Poesie (Mamiani)/L'Autore delle Poesie ai Lettori
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L’AUTORE DELLE POESIE
AI LETTORI.
Permettendo io ed anzi aiutando con istudio e fatica questa nitida ed elegante edizione delle mie poesie, appar manifesto che io non le reputo indegne di tale onore. E però, torna meglio assai che io lo confessi al publico esplicitamente e senza spreco di modestia affettata e da niuno creduta. Non che io giunga al delirio di pormi in ischiera coi tre o quattro veri poeti de’ quali si può gloriare l’Italia de’ nostri giorni, o che io presuma di venir subito dopo essi e, come dicesi, star loro alle tacche e mettere in dubio i meno avveduti su qual gradino sia posto il mio sgabelletto. Ma pur tacendolo io, ciascuno leggerebbemi dentro l’anima che io porto opinione che se qualcuno mi collocasse fra gli ultimi sì ma non fuori al tutto del novero de’ poeti minori dell’età nostra, io non istimerei usurpato affatto quel loco e quella dignità. Nè avrei timore che in una rassegna fatta (poniamo caso) in qualche pianura della Beozia tra il monte Elicona e il monte Parnasso, le sante Muse cacciassermi fuori del picciolo stuolo di loro milizia, in cui non è mai presunto di entrare come capo, ma come semplice ed umil gregario. Trovarono i raccoglitori e compilatori greci e latini quest’ordine di poeti minori per cansar due pericoli; l’uno d’essere ingiusti coi sommi, quasi accomunandoli a gente che può tener loro il bacile; l’altro, di fraudare d’ogni gloria coloro i quali oltrepassarono chi più chi meno la detestata mediocrità, e in alcune parti, per lo manco, o del concepire o del significare riuscirono prossimi all’eccellenza. Che se tu levi di mezzo questi secondi premj e questo inferior grado di onore, tu risichi di vedere deserto affatto l’arringo poetico, dovendo gli uomini assennati e mezzanamente verecondi perdere speranza di salire a quell’altissima cima dove uno o due soltanto pervengono in uno o due secoli e forse in più. Per questa corsa, adunque, tanto difficile degli ingegni si segua la saggezza d’Achille, e dopo il figliuolo di Tideo che primo toccò la mêta, abbia Antiloco la bella puledra, abbia Menelao un lebete, e due talenti d’oro Merione.
Ma quando io m’inganni assai grossamente in questi giudicj, non desisto per ciò dal pensiere di discorrere un po’ alla distesa e di sentenziare e dottrinare (come direbbe un saccente) intorno alle mie poesie. Perocchè considero non essere quasi possibile che un uomo dedito agli ameni studj e la cui vita è trascorsa in grande porzione nella meditazione dell’arte di scrivere, non chiuda in mente verun ammaestramento buono nè alcune di quelle avvertenze e di quelle norme e pratiche le quali per li trattati e i libri non si rinvengono: e poniamo pure ch’egli adoperi esattamente come colui che porta il lume dietro e a sè non giova.
Non sarà, pertanto, senza un po’ di profitto a’ giovani letterati la breve storia ch’io narrerò loro del mio (chiamiamolo) sonnambulismo durato per tutti gli anni che è fatto versi, e pel quale io mi davo a credere che io costruivo con essi un’opera bella e durevole. Oh tu, dunque, ti reputavi (interromperà qui taluno) un poeta incompreso, una specie di Chatterton romagnuolo? Perocchè non potevi ignorare la indifferenza del publico nè la dimenticanza in che ti lasciavan cadere i tuoi lettori medesimi. Io non so (rispondo) se nulla o poco rassomiglio allo Chatterton. Ma dove, certo, lo dissomiglio, si è nel non avere io punto voglia di accopparmi come fece colui con le proprie mani; e piacemi molto più di sopravivere al mio disinganno, ridendo parte di me e parte ancora de’ tempi e del gusto odierno. E a dirla intera come la sento, io voglio anche un poco sfogarmi innanzi di uscir di carriera e rassegnarmi al tutto al tutto fra gl’invalidi. Perchè, sebbene io sostenga la incuria e dimenticanza altrui molto quetamente ed anzi con festevole disinvoltura, mal conosceresti, o lettore, il fondo della natura umana, se non ti disponessi a credere che anch’io talvolta ò covata la mia biliuzza e sonmi dentro acceso di sdegno vivissimo in veggendo lodati a coro e celebrati e magnificati certi versacci a petto de’ quali i miei parevanmi pretto oro.
Sfogherommi adunque (ma sempre ne’ termini del convenevole) esprimendo sopra ciascuno de’ componimenti miei quello che io ne giudico e l’idea che l’informò e le intenzioni a cui fu rivolto; e ciò delibero di fare con semplicità e sincerità insolita; la quale differendo troppo dall’uso corrente e abborrendo dai lustri e dalle vernici di modestissime parole, verrà forse tacciata di petulanza. Pure, sia che può; io, come sciolto oggimai da ogni speranza di lode, posso e voglio godere d’un bene agli scrittori rarissimo, e cioè di non mai simulare e dissimulare e di non mentire in nulla nè ad altrui nè a sè stessi.
I PRIMI CINQUE INNI.
Furono dettati in giovanissima età. Tornavano in quel tempo i verseggiatori a trattar volentieri gli argomenti religiosi, e in Italia cresceva meritamente ogni dì la fama degl’Inni Sacri di Alessandro Manzoni. A me purė piacevano sopramodo, e in niuna letteratura cristiana giudico vi sia qualcosa che superi di bellezza e di affetto l’inno suo per la Pentecoste o l’altro al nome di Maria. Ma quanto lontani da lui i poveri immitatori! e mi riusciva strano che ei si buscassero tuttavolta una qualche specie di celebrità. Nacquemi allora il concetto di provar di correre un’altra via; e proposimi un genere di poetare in cui diventava naturale ed agevole il temperare insieme la Bibbia ed Omero; essendo che insino dalla primissima giovinezza nessun libro m’avea commosso l’animo e ricreato la fantasia così vivamente e con efficacia e perduranza maggiore quanto il Vecchio Testamento e l’Iliade. D’altro lato, a me pareva e par tuttavia che a rispetto della poesia religiosa il colmo della bellezza e la perfezione suprema dell’arte consista in unire ed inviscerare le concezioni e i sentimenti cristiani con tutta la leggiadria e splendenza delle forme greche. E in quel giudizioso contemperamento dei due termini consisteva per appunto l’arduo e il nuovo del genere da me tratto fuori. Perocchè, quanto al mescolare abilmente la lirica all’epica e attingere le narrazioni alle leggende cristiane in quel modo che gl’innografi greci le attingevano alle pagane, la cosa era più volte stata pensata ed eseguita tra noi, come può vedersi nel Vida per lo latino e nel Chiabrera pel nostro volgare. Ma scrivere inni cristiani con tale ornamento e copia d’immagini e con tale vaghezza e bellezza figurativa o plastica (come la chiamano gli Alemanni) da farli sembrare una quasi composizione d’Omero o di Callimaco, era, per quel che io sappia, tentamento nuovo, e pareami non vi essere al tutto mal riuscito. Anzi, io poneva tanto pregio nei dilicati fiori dell’eleganza, e più ancora nel saper cogliere la forma ideale delle cose e ciò che vi si può sempre scoprire di grande e di nobile, ch’io non disperava di circondare di luce omerica persino le monachelle e le penitenti nascoste e chiuse negli eremi; nè da me era fuggito qualunque soggetto più arido e, direi quasi, mortificato della mistica e dell’ascetica; avvisando a quell’arte medesima con che il divino Coreggio trasmutava la sua Maddalena in una delle tre fanciulle ch’ebbero altari ed incensi nella picciola Orcomeno.
Letti quegl’Inni da alcuno intendente, per questo propriamente li censurò che i personaggi ivi verseggiati non erano Sante e Santi cristiani, ma Iddii e Dee simili a Diana, a Vesta, ad Apollo. La stimai una grossa iperbole: tuttavolta, io ci vidi dentro qualche parte di vero, e noso scusarmene interamente nemmanco oggi; e s’io dicessi: o felix culpa, sentirei di commettere una profanità.
INNO A SANTA SOFIA.
La poesia greça e latina è, scrive l’Hegel, esteriore e plastica; in quel cambio, la cristiana è interiore e sostanziale, perchè fondasi più che in altro nel sentimento; e però in lei debbesi riconoscere un incremento di perfezione e un progresso rilevato sopra l’antica. Tutto ciò è detto per figura d’amplificazione. Imperocchè un sentimento delicatissimo già scaldava molte pagine di Virgilio e di Albo Tibullo. E d’altro lato, il sol sentimento sfornito di forme e d’immagini, porge materia all’arte, ma non è l’arte; e il progredir vero di questa si effettua per la unità compiuta di entrambo i termini. E quando il sentimento solo bastasse, quelle tavole, o Giorgio Hegel, de’ tuo’ vecchj dipintori tedeschi o fiamminghi, con que’ sparuti visaggi, con quelle vite magre e storte, con quelle gambe sbilenche, dovrebbero venir preferite alle tele del Sanzio e di Michelangelo.
Io volli, impertanto, nel 1836 provarmi a introdurre nell’Inno a Santa Sofia quanta pietà ed affetto cristiano possa leggersi mai nelle Vite di Fra Cavalca e quanta vedesene ritratta nei quadri di Frate Angelico; e nondimeno, colorire ogni cosa alla greca e alla raffaellesca; intendimento superbo al quale sarei soddisfatto di essermi accostato pure un minimo che.
DUE INNI ALLA CHIESA PRIMITIVA.
Da natura fui menato prepotentemente al filosofare e dagl’infortunj estremi d’Italia al politicare; e come, d’altra banda, un amore veementissimo (e non so ancor bene se poco o niente felice) legavami alle dolci Muse, ei ne avvenne che le mie poesie uscirono spesso impregnate di metafisica e di politica. A rispetto poi della prima, io non son dubio ad affermare che io non credo cosa molto fattibile oggi il poetare senza profondità di concetti speculativi; atteso che nell’uomo tanto o quanto educato cresce al dì d’oggi l’abito del pensare e del meditare, e piacegli troppo di cercar delle cose il perchè sostanziale e l’essere universale e durevole. Nè la poesia d’oltremonte, la vuoi francese o inglese o teutonica, astiensi al presente da un alto filosofare. Se non che, dee correre fra gli oltramontani e noi questa differenza notabile, che in Italia le astrattezze metafisiche e le dottrinali intenzioni non sono tollerate frequenti ed oscure nè si vogliono nude e crude come appo i tedeschi; nè debbono similmente abbondar di soverchio le meditazioni, che chiamerò psicologiche e mistiche, come appo gl’inglesi. La filosofia che meglio s’accorda con l’arte poetica è quella, del sicuro, la quale compone un tutto col sentimento e la fantasia; e nella storia de’ fatti umani scuopre la significanza loro morale e civile; e nella pittura delle passioni rende manifesti gli occulti e arcani moventi del cuore; e indagando la natura universa, spiega il desiderio e il rimpianto d’ogni passato e gli enigmi e le speranze d’ogni futuro, che sono la poesia eterna del genere umano.
Nessuna lingua poi, dopo le classiche antiche, vale a competere con la italiana nella facoltà di scaldare di vita e illuminare e tingere in bei colori qualunque concetto astrattissimo e aridissimo della scienza. Nella scuola di Dante imparasi a oltrepassare di lungo tratto gli artificj di Lucrezio e a non pigliar paura di quelli medesimi di Virgilio.
Ne’ due Inni, adunque, alla Chiesa Primitiva io assaggiai le mie forze per comparire ne’ versi, qual mi sentivo dentro alla mente ed al cuore, poeta filosofo e poeta civile. Ma se quella fu comparsa buona o infelice non s’appartiene a me il giudicare.
