei sensi, pure, quando lo vidi bello e appassionato slanciarmisi incontro, interrogarmi co’ suoi occhi profondi, allacciarmi nelle sue braccia che l’eccesso dell’emozione rendeva tremanti, quando sentii palpitare il suo cuore, quando la sua voce rotta dai singhiozzi trovò una nota per dirmi: Sei mia! — o misera, una tentazione irresistibile mi balenò nel pensiero. L’amore prorompendo di sotto il giogo, anelava alla libertà, e nei vortici del sangue tumultuoso, fremendo, mi schiudeva un eden di delizie, un estasi entro cui nuotava come in un pelago incantato l’accesa fantasia. Vidi passarmi davanti giorni di gaudio senza fine, una non interrotta ebbrezza, un oblio del mondo intero — e lunghe confidenze e teneri abbandoni e un desiderio infinito di amare, di godere, di vivere!
Io stavo per gridargli: Sì fuggiamo, sono tua; conducimi sotto i cieli più azzurri, sotto le più verdi ombre; ho bisogno d’aria, di fiori, di spazio, di laghi fosforescenti, di miti raggi e de tuoi baci.... oh, de’ tuoi baci.
Ma qual’ombra mesta e invendicata mi si rizza davanti reclamando il suo onore? Qual voce mi grida: Spergiura! Quale angelo ultimo rimasto alla custodia del mio cuore, si copre tristamente colle sue ali e mormora: adultera, adultera!...
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Massimo — diss’io allontanandomi dolcemente — un’ora basta per perdere una vita; io vi ho dato la mia in quell’ora.... nulla or più mi resta.
— Che parole ascolto, Valeria? Ben comprendevo i vostri scrupoli di donna onesta e di moglie fedele, e li ho, martorizzandomi, rispettati; ma il destino mi permette ora di offrirvi un nome onorato e un’esistenza priva di rimorsi.
— Un nome onorato!... sono io degna di portarlo? Potete offrirmelo voi? Credete che ove vi fu colpa si arrivi a soffocare il rimorso? — no, idra inestinguibile esso rinasce ad ogni istante. Sarebbe l’assenzio delle nostre ebbrezze, la mano invisibile che scriverebbe su tutte le pareti: questa donna che tu ami non puoi stimarla!
Il marchese mi ascoltava impietrito come uomo che crede di sognare; si avvicinò di tutti quei passi ch’io mera arretrata e con voce commossa rispose:
— Io so che vaneggiate. L’amore non può parlare così barbaramente all’amore; voi dovreste pur avere compassione di me — sapete che vi adoro.
— Non ebbi mai dubbio sulla vostra lealtà, Massimo; siete un uomo onesto e vi ringrazio — ma non potrei esser felice. Ho una missione da compiere; questa missione è lungi da voi. Separiamoci come due pellegrini che bevettero una sol volta alla medesima fonte.... dimentichiamo il passato!
Io ero in piedi; egli sedette e, tenendomi per le braccia, mi attirò fin presso i suoi ginocchi, guardandomi con una espressione di volto così supplichevole, ch’io mi sentii quasi venir meno.
— Che cosa vi ho fatto, angelo mio, per torturarmi in questo modo? Perchè mi respingete ora che ci si prepara un avvenire di pure gioie, di riabilitazione e di pace? Ti amo sai? Ti amo, Valeria, mia bella amica, mia tenera amante, mia sposa!
— Tacete — esclamai mettendogli una mano sulla bocca — ho profanato questo sacro nome e non lo porterò mai più.
Mi allontanò con dolcezza nascondendo il volto tra le palme e stette alquanto silenzioso; poi si alzò pallido e cogli occhi rossi:
— Qualunque cosa accada, pensate che voi lo voleste.
Il suo accento era pieno di lagrime; uscì — ed io lo seguii colle pupille smarrite, tenendomi appoggiata al muro, più morta che viva. Ma ad un tratto le mie deboli mani non mi ressero più e scivolai sul pavimento mandando gemiti disperati.