La poesia politica messa in tacere dalla comune e lunga oppressione delle nostre provincie, rinacque e si rinsanguò con l’Alfieri, col Monti, col Manzoni, col Niccolini, col Berchet. Quella, peraltro, che io tentai di significare negl’Inni prendeva, se iò troppo non erro, un certo abito nuovo e attraente dall’immedesimarla che io faceva con gli spiriti più generosi del cristianesimo e con la santità del Vangelo, e mostravasi quale a’ dì nostri l’avria concepita un discepolo di Frate Savonarola. Il che in Italia, per ciò che io conosco, non erasi veduto ancora.
INNO A SANT’ELMO, INNO A ĐIÒ,
INNO A SANTA ROSALIA.
La qual poesía politica e scritturale insieme io presi a trattare con ampiezza maggiore e con intenzioni più strettamente annesse alle cose italiane nei versi qui avanti citati. Nell’Inno a Dio mi strinse necessità di competere con la più bella ed immaginosa composizione di Giovanni Berchet. Ma per fuggir taccia di presuntuoso, io piegai il comune têma ad altro disegno e il venni pennelleggiando come avrebbe fatto per avventura un Rápsoda greco, dove fosse ito di città in città ricordando, per via d’esempio, la grande sconfitta di Serse. Nell’Inno poi a Santa Rosalia patrona di Palermo, io pigliava (e nol vo’ punto dissimulare) un arbitrio sommo e chi sa se concedibile nemmanco a’ poeti; e questo fu di seguire bensì i fatti narrati nella leggenda, ma di dar loro cagioni e intenzioni per avventura molto diverse da quelle che accaddero; non però diverse e contrarie allo spirito dei Vangeli, semprechè questi fossero intesi ed interpretati giusta la virtù loro civilissima ed applicati a dovere agli uffici e alle spirazioni del buon cittadino. Chi di ciò mi vuole chiamare in colpa, affrettisi d’indicarmi alcuna persona canonizzata per santa e la quale spendesse il sangue e la vita sua per la patria; e gli do licenza di squadernare da capo a fondo i venti e più libraccioni della raccolta de’ Bollandisti.
INNO A SANTA CECILIA ED INNO A SAN GIORGIO
PATRONO DI GENOVA.
Nessuna cosa è più fredda delle astrazioni allegorizzate; e nessuna, invece, riesce più calda e immaginosa d’un nobile archetipo il quale s’incarna e individua in una reale e particolare persona. Di vero, se l’allegoria della discordia stupendamente delineata da Messer Lodovico non riempiesse dell’Orlando furioso pochissime pagine e di frequente ricomparisse nella narrazione come fa nell’Enriade del Voltaire e come fanno parecchj personaggi fantastici nella Vergine Una di Spenser, la sazietà e la noja verrebbersi accompagnando all’invenzione del poeta. Accade il contrario nel Lucifero del Paradiso Perduto i cui sembianti e il cui favellare tornano sempre attrattivi e maravigliosi; perchè il domma cristiano seguitato dal Milton, benchè avvisi in Lucifero una rappresentanza terribile del principio del male, vi contempla anzi tutto una individuale e concreta persona che realmente sussiste e perpetualmente soffre, si crucia e bestemmia. E veggano i letterati inglesi quanta diversità di sentimento e di effetto interviene tra la concezione altissima e viva dell’Angiolo decaduto e l’altra di quello strano maritaggio lungamente descritto tra la Colpa e Satana, e il parto infelice che ne conséguita del Terrore prima, poi delle Cagne rabbiose o vogliam dire de’ rimorsi per opera dell’incesto tra il figlio e la madre; e in ultimo della Morte che à sostanza ed è nulla, e costruisce più tardi un ponte nel vuoto. E il simile si dica dell’altra ipotiposi bizzarra del Caos cui fanno corteo la Notte, Adel, l’Orco, il Tumulto e il Caso. Questo trovato adunque di dare corpo e persona alle idee mediante l’animata rappresentazione che ne fa un qualche individuo famoso e solenne, ebb’io a mente spesse volte nello scrivere gl’Inni. Così in Santa Cecilia disegnai di personificare l’arte cristiana, e in più particolar modo la musica. In San Giorgio volli rappresentato la forza e il valore mossi alla difensione del buon diritto e alla tutela d’ogni innocente. Nell’Inno a San Michele, di cui parlerò tra breve, procacciai di figurare la giustizia divina alla misericordia contemperata.
V’à nella lirica, ritratto della natura umana, più forme e gradi di ardore intellettuale e affettuoso. Perciò nell’Innodia alla qual posi mano volli anch’io a’ debiti luoghi rappresentare la mente e l’animo del poeta che dalla narrativa semplice e riposata trapassa alcuna volta ai sommi termini dell’entusiasmo. E di cotesto rapimento di fantasia io mi studiai di porgere un vivo esempio nell’Inno a San Giorgio, il quale in parecchie sue parti si approssima alla concitazione del ditirambo e del furor sibillino. Cotesta, a parlar con Orazio, amabilis insania è specie difficilissima di poesia e procede sempre con gran pericolo di dare nel tronfio, nello esagerato e nello smanioso.
INNO A SAN MICHELE.
Non negherò al lettore che io mi compiacqui pur molto di questo componimento, in cui proponevami di far manifesto quanto la poesia cristiana valga ad emulare quella de’ greci persino nella grazia, nella varietà e nella bellezza figurativa delle lor favole, oltrepassandoli poi senza paragone possibile nella profondità del concetto e del sentimento, e per certa smisurata grandezza d’immagini e di simboli a noi provenuta dall’Oriente. Il che apparirà vero ad ognuno che ponga il nostro Inno in ragguaglio con quello celebrato e antichissimo ad Apollo Delio ricordato da Tucidide, ovvero con la Gigantea d’Esiodo, episodio famoso del suo poema sullo scudo d’Achille. L’allegoria poi del componimento nostro torna sempre una e sempre agevole ad essere intesa, e vi si dilata e gira dentro dal primo all’ultimo verso. Griderà forse taluno alla profanità per quel mio collocare in cielo le spose degli angioli e per avere descritto i loro arcani maritaggi. Ma quando voglia discretamente considerarsi in qual modo sieno significati da me l’indole, le cagioni e gli effetti di quelle nozze, ei non si penerà a confessare che i concetti e le immagini vi sono tutte purissime e sante; e che la maschiezza e la femminezza simboleggiano unicamente la simpatia misteriosa e spirituale di due esseri intelligenti e liberi, l’uno nato per compimento dell’altro in quel modo che ciò venne espresso altresì dai greci con la favola dell’Androgeo. Ma come ciò sia, l’angiolo Michele che sposasi alla divina Kessedía, e vale a dire il giure eterno e punitivo di Dio congiunto ed unificato con la sua ímmensa misericordia, è immagine vera e sublime, e costituisce grande porzione della morale significazione dei libri ispirati.
In questo Inno mi sono ajutato eziandio di far più visibile la temperanza ed unione intrinseca dell’idea cristiana e della forma greca, e ò desiderato assai che vi comparisse certa mischianza gradevole e insolita tra i colori morbidissimi di Callimaco e le tinte vigorose e splendide sì di Omero e sì della Bibbia. Ò pur voluto che la grandiosità delle immagini e dei concetti sempre si rimanesse nei termini del figurabile, schivando d’immitare gli oltramontani che forzano la fantasia a correre dove non può; come ciò vedesi segnatamente nel Klopstok, la cui macchina sopramondana per soverchia sublimità e astrattezza esce affatto dalla rappresentazione fantastica e diviene incoerente nelle sue parti e affatica il pensiere con la impossibilità d’immaginare le cose che legge. A noi italiani permanga ognora dinanzi agli occhj della mente il vecchio e trito precetto: ut pictura poesis.
Ò nominato Omero e Callimaco. Questi, come tutti gli antichi, ci vinceranno della mano pur sempre e in ogni specie di poesia, per quella purezza di vena, semplicità di dettato, spontaneità e grazia d’ispirazione che loro venne largita immediatamente dalla natura, ed è come il fior primitivo e freschissimo della incipiente civiltà. Invece, ai moderni è fatta abilità di vincere e di sovrapporsi agli antichi per altre disposizioni d’intelletto e di animo, le quali arreca con sè necessariamente il corso di moltissime età e l’accumularsi della scienza e dell’esperienza. Sono fra esse disposizioni da annoverare i cresciuti spedienti dell’arte, la copia e maturità dei pensieri, le squisite analisi dei sentimenti e delle passioni, la facoltà di visitare con la memoria e l’immaginazione infinite generazioni d’uomini in infinite rivolture di tempi e di casi. Ora, nell’Inno a San Michele riesce cosa non comune e piena di varietà e di contrapposti singolari ed inaspettati il naturale trapasso che vi si fa dall’antichissimo al modernissimo, dal cielo alla terra, dall’Oriente all’Europa, dalla mitologia alla storia, e il temperarsi e intrecciarsi insieme e con facile legamento la teologia, la metafisica e la politica. O detto naturale trapasso e facile legamento; chè de’ troppo ingegnosi e reconditi non so lodar l’invenzione in nessun poeta e nemmanco nel Foscolo.
Nel descrivere poi la ribellione e la caduta degli angioli io non volli pigliar l’innanzi da alcuno e nemmanco dal Milton. Nè ciò mi sia ritorto in accusa di vanità; come se io intenda per un componimento sì breve e sì tenue di paragonarmi tanto o quanto a quel sommo ingegno. Da me a lui corre la disparità e la disproporzione appunto che da un pigmeo a un gigante di cento cubiti. Ma non mi sarà per questo interdetto di notare che, s’io non piglio errore massiccio, la conclusione del singolare conflitto avvenuto in cielo è rappresentata da me in modo più efficace e grandioso. Nel Paradiso Perduto del Milton, Dio stesso nella persona del Verbo, affine di sbaragliare Satana e le falangi ribelli, lascia le altezze inaccessibili del suo trono ed entra nella battaglia. E prima, si fa apprestare un cocchio non dissimile da quello che ci descrive Ezechiele, e montavi sopra armato d’arco e faretra, preceduto da un glorioso vessillo, accompagnato dalle miriadi degli angeli rimasti fedeli e stringendo in pugno non meno di dieci mila fulmini. Tutto questo apparecchio, per mio avviso, attenua in luogo di accrescere la maestà e potenza infinita di Dio. Invece, la mia invenzione sembrami dover risvegliare della giustizia e terribilità divina un concetto e un’immagine più formidabile e così semplice come sublime. La folgore, ministra tremenda del Nume punitore e rimuneratore, arde sempiterna ed inconsumabile sulla cima del più alto e scosceso dei monti che nella Scrittura sono domandati appunto montagne di Dio. Piacque alla sapienza increata lasciar durare alcun tempo la zuffa tra le schiere degli angioli perchè la reità da un lato e la innocenza e saldezza dall’altro apparissero manifeste. Maturata la prova, la folgore eterna è con un solo atto impugnata e vibrata sugli empj. E quel solo atto basta a compire tutti quanti gli effetti perpetui e spaventevoli della punitrice giustizia.
DELLO STILE DEGL’INNI.
Ne’ tempi nostri i due testori più insigni del verso sciolto sono, per credere mio, Vincenzo Monti e Ugo Foscolo. Mi taccio del Parini, superiore forse ad entrambi. Ma la foggia del suo sciolto convenientissima alla satira, non può per ciò stesso venire piegata verso altri generi di composizione. A me arrivato dopo di loro tornava assai più difficile il vestire d’armonia nuova quel medesimo verso e dargli nuovo andamento ed atteggiamento. Nè, per temerario ch’io fossi in quegli anni primi e baldanzosi di mia giovinezza, io pigliavo speranza buona di pareggiar mai il cantore della Feroniade in quella sua vena sempre copiosa, scorrevole e limpida, e rado o non mai disuguale da sè medesima; per li quali pregj sonogli perdonati la soverchia pienezza del ritmo e un poco di uniformità e di ridondanza. Similmente, non isperai di raggiungere la efficacia, il nerbo, la pellegrinità, la felice arditezza, la eleganza finissima degli sciolti del Foscolo, sebbene io sapessi fuggirne la oscurità o quel poco di duro e talvolta di ricercato che vi si scorge. Ad ogni modo, io mi sono lasciato condurre dall’indole dei concetti e dei sentimenti. In un medesimo Inno il mio stile tentava di prendere colori smaglianti e pindarici; poi si allargava con gravità e quiete ne’ pensieri scritturali e nelle raccontazioni omeriche. Imbattutosi in concetti soavi e teneramente affettuosi, pigliava dolcezza di metro e morbidezza di tinte dagli antichi nostri canzonieri. Filosofando e politicando, trovava figure e modi più convenienti nella lingua di Lucrezio e di Dante. Se di queste specie varie e intrecciate usciva un beninsieme gradevole e una contemperanza vaga, elegante, omogenea ed alquanto nova, non so. Quello che so ed è bene a mente si è il desiderio e lo studio sempre maggiore che è posto di togliere alla mia locuzione le fronde e gli aggiunti oziosi o troppo fatti comuni, e condurla a gran sobrietà e vigorezza, e imprimerle il carattere peculiare de’ miei pensieri e di quel genere poco usato di poetare. Il qual progresso non rimarrebbe nascosto a veruno che avesse pazienza ed ozio di far paragone, per via d’esempio, fra il primo Inno a Santa Geltrude e l’ultimo a San Giorgio patrono di Genova.
Ma il tempo e l’uso consumano la grazia nativa di molte frasi, la vivezza di molti tropi, la splendenza di molti vocaboli; e trovare per gli stessi concetti altre frasi e tropi e vocaboli così proprj come belli e impensati, non sempre si può. Nè mi sono saputo risolvere per accattar novità e solleticare il palato difficile e nauseato de’ moderni di dare nelle ricercatezze e nelle quintessenze di Claudiano, dalle quali non è rimasto immune
sempre ed intatto nemmanco taluno che in questi ultimi anni fu a buon titolo salutato poeta grande e di fama non peritura.DEL RITMO E DELL'ARMONIA.
Cura particolare è posta nel far sempre varia, convenevole ed espressiva l’armonia del verso sciolto. Perocchè studiando con diligenza la sua tessitura metrica, non mi fu malagevole di conoscere che esso non cede di molto nel numero e nella diversità delle combinazioni all’esametro greco e latino. Nel vero, la disposizione degli accenti; il diverso mescolamento dei dattili e degli spondei che un orecchio fine ed esercitato avvisa ben anche nel nostro idioma; la frequenza o radezza delle vocali, il loro incontro e le loro elisioni; le voci tronche e le sdrucciole; i dittonghi più o meno contratti; le parole corte o lunghe; infine, il trapasso dell’un verso nell’altro, formano altrettanti elementi e porgono altrettanti mezzi di sempre modificare l’armonia e farla acconcia all’indole delle cose significate: sebbene oggidì sieno pochissimi gli orecchj avezzi a sentirla e goderla compiutamente, e si mantengano quindi capaci di giudicarne appresso gli autori il pregio o il difetto. Ma ciò che al presente viene avvisato da pochi, non è impossibile che divenga fra breve tempo un sentimento quasi comune; ed allora molti poeti moderni riusciranno, da questo lato, così sazievoli e mal graziosi come è accaduto all’Alamanni e a parecchi altri cinquecentisti. E chi crederà che il sommo e quasi perfetto esemplare di tale bellezza sia il Caro, stato il primo balio, si può ben dire, del verso sciolto, e che nondimeno nessuno dopo lui l’abbia superato sì nel temperare e variar l’armonia e sì nell’adattarla ai pensieri e agli affetti? È cosa mirabile com’egli sappia frequentissimamente condurre di seguito gli otto i dieci e gli undici versi l’uno dall’altro dissimili per la fattura metrica, e che nelle molte migliaja della sua versione dell’Eneide sia più che raro il trovarne due consecutivi esattamente conformi d’accento e di suono. Ben tu comprendi, o lettore, che se cotesta ricchezza e cotesta grazia di prosodia torna difficilissima ad essere conseguíta, l’effetto che n’esce è altrettanto bello e incantevole. E per ciò solo, a giudicio mio, lo sciolto vince e sorpassa la leggiadria e l’attraimento de’ versi rimati, e aggiungesi alla poesia tutta la vaghezza che si nasconde ne’ ben fabbricati periodi d’un prosatore eccellente. Nè occorrono lunghe ragioni e dimostrazioni per capire quale maraviglia dilettosa e durevole debba svegliarsi da un beninsieme di concetti legati fra loro assai strettamente e nelle cui parole e frasi gira un’armonia sempre varia e conveniente alle idee, e la quale dopo essersi avvolta leggieramente come meandro o fatta grave ed equabile come la piena d’un fiume reale o invigorita di suono e di moto come gonfio torrente, nell’ultimo riempie ed appaga l’intelletto e l’orecchio ora con maggior grado di dolcezza ora con la maestà e solennità del numero ed ora, in fine, con raddoppiarne l’intensione e la veemenza. Leggasi l’infrascritto brano:
. . . . . . . . . . . . . . affanno e lutto |
Con motti e scede? Ah! nol consenta Iddio. |
Sono diciassette versi di cui nessuno è compiutamente simile agli altri nel ritmo e nell’armonia; la quale, secondo che ricercasi dal concetto e dalla passione, va prima spedita e vibrata e termina in suoni pieni di grandezza e di forza.
Ma chi penserebbe che cotesta efficacia e bellezza di metro imparata dal Caro in Virgilio e menata alla quasi ultima perfezione da lui medesimo che per primo la rinveniva e l’usava, chi penserebbe, dico, che in niuno suo scritto o degli amici suoi più dotti ed intrinseci non venga, ch’io sappia, neppur mentovata e non se ne accenni e determini nessuna regola? Forse, è provenuto il silenzio da ciò che il Caro e que’ sommi letterati e scrittori amici di lui stimarono troppo tenue cosa questi secreti di prosodia e da non curarsene più chè tanto? Ma il fatto dimostra che invece i coetanei stessi del Caro e i poeti che più tardi usarono l’endecasillabo sciolto, o non posero mente a cotesti fini artificj o non li capirono quanto bisogna. Toccai qui sopra del verso monotono dell’Alamanni. Non molto migliore ci riesce quello del Tasso nel Mondo Creato; mentre pieni di varietà e di acconcissima sprezzatura sono gli sciolti dell’Aminta. Ne’ noștri tempi, io già notava che meglio di tutti, per mio giudicio, à posseduto l’abilità del ritmo il Parini e dopo lui il Monti ed il Foscolo; ma nessuno dei tre, per tale rispetto, è da sovrapporsi al Caro e nemmanco da pareggiarglisi. Il Monti smarrisce non di rado la varietà volendo troppo cercare la piena sonorità e scorrevolezza. Gli altri scioltisti non s’avveggono nemmanco di questa dolce e recondita fonte dell’eleganza; il difetto della quale diverrebbe intollerabile ad ogni lettore, appena fosse educato ed abituato al fine senso della bellezza ritmica; nel modo che è intollerabile ai musici qualche accozzamento di note fuor delle leggi dell’arte loro. Io poi non pervenni subito alla cognizione esatta degli artificj del Caro. Quindi il ritmo de’ primi Inni non fu variato e studiato come ebbi cura di fare più dopo.
RAGION POETICA DEGL’IDILLJ.
Chiunque non voltò mai pagina di questo libro e udì parlare dell’autor suo come d’un freddo o ostinato seguace e mantenitore della scuola classica; certo, a questa parola Idillj, subito gli entrerà in corpo il male dello svogliato e comincerà forte a sbadigliare immaginandosi sotto quel nome le solite pastorellerie e qualche immitazione smorfiosa e sonnifera o del greco Mosco o dello svizzero Gesner. Ma rassicúrati, lettor mio dabbene, chè qui non è ombra di tuttociò; ed io la zampogna di Titiro ò lasciata appesa insieme con la sua lira a quell’albero istesso donde la vide penzolare il Costanzo, or fa tre secoli e più. Sebbene, habent sua fata libelli; ed ò pur sentito celebrare e veduto co’ miei proprj occhj ripubblicare parecchie volte le Canzoni pastorali del Pompei, le più nojose, ammanierate ed arcadiche veramente che fossero potute nascere in Roma sul monte Celio, nel bel mezzo del bosco Parasio e sotto l’innocente custodia dell’innocentissimo Crescimbeni.
Idillj per me vogliono significare poesia che à per subbietto particolare la campestre natura e quegli uomini astratti e meditativi che tuttogiorno la contemplano e quasi la interrogano e con lei ragionano; ovvero, quegli uomini che più docilmente obbediscono a’ suoi precettį e alla virtù degl’istinti, siccome sono i contadini e la parte più mansueta e modesta della plebe cittadina. E così la intendeva Teocrito, padre incolpevole di quella infinita schiera e tediosa di ricamatori di egloghe antiche i quali per più d’un secolo ànno popolato il Parnaso italiano ed ancor lo spagnuolo. Nè è meno curioso a considerare che tutti costoro immitarono di quel greco la parte appunto non immitabile, e ciò è la gara squisitamente ingegnosa ed anzi miracolosa tra caprari e bifolchi nel dire a vicenda versi improvvisi i più belli che mai scrivesse appensatamente nessun poeta. Gara forse stata possibile nelle campagne e fra’ costumi di Grecia, ma che la ignoranza e rusticità de’ nostri pastori cava al tutto dal verisimile. Invece, nessuno à corso la via la quale era aperta da qualche altro idillio di Teocrito, come per esempio dal quindicesimo intitolato le Siracusane, che è tanto vero e semplice quanto è vera e semplice la vita reale e ordinaria della gente mezzana di cui quell’Idillio fa bello e fedele ritratto. Ma quando Virgilio disavvedutamente scrisse quell’emistichio: silvæ sint consule dignæ, tale dignità consolare fece ai poeti girare alquanto il capo; e si misero tutti in sussiego ed in pretensione. Nè poi seppero, la più parte almeno, coprire con garbo sotto la toga i cenci de’ contadini e de’ pescatori, ma goffamente li mascherarono; e le selve, non so bene se diventarono degne dei consoli e dei monarchi, so che quali appariscono ne’ loro versi in niuna parte del mondo si trovano. Altra volta, se creder vogliamo a Servio, per altra mala fortuna, venne fatto a Virgilio di significare Roma sotto il dolce nome di Amarilli e Mantova sotto quello di Galatea. E tanto bastò perchè si stimasse, di dare sostanza e calore a certe freddissime e snervatissime egloghe aggiungendovi l’allegoria, che i retori antichi, invece, volevano esclusa per al tutto da quel genere di composizione. Ma di simili colpe va esente, a dir vero, pressochè tutta la letteratura moderna italiana. Vediamo se io posso di altre censure purgarmi con l’agevolezza medesima. Affermano gli oltramontani che poco i greci e i latini e pochissimo gl’italiani possiedono e godono il sentimento della natura campestre, la quale, a detta di tali censori, consiste unicamente per noi nella vaghezza estrinseca delle forme. Quindi gl’italiani riuscire descrittori ottimi ed eleganti, ma solo a modo de’ paesisti con la trasparenza de’ colori, la varietà dei prospetti e la sfumatura delicatissima delle tinte. Ai soli teutonici dette il Cielo di sentire e d’intendere l’anima universale e di confabulare alla domestica con la gran madre delle cose. Da tale profonda disposizione delle schiatte germaniche è pur provenuto, aggiungono i critici di colà, che il panteismo à gradito, fuormodo, al cuore e alla mente dei moderni tedeschi, nè altro genere di speculativa e di metafisica à informato la poesia di Goethe e della sua scuola. E cotesto panteismo appunto proceduto di Germania ferveva nell’intelletto de’ verseggiatori francesi, quand’io capitai fra loro in sul finire del 1834. Darò un cenno di quella maniera di poetare. Credi tu, per esempio, che un bello e grande rovere sia specioso e mirabile solamente per la sua vigorosa e centenaria vegetazione, per la frescura che godi sotto i suoi rami, pel vario e piacevole loro incurvarsi e distendersi, pel tremolar delle cime fronzute e glandifere, e per simile altro aspetto e accidente? Ovvero, stimi che sia bello e attrattivo altresì per le memorie che va destando e le immagini che a lui si connettono? Queste cose tornavano un dì sufficienti alla bassa e povera fantasia de’ vecchj bucolici. Ma ora, se tu poni mente al signor De la Prade di Lione, la quercia è un pezzo di Dio nè più nè meno. Le sue radici succhiano abbondevolmente gli spiriti animali del mondo e sanno qualcosa dei misteri della vita comune ed universale; e le sue frasche ragionano non rade volte col cielo; e quando stormiscono, vanno esprimendo alcun aforismo di sapienza divina. Ultimamente, il panteismo tedesco à fornito materia amena, copiosa, insperata e a maneggiarsi non molto difficile ai due volumi delle Confessioni di Vittore Hugo; ne’ quali per ciò solamente ogni cosa piglia sembianza di gran novità. Perchè, chi mai prima dei versi di quel francese potea volgere in mente che il Creatore celebrasse egli medesimo la santa messa ogni giorno in sull’altare del nostro globo e che la luna facesse le veci dell’ostia e quando giunge al suo plenilunio fosse il tempo solenne dell’offertorio e dell’elevazione?