Ardentissimi baci mi ridestarono.
Massimo mi teneva stretta nelle sue braccia; la mia fronte appoggiata sul suo petto provava una vertigine di felicità, una sensazione di beatitudine che mi faceva pensare al paradiso.
Era possibile resistere a quell’assalto di carezze, a quell’urto dei sensi da cui già sprigionavansi infocate le mille scintille del desiderio?
Potevo negargli il mio amore dopo che egli mi aveva raccolta svenuta per l’affanno, e che la sua mano impaziente aveva interrogato i battiti del mio cuore?
Risorsi a una finzione.
— Amico mio — gli dissi interrompendo gli impeti vivaci del suo giubilo — voi siete troppo generoso per voler approfittare del mio turbamento e strapparmi una promessa che deve decidere di tutta la mia vita. Vi chiedo alcune ore per riflettere. Se troverò nella mia coscienza una voce sola che si alzi a difendermi, ve lo prometto, Massimo, sarò vostra.
Chinai il capo arrossendo sotto la pietosa menzogna mentre egli sfavillava di speranza.
— Ed ora lasciatemi... Massimo, tornerete domani.
— Non avrò io un bacio dalla vostra cara bocca come pegno di fede?
Atroce contrasto! Egli era giulivo e mi tendeva le braccia sorridendo; accostai le labbra a quel bellissimo viso, sfiorando i neri capelli, e lo baciai lungamente... per l’ultima volta!
Ancora un bacio, Valeria...
Era necessario resistere perchè il coraggio mi abbandonava.
Domani, Massimo, mio immenso amore!
Feci alcuni passi per allontanarmi, ma mi raggiunse.
— Per pietà lasciatemi.
— Giura che sarai mia!
Non risposi.
Mi sciolsi dalle sue braccia ma fuggendo il mio cuore si spezzava perchè sapevo che non lo avrei riveduto mai più.
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Appena il cancello del giardino si schiuse per lasciar passare la carrozza del marchese salii nella mia camera — avevo la febbre, una febbre che centuplicava le mie forze — chiamai la camariera e le diedi ordine di allestire i bauli.
Cogli altri servi presi le norme opportune di chi si prepara a un lungo viaggio senza durata certa e forse senza ritorno.
Il resto della giornata e metà della notte li spesi nei preparativi indispensabili. Scrissi una lettera al mio uomo d’affari, una al barone per la sorveglianza del castello, una a lui... oh! dieci ne scrissi e le lacerai tutte.
Alla fine presi un biglietto e vi apposi questa sola parola: Addio! Non diceva essa tutto?
Il mio amore, le mie lotte, il supremo sacrificio, tutto racchiusi in quella parola che bagnai di lacrime ardenti.
Il medesimo colpo doveva ferirci entrambi — io, esule volontaria portando meco la morte — lui, accorso ilare e pieno di speranza per trovare il più crudele disinganno.
Il mio dolore acquistava un’intensità di spasimo pensando a quanto egli avrebbe sofferto; ma la riabilitazione è inesorabile come la giustizia.
All’alba — un’ora sola mancava alla partenza, tutto era pronto e la destinazione doveva essere un mistero — mi recai inosservata al camposanto, dove fra umili croci s’innalzava il mausoleo della mia famiglia coi recenti tumuli del padre e dello sposo.
Pregai sovr’essi e piansi — e mi parve che dal freddo marmo si svolgesse un’aura di pace e di perdono...
Grazie, mio Dio.
Ora eccomi lungi da voi, care memorie, diletta patria, culla della mia soave infanzia. Da queste remote spiaggie io vi saluto! Addio sogni, illusioni, ebbrezze, vita felice! Addio mia casa eternamente perduta, addio famiglia, addio avvenire — e tu, Massimo, mio fatale amore... addio!
fine.