Gl’italiani, per quanto io mi sappia, non confondono ancora con Domenedio nè l’uomo nè la natura; e stimano che ciò non fa lor di bisogno per sentire e descrivere la vita di essa natura, le maraviglie dell’organamento supremo ed universale, la providenza dei fini, la sapienza arcana degl’istinti animali e intellettuali, e l’aspirazione incessante di tutti gli esseri e segnatamente dell’uomo al bene assoluto e alla perfezione e bellezza eterna e infinita.
E mostrare appunto come di tale perfezione e bellezza brilla dapertutto un raggio e un baleno vaghissimo e risplendentissimo fu il proposito non volgare di questi Idillj. Fuggite, io volea dire ai giovani, la pedanteria e le affettazioni della vecchia poesia pastorale, e con altrettanto di diligenza fuggite gli enimmi e le strane invenzioni de’ moderni secentisti. Guardate che la poesia vera e semplice vi gira per casa, scherza e passeggia ne’ vostri orticelli, accompagnasi agli ordinarj sollazzi, intromettesi nelle brigate d’amici, sorride dai nostri colli e dal nostro cielo con tale avvenenza che è sempre nuova e sempre inesausta a chi bene la studia e l’intende. Perchè poi nell’arti liberali una giumella di buon esempio importa e fruttifica molto più che uno stajo di buoni e sani precetti, così sforzai la mia povera musa di predicare col fatto, e pigliai speranza di mostrare un cenno e un indizio almeno di ciò che da ingegni più alti e più fortunati avrei voluto veder praticare. E perchè fosse manifestissimo anche per la mia tenue Camena che da pertutto è il vario, da per tutto il nuovo ed il pellegrino e che la vena loro è larga e infinita, io promisi a me stesso e feci proposito fermo che in ognuno di questi Idillj sarei venuto tentando una specie diversa di poesia con diversa forma di stile. Nè mi sembra avere mancato alla promissione, come apparirà meglio da quello che sono qui per notare intorno a ciascuna composizione.
I PATRIARCHI.
Poichè l’origine prima e la fine ultima di tutte le cose nascondesi interamente alla scienza positiva umana; e ciò non pertanto la fede, la immaginazione e certo giudicio indovinatore vi si travagliano intorno continuamente; così l’uno e l’altro termine dettero sempre materia amplissima alla poesia. Quasi appresso ogni popolo v’à qualche tradizione d’un secolo d’oro e qualche descrizione fantastica delle beate origini del genere umano: avvenga ciò pel bisogno del nostro spirito di credere attuato comechessia il concetto della felicità e della perfezione nel mondo; ovvero, perchè in fatto gli uomini primitivi trascorsero una età innocente e abbellita da purissima religione e dal felice iniziamento di tutti i beni sociali.
Al severo giudicio della filosofia alla quale io m’attengo, sembrano ruinar nel paralogismo ambedue i supposti e d’una civiltà rivelata, e d’uno stato selvaggio e quasi ferino che perviene bel bello alla civiltà. Per fermo, madre della civiltà è la scienza; e questa, ancora che rivelata, à gran bisogno d’essere intesa; e il bene intenderla ed applicarla porta molta virtù e molto esercizio anteriore d’intelletto e di sentimento. Per simile, non si scorge in veruna guisa come dallo stato ferino esca a poco per volta la umanità e la scienza civile; e chi lo à pensato e descritto così per minuto non penetrò del sicuro nell’intimo del proprio subbietto.
Ma ponendo in disparte la metafisica, certo è che la vita patriarcale à durato per molti secoli fra molte nazioni, e che la Bibbia ci è fedele e mirabile raccontatrice della storia e costumi di quella vita maravigliosa, e ci pone sott’occhio una specie di vasta epopea così naturale ed ingenua come sfolgorante di bellezza poetica non superabile. Dalla quale epopea vengono poi insegnate agli uomini parecchie verità fecondissime e consolantissime; e questa infra l’altre, che la barbarie mai non è stata naturale agli uomini e mai sopra loro non à pesato come necessità di destino. Laondé, dagli antichi fu immaginato che il vivere selvaggio e brutale di molte disperse tribù fosse tristo effetto di peccato e di corruzione. Del pari, ci è insegnato da quella prisca epopea, che la religione primitiva non immedesimò il fattore con la sua fattura (traviamento posteriore della ragione speculativa appo gl’indiani) e non si tinse di brutte e sanguinose superstizioni.
Con tali concetti io presi a dettare il sunnominato Idillio, dove la casta e semplice religione e il sentire e l’immaginare vivissimo de’ primi uomini è significato e narrato sotto la figura dell’amicizia e conversazione della terra col cielo, e posto a riscontro ed a paragone con lo spirito scettico ed irrequieto de’ tempi nostri. Pochi anni prima di me trattava il subbietto medesimo il Conte Giacomo Leopardi; e non avrei scusa nessuna alla matta temerità di essere entrato in lizza con quel miracolo di scrittore, quando la idea informatrice del componimento mio non fosse in ogni lato diversa da quella in che s’incardina il suo. E perchè ognuno possa farne comparazione e voglia quindi mandarmi assoluto dalla taccia di presuntuoso, trascrivo qui per intero l’Inno del sommo Recanatese, col quale reputo a mia gran ventura essere stato congiunto di sangue e d’amicizia.
o
DEI PRINCIPJ DEL GENERE UMANO.
E voi de’ figli dolorosi il canto, |
Fu del grembo materno, e vïolento |
E tu dall’etra infesto e dal mugghiante |
Delto balze materne, o con te greggi |
LA VILLETTA.
Dall’Oriente si travasò in Grecia e nel Lazio la fede a molte e diverse generazioni di Genj e di Dèmoni. Nel medio evo, lasciando stare quello che ne pensarono i Cabalisti, l’esistenza di esseri spirituali tramezzanti tra l’Uomo e l’Angiolo parve degna di credenza a parecchi filosofi e segnatamente ai platonici; e le ragioni loro vennero con grazia ed acume infinito esposte dal Tasso nel Dialogo Il Messaggero. Su tale opinione adunque nè strana nè eterodossa è fondata la picciola macchina del mio Idillio. Tu vi leggi descritta per prima cosa la spiaggia incantevole di Messina, quale si offerse a’ miei sguardi nell’estate del 1834. Nè mi si faceva quasi credibile che que’ luoghi sovranamente ameni e beati non fossero in ciascuna lor parte pieni e ricolmi di animazione e di vita; e qualcosa di sovrumano e divino non penetrasse in tutta quell’aria nè in quella luce candida e pura non balenasse. Quindi, la mia fantasia non potendo più popolarli di Egipani, di Silvani e di Fauni, deità morte e sepolte da lunghi secoli, andava figurando Genj ed angioli visitatori invisibili della terra e arcanamente mescolati agli uomini ed intromessi alle opere ed alle faccende di villa, uomini ed opere quali noi le scorgiamo con gli occhi proprj e quali son fatte da’ nostri tempi e costumi. Così la poesia campestre torna alla realità delle cose e alle opinioni moderne e comuni, e quanto si fa più vera altrettanto sembra aquistare di novità. Certo è poi che la congiunzione e l’intreccio dei due mondi mortale e immortale, terreno e celeste, spirituale e corporeo, sempre è stata, per avventura, la fonte più larga e ubertosa del poetare.
LA SCAMPAGNATA.
Ognuno confessa od almeno sente nell’animo suo che le minime faccendòle di casa, le domestiche ricreazioni, i colloquj più famigliari, una cenetta fra amici, una giterella in villa, qualora l’affetto e l’urbanità le condisca e la gentilezza vera dell’animo le vada ornando di certa grazia festiva e spontanea, sono subbietto perpetuo e infinitamente variabile di poesia. Oh perchè dunque gl’Italiani vi si provarono così di rado e, per quel che io sappia, con successo poco fortunato? ed anzi stimarono conveniente a tali materie applicare o la prosa o lo stile bernesco? La cagione di ciò reputo io che fosse una opinione esagerata e, quasi direi, accademica della natura dell’arte; al che si aggiungeva ne’ tempi addietro la difficoltà dello stile, non sapendo gli scrittori condurlo a colorire la tenuità delle cose domestiche senza farlo basso e prosaico. Benchè nessuna lingua come l’italiana sia capacissima di vestire di eleganza schietta, semplice e popolare qualunque subbietto famigliare e pedestre. Tutto ciò è stato il proposito del mio Idillio, nel quale poi mi compiacqui di rinnovare un metro vaghissimo al mio sentire, ma al tutto dimenticato da’ nostri verseggiatori, che è la Canzone Zingaresca, nel qual metro Angiolo Poliziano, che convertiva in oro ogni cosa da lui toccata, scrisse quella Canzonetta famosa ed inarrivabile La Brunettina mia.
IL PIEVANO DI MONTALCETO.
La scena è mutata. Non sono gli uomini della città che vanno in villa a pigliar sollazzo; ma tu scorgi ed ascolti il popolo stesso delle campagne qual è oggidì nel fatto e come veracemente può pensare e discorrere. Esprimendo il dolore suo proprio e interpretando il comune, parla un vecchio contadino e fa tra le lacrime un ricordo amoroso del buon pievano defunto. Grazie a Dio, quell’ottimo paroco quivi delineato non è tale archetipo che gli occhi umani mai non abbiano rincontrato nel mondo. Chè anzi, le virtù e gli spiriti veri ed immacolati del Vangelo abbandonando spesso le città rumorose e tinte d’ipocrisia, sonosi ricoverati nelle chiesuole parocchiali di qualche valle o di qualche montagna, dove Cristo Signore manda non rade volte i suoi degni e santi ministri a consolare e beneficare i più poveri e maltrattati degli uomini. Onde, se io avessi con questi umili versicciuoli poste in qualche luce quelle modeste, pietose e disconosciute virtù, mi terrẻi, per ciò solo, di aver cavato e frutto ed onore non poco da’ miei letterarj studj.
ISMAELE.
Io non mi spaccio per autore di questo genere d’Idillj. So che in Inghilterra parecchi verseggiatori trattarono subbietti campestri tolti dalle pagine della Bibbia, e taluno in Italia fece il simigliante prima di me. Ma ritraevano essi effettualmente quella bellezza così schietta e candida come solenne e grandiosa della vita pastorale antichissima, e informavano bene la lor fantasia di que’ costumi orientali, tanto singolari e maravigliosi a noi nati in una civiltà decrepita, non che matura? Di ciò daranno giudicio i lettori, se pur faranno paragone de’ miei versi a quelli degli altri. In ogni modo, io non fui del sicuro maleavveduto nella scelta speciale del téma: essendo che l’antichità intera non offre per avventura un personaggio istorico nè più augusto nè più significativo e simbolico di quello di Abramo. Si appuntano in lui le memorie e le tradizioni di tutte le schiatte semitiche; e le tre religioni, ebraica, maomettana e cristiana, ugualmente se l’appropriano. E però a lui si annettono eziandio le gesta terribili e le vittorie e conquiste rapidissime e violentissime de’ Saracini in ogni parte del vecchio mondo. Per simile guisa nel mio Idillio il pensier del poeta incontra una infinita varianza di cose, e tocca la storia di qualche migliaia d’anni, e mescola al dolce e umile suono delle tibie pastorali la visione paurosa delle battaglie, e dal fermarsi a godere la pace interiore d’una tenda patriarcale trapassa ad un tratto a contemplare i destini delle nazioni. Qui, pertanto, la natura medesima del subbietto menava il poeta ad alzar lo stile e ripetere con Virgilio: Sicelides musa, paulo majora canamus.
ovvero
DELLA COSMOGONIA.
Sempre mi à mosso a maraviglia lo scorgere che in Italia nessuno de’ poeti del nostro secolo abbia sentito o, per lo manco, voluto significare e descrivere le bellezze che quasi dimanderei gigantesche e terribili della Cosmogonia, quali le ci vengono rivelando le scienze fisiche. Io pensai dunque nel 1839 d’entrare in campo non tocco, ponendomi a tratteggiar qualche parte delle origini del nostro globo, giusta le cognizioni e i principj de’ moderni naturalisti. Al presente, mi giunge notizia che il signor Aleardi, fioritissimo ingegno, siesi posto a verseggiare lo stesso téma.
Gli è certo che la natura sembra avere cercato a poco per volta e dopo assai prove e trasmutazioni di sostanze la perfezione massima delle forme altresì esteriori; e alla fine averle prodotte tali che rispondessero a punto a quel sentimento della convenienza, della proporzione e della bellezza che nello spirito nostro à infuso ella stessa; onde poi fossimo capaci di ammirarla perpetuamente e con sempre maggiore estasi di contemplazione. Al che aggiungerò un concetto che reputo vero e non abbastanza notato dagl’ingegni speculativi, e ciò è chę l’uomo sia nato a proseguire e compire l’opera portentosa della formosità, convenienza, armonia e conservazione delle forme sulla faccia del nostro globo; essendo che, tolto lui di mezzo e tolta la sua sapiente industria e fatica, brutte e guaste e poco meno che orrende sarebbero, od apparirebbero almeno, le sembianze della terra inselvatichita ed impaludata.
Tutto ciò, rispetto al pensiere che anima questo Idillio. Consideriamo ora sotto brevità l’elocuzione che vi è adoperata. Durando l’èra prima di civiltà, come io notava più sopra, la poesia, la metafisica e la precettiva si mescolano e si confondono; perchè manca all’intelletto il vigore e all’arte l’abilità di separare con diligenza l’atto e l’esercizio di differenti potenze mentali, e attribuire a ciascuna la propria e peculiare guisa di significare sè stessa. Il lieto progredire sì della civiltà in genere e sì della scienza e dell’arte in ispecie viene dipoi insegnando come trasfondere con ingegno e misura la filosofia nella poesia; tanto che io stimo oggidì impossibile di scrivere versi sostanziosi e di subbietto elevato, i quali non s’imbevano d’alto sapere e non s’adornino di molte riposte meditazioni attinte alla scienza ed alla speculativa. Quindi il magistero consiste tutto nel fornire ai pensamenti astratti e alle notizie sperimentali e scientifiche un abito non pure elegante, ma colorito d’immagini, gradevole ai sensi, ben visibile e figurabile, e fuggendo a tutt’uomo di dare nel freddo e nel secco, e dirò anche, nel mero didascalico; avvegnachè ò sempre opinato che la didascalica pura mai non diventi poesia; e vi si provino i soli ingegni che tanto sono poveri d’invenzione e d’affetto quanto costruttori pazienti ed artificiosi di buoni versi. Nè sia chi alleghi per confutarmi le Georgiche di Virgilio. Due terzi di quel poema divino non sono precettivi; e coloro poi che s’accinsero d’immitarlo, o riuscirono magri e tediosi, o piacquero ed allettarono con la vaghezza delle digressioni e degli episodj, e cioè a dire che l’accessorio guadagnò il passo e rubò il pregio al principale.
Da ultimo, nell’Idillio è fatto con acconcezza verseggiare extempore il siciliano Giovanni Meli, non tanto perchè dettava egli pure un bel poemetto sulle origini del mondo (atteso che la materia fosse da lui trattata con vena piuttosto bernesca e satirica), ma perchè nelle naturali scienze fu molto erudito. Da prima studiò medicina, poi tenne cattedra di chimica, e mandò alla luce più d’un opuscolo di subbietto sperimentale e filosofico insieme.
IL TASSO A SANT’ONOFRIO.
Le sventure del Tasso pajono crescer di fama e destare maggior pietà, quanto la gentilezza de’ costumi e de’ tempi le fa giudicare più immeritate, e quanto i concetti del principato civile fanno riconoscere odioso e crudele il duca di Ferrara, che piacquesi per lunghi anni di vilipendere quel sacro ingegno e straziare con novo genere di tortura quell’anima tenerissima. Goethe, il poeta massimo della Germania, e Byron, la maggior mente poetica forse che sia apparita nella prima metà di questo nostro secolo, ànno ambedue cantato del Tasso. Io mi dovea dunque dopo costoro serbarmi in silenzio. Se non che, nella vita del gran Torquato àvvi un punto, pienissimo di alto affetto e melanconia, il quale mi piacque di mettere in versi, dappoichè altri l’avea trascurato; e quel punto sono i giorni ultimi ch’egli infermo e languente consumo in Roma nel convento di Sant’Onofrio, quando si con- dusse in quella metropoli per venir coronato sul Campidoglio dell’alloro stesso che avea cerchiato tre secoli innanzi le tempia di Francesco Petrarca. Qual cosa più misera al mondo che in luogo del trionfo desideratissimo veder con gli occhi della mente le proprie esequie, e sentirsi morire in quel dì medesimo che dovea con tarda riparazione cancellare le lunghe ed inique ingiurie degli uomini e della fortuna? Non vo’ negare che la breve lettera scritta da Torquato al suo Costantini in quell’ultimo tempo, sveglia più compassione e move più l’animo che i lunghi e armoniosi lamenti di questo mio Idillio. Nientedimanco, a me era lecito di tentare quello che gli stranieri non possono adempiere con pari fortuna; e ciò è il ritrarre l’anima vera del Tasso, le vere cogitazioni sue, ciò che doveva affacciarsi alla mente del moribondo poeta, usato alle corti, pieno d’immagini di cavalleria, travagliato ancora da cento ricordanze soavi insieme e terribili, testimone delle sempre crescenti miserie d’Italia, testimone del troppo visibile scadimento del Papato e di Roma, e consolato, nondimeno, d’ogni delusione e d’ogni amarezza dalla religione severa e ortodossa, la quale occupò in modo gli estremi suoi momenti da porlo in commercio e in colloquio con gli angioli, secondo che narra il Manso.
Ò poi introdotto quali interlocutori due umili popolani di Roma, così per temperare un poco la gran tristezza e melanconia del subbietto, come per menzionare un pregio singolarissimo e non bene avvertito della plebe d’Italia, che sempre è stata per nobile istinto ossequiosa ed ammiratrice de’ sommi ingegni. L’arte poi ci à guadagnato di rompere la uniformità soverchia d’un lungo soliloquio; difetto che io scorgo (sia lode alla verità) nei Lamenti del Tasso di Byron, i quali si stendono in una serie oltre modo protratta di pensieri acuti, d’intimi sentimenti e di dolorose sclamazioni, senza riposo ed intreccio alcuno di racconti e di descrizioni. Il qual genere di poetare contenta forse la gran virtù astrattiva e ragio natrice de’ boreali, ma fatica e stanca la natura fantastica e la virtù rappresentativa delle menti meridionali.AUSONIO.
Tanto l’amor proprio è tenace e così parziali i giudicj suoi, che l’essere stato questo componimento letto da pochissimi e lodato (che io sappia) da niuno pubblicamente, non basta per tormi dal capo anzi per radermi dalla coscienza il convincimento che in esso è qualche pregio e qualche bontà.
Dopo dieci anni d’esilio e vivendo appartato e più che mai solitario in Parigi, io soleva, il mattino, scegliere volentieri a termine del mio passeggio il Campo Santo di Montmartre, dove alla mestizia religiosa del luogo io mescolava quella che provenivami dalla lettura e meditazione di qualche volume pensato e scritto nel dolore e abborrente dalle piacevolezze e lusingherie del bel mondo. Carissima fra questi m’era la Bibbia, e fra le scritture di lei, il libro di Giobbe. Leggendo il quale più d’una volta e annodando le idee, giusta la disposizione singolare dell’animo mio, m’incominciò a parere che non poca parte di que’ concetti stesse molto propriamente sul labbro della misera Italia, e però sul labbro altresì di quegl’infelici e raminghi che nelle straniere contrade la rappresentavano ed erano tuttogiorno satollati d’umiliazione e alcuna fiata d’amarissimo scherno. Di qui si originò il mio Idillio; di qui il grandeggiare delle sue immagini e certa novità e robustezza di elocuzione; di qui, infine, l’espressione ardita e passionata che ritrovarono i miei travagliosi pensieri e il mio dolore verissimo e profondamente sentito. Io non so bene se i casi straordinarj del 48 abbiano come ecclissato nell’animo degl’italiani le forti querele e l’affetto generoso e iracondo che spira in quel mio componimento: ciò sole mi si rappresenta come sicuro, che nel 1842 (anno in oui fu stampato) parea naturale ch’egli trovasse accoglimento grazioso in Italia, appresso, almeno, di coloro che in cima d’ogni pensiero tengon la patria e la dignità d’uomo e di cittadino. Ma queste ragioni non tornano sufficienti, per avventura, a far buoni e belli davvero i miei versi mediocri; del che giudice non sono io nè il volgo, ma i lettori bene avvisati, e spogli, per la virtù del tempo, d’ogni ingiusta preoccupazione.
LE MONTANINE, LA PAZZERELLA,
IL SOGNO SPIEGATO.
Un solo concetto ebb’io nel dettare queste tre brevi composizioni, e fu di togliere alla dimenticanza delle moltitudini e far prova di rimettere in uso quelle ballate gentilissime del Cavalcanti e del Poliziano le quali brillano come picciole gemme nel tesoro del nostro Parnaso. E perchè era vana pretesa e ridevole il voler gareggiare con essi d’ingenua grazia e d’elegante semplicità e schiettezza, così mi studiai di compensare il grave discapito con introdurre in queste mie ballatette più passione e forse più sentimento che non portava quell’antico modo di poetare.
MISTERO.
Qualcuno, letto l’Idillio, mi disse: Oh che mistero c’è qui? Il padre di tutti i misteri, risposigli, ed eziandio di tutti il più lacrimoso e terribile, la esistenza del male. Vorrei mi spiegaste perchè l’innocente patisce, e l’ordine di questo mondo provvede meno alla salute di lui che a quella dell’infimo degli animali bruti. Concordia tanto maravigliosa e cospirazione tanto visibile di mezzi e di fini nella natura fisica e irrazionale, e così gran discrepanza e miseria nella pensante e razionale? Sembrò aquetarsi l’oppositore, ma fu per un poco; e tosto ripigliò dicendo: Sta bene; ma come pretendete di scioglier l’enigma ed appagare i lettori con que’ tre versi: O poverella mia, perchè disperi? — Ripensa nel cuor pio — Che sopra noi, che sul creato è Dio! L’esservi Iddio non fa che non vi sia il male.— Non fa, del sicuro, io gli replicava. Il male sussiste, e bisogna non già negarlo, sibbene spiegarlo; e la esistenza di Dio lo spiega. Perocchè Dio vuol dire bontà infinita e infinita providenza; e perciò, se la limitazione e l’insufficienza inemendabile delle cose mondane trae seco certa quantità e temporaneità di male, la providenza infinita trae seco dal lato suo una graduale attenuazione e diminuzione di quello e un sempiterno compensamento. Chi questo non crede, discreda pure Iddio; conciossiachè non sono mai compossibili un Dio senza bontà, e una bontà divina ed onnipossente che lascia trionfare il male e non rimerita il bene.
Cotesto significato à l’Idillio, la cui forma si differenzia da tutte le altre da me adoperate; e non è propriamente una maniera di dialogo, ma un intreccio (forse strano) di alquanti monologhi, ciascuno de’ quali esprime con varietà e vivezza certa specificata natura di cose; anzi, è dessa natura che parla con diversità di linguaggio nelle sue diverse creazioni e manifestazioni. Genere ardito di poetare che usato con brevità e parsimonia sembrami contenere molta vaghezza, ma soprusato, come lo vedo in Francia e in Germania, mi sembra generare sazievolezza e monotonia.
I DUE AMORI.
Platone à certo nel suo Convito discussa profondamente la materia d’amore, e vi à lumeggiato con arte e sapienza non superabile tuttociò che le favole, le tradizioni, il sentimento, i costumi e la recondita speculazione porgevano di più vero e di più elegante intorno al subbietto, e massime intorno alla separazione del volgare amore dal celeste. Pure, non ostante l’inno bellissimo di Agatone e le mistiche rivelazioni di Diotima, la civiltà Greca non concedette all’autor del Convito d’indovinare quello che sotto l’influsso della religione di Cristo sarebbe comparsa la donna agli occhi innamorati ma timidi e verecondi del trovatore provenzale e del rimatore toscano. Quindi nel cinquecento le lettere nostre offerivano nei componimenti d’amore un contrapposto singolarissimo tra coloro che verseggiavano in volgare e gli altri che in latino. Agli occhi de’ primi la donna era cosa al tutto celeste, e nemica mortale d’ogni profanità e carnalità di pensieri e di voglie. Appo i secondi, invece, Amore pargoleggiava capriccioso e lascivo come fatto aveva sulle ginocchia di Catullo e di Anacreonte, nè gli piaceano le Grazie salvo che nude, e nuda volea d’accanto la sua genitrice. Di tale meschianza vera ma speciosissima di concetti pagani e cristiani fa ritratto l’Idillio nostro, ponendo come a rimpetto l’uno dell’altro e come venuti a gara di canto due insigni poeti compaesani e contemporanei, il Pontano e il Costanzo. Nè è facile dire in quale dei due s’asconda vena maggiore di poesia, o quale almeno riesca più dilettevole e più attrattivo.
RISPETTI D’UN TRASTEVERINO.
Non meno della marchigiana, la plebe romana parla italianamente più di qualunque altra popolazione della penisola, eccetto peraltro i sanesi ed in generale i toscani, ai quali ogni nostra lingua vernacula dee ceder non poco per la correzione, la proprietà e l’eleganza. Con tutto ciò, al favellare ordinario de’ trasteverini non mancano certi ornamenti, e può l’arte del poeta ingentilirlo e abbellirlo senza che per ciò compaja spogliato di nativa naturalezza e schiettezza. Gli è vero che non vi s’incontrano que’ modi proverbiali e briosi e quelle locuzioni finissime che sono come fiori spontanei d’una terra benedetta dalle Muse, e che trapiantarli in altro suolo non è fattibile nè ben riuscibile a qualunque industria e fatica umana. Nullameno, il tempo vi va introducendo parecchie frasi popolari e vivaci che l’uso frequente degli scrittori o il conversare delle persone civili à diffuso ed accomunato all’Italia intera. Abbondantissimo è poi di tropi e figure come ogni lingua di popol minuto, e più quella del romano che à svegliatissima fantasia.
Con tali pennelli e con tali mestiche (se è lecito così parlare) tentai nell’Idillio sopranotato di allargare i termini della poesia rusticale, bello e invidiato tesoro del nostro Parnaso. Volli in secondo luogo ritrarre al vero l’indole, gli affetti, le consuetudini e le costumanze della plebe trasteverina non facendo uscire in nulla il componimento dal verosimile, e ponendo in rilievo i pregi singolari di quella gente che à carattere veramente peculiare ed assai spiccato.
Scrivendo di lei nel 1840, io era discosto le mille miglia dal credere che di là a pochi anni ella avrebbe pure col testimonio dei fatti provato all’Europa ch’io non amplificava per nulla il suo sentir generoso e virile e certa sua innata arditezza e magnanimità; e ch’ella darebbe nuova e insigne dimostrazione al mondo di quanto sia tenace e come indelebile e invitta la virtù delle stirpi.MANFREDI.
Niun componimento erotico, per mio giudicio, entra innanzi al Cantico dei Cantici nella descrizione sopramodo viva e passionata che fa di due anime candidissime, accese ed inebriate d’amore. Tutti gli accidenti e le circostanze quivi narrate sono così naturali e semplici, come piene e riboccanti di affetto e splendenti di grazia e di leggiadria. Nè ve ne à pure una la quale non rechi molta soavità e maraviglia nel cuore, e di tutte componesi un picciol dramma villereccio a cui fa scena un paesaggio incantevole. Tu vi senti spirare continuo l’aura dolce e tepida di Palestina. Da ogni banda ti arridono le vigne e i giardini; ti ricreano da ogni banda gli effluvj delle piante aromatiche; e scorgi poi in lontananza le torri d’una città e i superbi palagi d’un re; e pure per le selve appar qualche segno e indizio delle pompe e grandigie che un monarca circondano. Nè da que’ segni e indizj esce copia minore d’immagini e di sentimenti; perocchè ogni lettore educato un poco nelle tradizioni cristiane à per tutto il componimento dinanzi agli occhj Salomone amante e poeta, e vede mescolarsi ai concetti giovanili ed ingenui d’un amore puro e tenerissimo la maestà d’un gran principe, e viene gradevolmente commosso avvertendo e considerando che tempra delicata e schietta ed affettuosissima avesse da natura sortito quel regnante; e come non solo sapesse amare, ma divinamente esprimere i dolci secreti del cuor suo, prima che lo cerchiassero innumerevoli concubine e d’ogni piacere terreno si sentisse nauseato e ristucco. Quanta mai differenza tra la passione intensa ed aperta di questo re, e le smancerie e l’etichette di Luigi quartodecimo e delle sue amanze!
Per tutto ciò, io non mi sono potuto rattenere uscendo più d’una volta dalla lettura dell’insuperabile poemetto di non esclamare in fra me:
Cedite, romani scriptores, cedite graii; |
Salvo che, io interrogava pure me stesso e diceva: se quegli amori fossero meglio individuati, e il contrapposto tra l’esser di amante e l’esser di principe lasciasse scorgersi in tutte le sue varietà e peripezie, trarrebbesene maggiore bellezza o minore? Non so, rispondeva io; ma certo, nessun concetto più alto e insieme più gentile d’un amore profondo e casto per bellissima e purissima creatura, il quale s’intrecci, a così dire, tra le imprese magnanime e le dure prove e gloriose d’un giovine re, come in una ghirlanda d’alloro o di quercia un sottil rametto di rose o di mirto, o come quella corona di cui Virgilio diceva:
Atque hanc sine tempora circum |
Per fermo, da tale fonte deriva principalmente la somma bellezza poetica della Cavalleria, e per ciò stesso l’incontro di Ettore con Andromaca vicino alle porte scee rimarrà in eterno un capolavoro dell’arte; e trarrà le lacrime da tutti gli occhj per insino a tanto che la coscienza umana tributerà onore e commiserazione al valore sfortunato e alle non meritate sciagure del santo amore maritale.
Io mi son dunque provato di dar rilievo a questi pensieri e a queste non volgari intenzioni dell’arte nell’Idillio che à nome Manfredi, e tutto il quale vennemi suggerito dal Cantico dei Cantici, da cui pure attinsi una maniera arditissima di metaforeggiare, parendomi che la profondità dell’affetto assai lo comporti, ed anche la natura del paese e degli uomini da me descritti non diversa gran fatto da quella degli orientali. Alle tradizioni poi italiane ed ai sentimenti nazionali diffusi per tutto l’Idillio nessun commento è necessario, e credo che acquistino grazia per sè medesime appresso al lettore non ignorante e non incurioso di nostra storia.
UNA MADRE.
Ò io fatto bene o male ad entrare con questo Idillio nel genere che domandano romanzesco e sentimentale, e di cui il secolo fa vero spreco e scialacquo? Eh! ben diceva colui che dal tedioso in fuori, tutti i generi sono buoni. È romanzo il mio, ma breve e fondato sul vero in gran parte, avendo io sentito raccontar cosa molto simile dal Lamennais in Parigi. Nè si affermerà, io penso, che all’argomento manchi la veemenza della passione e (per parlare alla moderna) il moto e la vita drammatica. Ma l’affetto ancor che supremo e pieno di gran dolore, non istrazia l’anima senza conforto veruno, e non ci pone sott’occhio orribili cose che riescono ad altre più orribili e possedute da cupa disperazione. Io per me stimo che quel precetto di Orazio
Nec pueros coram populo Medea trucidet, |
vale indistintamente per tutte le arti del bello. Perocchè tutte sono trovate a commovere con dilezione e istruzione, non ad angosciare e atterrire. D’altra parte, qual merito può lo scrittore attribuirsi accumulando le cose più atroci e sfoggiando in invenzioni così spaventevoli come bizzarre, qual merito dico può con ragione attribuirsi dello svegliare che fa con mezzi cotali l’ammirazione del volgo, e del tenere esercitata la sensitiva facoltà e la fantasía o del volgo o dei ristucchi e sazievoli? A questo ragguaglio, il carnefice avrà forse da raccontare cose più vere e più commoventi, e colui che modella in cera un cadavere vincerà per l’effetto il pennello per sin di Tiziano e del Caravaggio.
RAGION POETICA DELLE EROIDE.
Byron pigliando dalle mani de’ romanzieri le opere loro più passionate e fantastiche, ne spremette, per così dire, il succo e ne foggiò la sua poesia. Per ciò raccolse in maggiore sostanza e in minor volume quello che domandano sentimento e melanconia; fece assai più cupe le tinte delle descrizioni e dei caratteri, e crebbe nelle narrazioni l’inaspettato e l’insolito. Alle immagini dette spesso del gigantesco, alle persone del misterioso, agli affetti una continua veemenza. Abolì i trapassi, tagliò fuori le idee intermedie e rappresentò ogni cosa come in iscorcio; e in quell’attitudine che trasceglieva e ponea in veduta, esprimette sempre il massimo dell’azione, il colmo della vitalità e del vigore.
Fu nuova e grande maniera di poetare e alla qualità dei tempi acconcissima; essendo che gli uomini sazj e schifi oggimai del semplice e del naturale desideravano al loro stomaco una nutritura assai condita e aromatizzata, e lor non parea di commoversi fortemente nell’intelletto e nell’animo, qualora non si sentissero agitati da convulsioni e poco meno che provocati al furore e al delirio. D’altro lato, mancando al dì d’oggi o la materia e l’arte appresso il poeta, ovvero le confacenti disposizioni appresso il lettore per far trovare e applaudire una epopea solenne ed eroica, non vi si potea supplire altramente che verseggiando il romanzo, e Byron ciò à fatto in modo inusato e stupendo.
Ma il genere pressochè creato da lui, fu egli buono ed eccellente in sè stesso e da durare perpetuo nell’ammirazione degli uomini? Di ciò è lecito a ognuno di dubitare. Conciossiachè quel genere nella sua sostanza riesce il più delle volte ammanierato, gonfio, eccessivo, incredibile. Esso abbaglia e brucia più ancora che non illumini e scaldi; e l’animo e la fantasia ne rimangono io non so bene se ricreati o storditi. Mi confermano forte nel dubio i numerosi ma infelicissimi seguitatori e discepoli di Giorgio Byron. E veramente, non rimanea loro che o sempre imitare e copiare, o crescere i difetti e gli eccessi del lor modello, e però farli non tollerabili. Appunto, come nella scoltura potè il Bernini meritar lode assai giustamente con quelle sue ardite movenze, con quegli svolazzi di panni e di veli, con quelle labbra e quegli occhj per la passione quasi contorti. Ma tutto ciò negli imitatori suoi divenne falso ed incomportabile.
Tali cose bene considerate, io venía ricercando più sottilmente se nel fatto la verità, la schiettezza e la sobrietà dell’arte fossero morte fra gli uomini; e quando morte, se aver non potessero risurrezione. Io diceva quindi in fra me: che dunque? la storia, dove lasci in disparte il più atroce ed il più deforme delle sue narrazioni, e dove non pigli fattezze posticcie e colori falsati, cosa alcuna non offre la quale basti per sè medesima a toccare i tre fini supremi dell’arte, che giudico essere il diletto, la erudizione e la migliorazione degli animi? E si stimerà il simigliante della vita privata e degli innumerevoli casi e accidenti che v’intervengono? Se io non muto natura, e se la forma della mia mente non si travisa, io non reputerò mai buona e savia cotesta sentenza, o ch’ella sia espressamente significata o che nella pratica del poetare ella venga più o meno seguíta e obbedita. A me riuscirà sempre impossibile di persuadermi che la nudità e la ingenuità del vero non sia ricolma di bellezza profonda ed originale; nè crederò mai che nell’ottima poesia debba in verun tempo cessare l’impero della temperanza virgiliana, o che il nuovo, il grande, il forte e il patetico debbavisi scompagnare dal semplice, dall’assegnato e dal decoroso; e infine, che senza mirar nello strano e nell’iperbolico non possa rinvenirsi materia cospicua e sufficientissima ad esercitare con diletto e proficuità la sensitiva e l’immaginativa così del popolo come degli spiriti culti e gentili.
Riconfermatomi, impertanto, in cotali massime che sempre sono state a governo della mia maniera di scrivere, posi in carta le due Eroide, le quali se tornano insufficienti alla trattazione varia e piena di quel genere antichissimo di poesia, bastano forse a indicare il modo com’io ne concepiva la ristaurazione ed innovazione. Non so il perchè, ma dipoi la famosa lettera di Eloisa a Abailardo dettata dal Pope e in più lingue traslatata, non conosco scrittore insigne a cui piacesse di scrivere Eroide. Eppure quella foggia di componimento mi comparisce bellissima e naturalissima; ed anzi da Ovidio a noi essa è divenuta mille volte più naturale. Perocchè si può dubitare e negare che Penelope sapesse vergare un foglio o farlo vergare ad alcuno schiavo, reputandosi dai più che gli eroi di Omero fossero tutti analfabeti e le lor donne ancor di vantaggio.
Ò allargato un poco i termini di cotesta forma di poesia, e forse l’ò guasta o come direbbe il reverendissimo Curci, l’ò ammodernata; ma parvemi di recarle maggiore efficacia e maggior varietà, facendo seguire più epistole l’una all’altra nell’ordine delle date, e intrecciando con esse alcun caso od azione che proceda contemporanea all’opera stessa dello scrivere.OROBONI ALLA SUA FIDANZATA.
Martire vuol significare quel testimonio generoso che mediante il sacrificio di sè medesimo procaccia fede alla cosa testificata. Coloro adunque che lasciaronsi tôrre la vita o si posero a pericolo estremo di perderla o la straziarono e tormentarono per testimoniare al mondo la verità d’un principio o d’un sentimento da essi professato con pura coscienza, pigliano giustissimamente il nome di martiri; nè si dee badare se le sètte abusarono quell’appellazione e quindi le abbiamo scemato il credito e la venerabilità.
Martiri adunque civili sono stati del sicuro i prigionieri dello Spielberg, e quegli altri italiani ormai senza numero che il proprio essere consecrarono alla causa di nostra nazione, e ne ricevettero o la morte o il carcere od altro supremo danno e patimento. Ma qual concetto dee formarsi dell’indole loro sublime e incolpabile, e come riconoscere in lei tutti i segni e i caratteri della bontà sincera e perfetta, e distinguere esattamente l’ardenza fanatica dalla schietta annegazione, la virtù meramente devota al bene dal furore di parte e dall’amore dį libertà mescolato d’ambizione e d’orgoglio? Immiterà l’italiano venuto a mano de’ suoi nemici la fierezza indomabile de’ Carbonari o la mansuetudine di Silvio Pellico che lambe come agnello la mano del macellajo dal quale è sgozzato? Negherà ogni religione, ovvero accetterà il cristianesimo come sel vennero manipulando a Roma i curiali ed i gesuiti? o in quel cambio, seguirà lo spirito immmacolato e civilissimo dei Vangeli, tanto nemici d’ogni tirannide e d’ogni ingiustizia, in quanto che i primi cristiani invocavano a loro sussidio la libertà, o la tolleranza almeno, e ponevano il colmo della eccellenza morale nella spontaneità compiuta del bene?
A me, pertanto, venne in capo di delineare l’archetipo santo e maraviglioso del martire civile italiano; e il giovine Oroboni parvemi subbietto convenientissimo a rappresentarlo. Singolare miseria d'Italia, che sia bisogno a’ suoi letterati di scrivere, come a dire, un catechismo ed un manuale delle virtù cittadine messe al cimento estremo delle catene e dei supplizj. Chi leggerà, dunque, la mia Eroida, credo v’abbia a trovare qualcosa di più che la semplice descrizione degli ultimi patimenti dell’infelice rovigino. L’Eroida à pure qualche importanza dal lato della filosofia. Conciosiachè l’Oroboni vi esponga, sotto brevità, una cosmologia ed una Teodicea; e il concetto generale di ambedue si è non pure il trionfo terminativo del bene per l’ampiezza dell’universo, ma l’idea più ragionevole che accoglier dobbiamo del male, in quanto che esso à molta più padronanza nel nostro mondo che nei mondi superiori, inviluppati di meno materia e dotati di maggiore efficienza spirituale. Cosicchè bisogna considerare la Terra e gli altri mondi simili al nostro o come un grado inferiore della possibilità delle cose, posto che ogni attuabile possibilità debba avere suo luogo; ovvero come una parte infima della creazione, in cui la potenza del bene non è ancor penetrata con la pienezza di sua virtù; e noi siamo involti, se è lecito così parlare, nell’ultima feccia della gran sostanza dell’universo, il quale in pressochè tutti i suoi seni è ripurgato e nitido.
BOEZIO A SUA MOGLIE.
A noi italiani scaduti di tanta grandezza e spossessati di tanto imperio dee tornare spesso a mente, e a me torna spessissimo, quel Severino Boezio che seppe in secolo barbaro rendere alcuna immagine della grandezza romana. E dell’esempio suo io mi sono sempre confortato oltremodo; perocchè mi sembra salvata in Boezio la dignità stessa del genere umano, e provato per lui che non vi sia tempo sì misero e forma di vita comune si bassa e incivile da togliere ad uno spirito nobile e vigoroso la possibilità di riuscir grande e magnanimo.
Se a me venne succeduto di far pittura fedele de’ suoi concetti e sentimenti, non so; ma certo, piena di tristezza abituale e profonda esser dovea quell’anima in cui erano vive e parlanti ancora le tradizioni del mondo romano e splendeva la luce della sapienza greca e latina, in quel mentre che ogni cosa intorno di lui prenunziava e significava l’ultima declinazione e ruina della civiltà e del senno umano. Benchè, a dir vero, egli fosse ancora meno infelice di noi italiani; perchè la ruina di Roma era al suo secolo la estinzione della cultura e umanità universale. Laddove a noi tocca di scorgere di rimpetto all’abbassamento, alla servitù e all’umiliazione di Roma, e d’Italia il grandeggiare e l’inorgoglirsi de’ forestieri. Il Gibbon affermando che senza l’opera de’ cristiani non avrebbero i barbari manomesso e disfatto la dominazione dei Cesari, mostrò di non sentir molto avanti nella grande scienza sociale; perocchè da essa avrebbe raccolto le vere cagibni ed irreparabili che dannavano il mondo antico alla corruzione e dissoluzione. Ciò non pertanto, è da confessare che non poteva non affrettarne il disfacimento quella indifferenza funesta e colpevole a cui pervenuti erano i cristiani intorno alle sorti civili degli uomini. E trista cosa è leggere nei volumi di uno de’ più fecondi e sottili ingegni di quella età non doversi l’animo turbar sommamente perchè regni il romano od il barbaro; e doversi badare, invece, sotto quale dominazione sia meno impedito di servir Dio e salvare l’anima. Il mondo civile non essere fine a sè stesso od aver solo per fine la propagazione della Fede, compiuta la quale dover sopraggiungere il dies iræ e la finale consumazione del secolo. Ò nella mia Eroida fatto pittura in iscorcio di que’ fanatici, la cui semenza non è spenta ancora a’ dì nostri, e seguitano a traviare la religione dai larghi sentieri della scienza e della civiltà. Fu scritto con gran verità e saviezza, la religione essere quell’aroma prezioso onde alla scienza umana viene impedito sempre mai di corrompersi. Ma guai per la religione e pel mondo civile se l’aroma e la sostanza aromatizzata non fanno uno!
POCHE NOTERELLE DI LINGUA.
Ad ogni tempo toccano certe speciali necessità: nel nostro è impossibile agli scrittori italiani schivar le questioni intorno alla lingua. E ringraziamo Dio che se ne faccia disputazione, provandosi con ciò non essere al tutto mortificato appo noi il fine senso dell’eleganza nè estinte le tradizioni della favella de’ classici; e provandosene eziandio che dello sparuto e contrafatto parlar moderno siamo vergognosi e scontenti, sebbene non sappiasi ancora come supplirlo e come ai nuovi pensieri legar le parole antiche o le novamente trovate, ma senza accattarle da’ forestieri. Certo è che nel secolo sesto e settimo dell’èra cristiana non fervevano, che si sappia, controversie di lingua e di stile; e la barbarie guastando e snaturando il latino ogni di più, giunta era per sino a spegnerne il sentimento e la viva memoria; il che non avviene oggi in Italia del nostro volgare. Quindi coloro che fannosi beffe di tali studj e mostrano di avere la mente rivolta a cose di maggior levatura, sono invece così poveri di ragion filosofica da non iscorgere quanto importi alla civiltà nostra il purgare e ristorar la favella; e come non ogni tempo sia disposto egualmente a trovar belle forme di significare il pensiere; e come converrebbesi, ad ogni modo, per rifare la lingua, rifare i concetti e cavarli dal nostro fondo, laddove coloro di cui discorro vivono foraggiando e predando in terra straniera. D’altra parte, a cui non diventa visibile che tale perseveranza degli scrittori italiani a controvertere sulla lingua sia un fatto notabilissimo non creato certo nè mantenuto dai soli pedanti, ma da cagioni profonde e incessabili? Laonde, coloro che non le avvertono e non le intendono, mal si arrogano l’autorità di sgroppare simili nodi, e ridere e berteggiare de’ magri e vuoti grammaticuzzi. Ingrata e sconoscente generazione è poi da chiamare cotesta dei presuntuosi derisori di tali studj. Conciossiachè quando non fossero state le fatiche del Cesari, del Giordani, del Perticari e di altri insigni e benemeriti curatori e riparatori di nostra lingua, noi tutti e que’ prosuntuosi ancor di vantaggio useremmo uno scrivere così sciatto e inforestierato da disgradarne la prosa di Melchiorre Gioja e di Pietro Verri.
Ma come ciò sia, sempre quanto a me ò guardato nella correzione e nella proprietà della lingua, sebbene la fortuna m’abbia in questo accidente più che in altra cosa operato contro; perchè, oltre al fornirmi di scarsa memoria a modo che io non è mai potuto ritenere quattordici versi a mente, ella m’à fatto vivere sproveduto d’ogni sorta libri, e per sedici anni e i migliori della gioventù e della virilità, m’à forzato a conversar tutto giorno con gli stranieri e tener tra mano gli autori loro; nè mai mi è stato lecito di rivisitar la Toscana, e rimondare lo stile con la schiettezza, l’efficacia, il garbo e la spontaneità e scioltezza della lingua parlata. Queste cose racconto non perchè valgano a far buona scusa agli errori del mio dettato; essendo che da’ lettori può venir risposto sempre con gran ragione: e tu dovevi non iscrivere, o scrivendo non publicare. Ma io desidero che mi sia comportato almeno il gridare che io fo agli altri, e non mi si rimbecchino le parole col mio medesimo esempio, allegando e provando che io canto bene e razzolo male. De’ modi errati od usati fuori di proprietà sa Iddio quanti ne sono rimasti ne’ componimenti che ora tornano in luce; ma di quelli che ò potuto avvertire o pigliar sospetto ò purgata la presente edizione con diligenza. Parecchi vocaboli altresì vi s’incontrano che sono nuovi al tutto o tali vengono giudicati. Io farò rassegna e nota de’ principali, affine si vegga che se io pecco, ciò non m’accade per trascuraggine; ed eziandio, verrò dimostrando l’avere io voluto nel fatto della lingua come nell’altre cose fuggir gli estremi della licenza e della superstizione.
Latinismi.
Ausiliare. Come verbo non è in Crusca: ma v’è il suo participio attivo con un esempio dell’ottimo Commentatore di Dante. Ora, nel participio è implicato il verbo, e la facoltà di cavarnelo mi sembra data a qualunque scrittore.
Piceo. Similissimo ad altri da lunga pezza entrati nel nostro linguaggio, come niveo, cereo, ligneo e va seguitando. Però rimanevasi a guisa di proprietà libera e da possedersi in pace dal primo occupante. Nè io sono stato quel desso; dacchè il Gherardini ne fa sapere che l’Alamanni nell’Avarchide, ora sono tre secoli e più, fece suo quell’aggettivo.
Vessillifero. L’Alberti e il Fanfani dieron luogo a tal voce ne’ lessici loro. Concedo non sia di pura e antica latinità; ma in istile alto e lirico suona molto meglio del porta insegne, banderajo, alfiere e simili.
Paradisiaco. À un esempio nell’ottimo Commentatore, e mi par preferibile a paradisiale (che pur si legge in quell’autore) non solamente per la pienezza del suono ma per l’origine sua latina, trovandosi, se non erro, in Sesto Alcimo Avito del sesto secolo. I Botanici se l’appropriarono, e chiamano paradisiaca una sorta di Musa o Banani che vogliasi dire. Trapassò tale aggettivo eziandio nel greco.
Pomiceo. È nuovo latinismo, ma simile affatto al puniceo che alcun poeta moderno à usato senza biasimo. È poi più dolce del pumicoso che leggesi nella Nautica di Bernardino Baldi.
Inauspeicato. Lo registra il Bergantini, reputato raccoglitore di buone voci; ma quali esempj ne allega non so, perchè non è sotto gli occhj il volume suo.
Mortuale. L’Alberti cita per questo addiettivo una prosa di Anton Francesco Bellati.
Siderale. È in uso appresso gli astronomi; e non mi viene veduta alcuna ragione per non applicarlo fuor della scienza; perocchè è voce bella, sonora, nobile e procedente dal latino antico e classico.
Aurite quercie. A niuno scolar di rettorica riesce nuova tal locuzione, tornandogli a mente il verso d’Orazio:
Blandum et auritas fidibus canoris |
Certo, è un latinismo più ardito de’ due suoi fratelli auricola e auricolare; ma io mantengo che è di entrambi più necessario, quando si voglia con un vocabolo solo significare il concetto oraziano. Conciossiachè, chi vorrebbe scrivere quercie orecchiute senza pericolo di far ghignare il lettore? e nemmanco verrebbesi con ciò ad esprimere il pensiero con somma chiarezza, potendosi da taluno intendere: quercie che in alcuna lor parte ànno forma d’orecchio. Appresso i latini, invece, il testis auritus, l’auritus populus e altre simiglianti frasi piegavano quell’aggettivo a significare non l’organo ma l’effetto suo nel senso, o a dir più breve, non l’orecchio, sibbene l’udito.
Furiale. È molto diverso da furioso, e leggesi in Fausto da Longiano, scrittore pregevole del secolo decimosesto. Nell’avverbio poi furialmente, che in una lettera di Dante venne notato, è già bello e contenuto l’aggettivo furiale.
Aurifero. Comincia a comparire in alcun dizionario; e sebbene il Fanfani lo dia per termine proprio della naturale storia, penso non debba venire interdetto a nessuno di attribuirgli le significazioni che à nell’idioma latino da cui drittamente deriva; e se parve poetica voce a Tibullo, dee parere anche a noi.
Adepto. Per aderente a setta ebbe primamente suo luogo nel Gran Dizionario Italiano che si publicò in Bologna; altri lessici lo registrarono dopo quello. E se riesce a taluno di poco dolce pronunzia, lo cambii in adetto, guardandosi di non confonderlo con addetto.
Squallente. Confesso di non potere allegare esempj nè dizionarj. Ma come da alcuni scrittori classici senza necessità di rima fu posto pallente in luogo di pallido, e ancora che il verbo pallere nel nostro volgare faccia difetto, così potrebbe venire scusato, se non lodato, colui il quale in difetto del verbo squallere ponga nondimeno il suo participio.
Sussultare e Sussulto. Il Fanfani e l’Ugolini vogliono che sì il verbo e sì il nome non escano dai cancelli della medicina e della fisiologia; ma se io vo indagando la ragione di tale specie di sbandimento e relegazione nè la scopro nè la indovino; e qualora non avessi labile la memoria, terrei per sicuro che il nome trovò grazia appresso Vincenzo Monti in non so qual libro della sua versione d’Omero.
Esorato. Così avevo scritto nell’edizione parigina del 43, e stimavo essere io il primo a trarre fuori tal voce latina che è già tutta inchiusa nel notissimo ed usatissimo inesorato. Poi m’imbattetti in lei rileggendo con più attenzione il volgarizzamento foscoliano del primo dell’Iliade; dove sta acconciamente, perchè significa persona placata e inchinata dalle preghiere. Invece nel componimento mio, esorato era sinonimo di esaudito contro la vera e germana accezione della parola. Quindi nella presente edizione fu cancellata.
Superstite. Vocabolo men necessario alla prosa che alla poesia, nella quale ultima i verbali sopravvivente e sopravissuto non trovano pronto e comodo alloggio. Il Bergantini lo à pescato in un pregiato scrittore del secolo diciassettesimo. Appo i latini poi è voce adoperata eziandio in altissima poesia.
Conviva. L’Alberti lo nota nel suo dizionario con un esempio del Segni, al quale traducendo Aristotele parve ben fatto di allargar un poco la mano in produrre parole nuove. Il Gherardini poi vi venne aggiungendo un esempio tratto dalle lettere di A. Caro raccolte dal Tomitano.
Mefite. Non è esso di già compreso nell’aggettivo mefitico, il quale corre per le lingue e per le scritture di molti? Ma oltre di ciò, il Gherardini l’ebbe avvisato nel Chiabrera, nome ed allegazione autorevole.
INCUNABULO. Io era in procinto di cancellarlo, sì perchè a niun filologo nostro è accaduto finora di leggere cotal voce in qualche buon libro italiano, e sì perchè non mi soccorreva ragione sufficiente per usarla nel singolare, quando in latino è costantemente adoperata nel plurale. Pure l’ò mantenuta, essendomi corsi agli occhj que’ versi del Monti:
Tale il sacro incunabulo |
Fibrilla. Il Bergantini lo registra con un esempio dell’Algarotti. Fu termine da prima scientifico, poi sotto la penna del Monti divenne grazioso e poetico. Gli antichi scrittori latini non lo conoscono, e fu da’ moderni composto sulla maniera di altri simili diminutivi.
Normale. Ottima voce, quanto all’origine, e non facilmente supplita da altre. Ma la fortuna che illustra od oscura ad arbitrio suo eziandio le parole, non volle che mai capitasse sotto la penna d’alcuno degli scrittori che il Vocabolario della Crusca rassegna ed allega.
Inestinto. È nelle storie del Nani, e lo citano il Bergantini e gli editori della Minerva. Oltrechè, ognuno vi scorge la solita permutazione dell’un verbale nell’altro, figura grammaticale molto frequente nei latini e volentieri da noi italiani immitata.
Adunque, una o due voci soltanto in parecchie miliaja di versi ò io il primo dedotto dalla lingua che fu madre al nostro volgare. Delle altre, sebbene ancora non messe dentro nella tramoggia e dal Vocabolario o trascurate o non degnate, ciascuna mostra alcun titolo di buona nascita e di buon parentado, e riparasi sotto l’autorità di qualche bel nome. Però, mi sembra che il vecchio precetto oraziano si Græco fonte cadent parce detorta, non venne da me per niente ecceduto. Quanto alle figure e alle frasi di forma latina, sonomi tenuto costantemente alla regola di preferir quelle che pajono native e spontanee del nostro idioma. Citerò un solo esempio. Nell’Eroida prima si legge:
Che tutte l’ore a me stillan crudele |
Pochi vi ravviseranno tradotto a lettera questo sentimento di Tibullo:
Omnia jam tristi tempora felle madent. |
Neologismi.
Di foggiare vocaboli nuovi mi sono astenuto al possibile, e due unicamente se ne rincontrano in questi versi, e già mi pajono troppi.
Bronzeo. Abbiamo ferreo, aureo, argenteo, plumbeo, marmoreo, terreo, eburneo ed altri moltissimi, ma non bronzeo. Fui temerario a crearlo, o difendemi a sufficienza questa che domandano legge di analogia? Il Leopardi nella versione sua del secondo dell’Eneide scriveva eneo, e il Monti od altro poeta famoso de’ nostri tempi chiamò eripedi i cavalli dal piede di bronzo. A me è sembrato minor licenza di piegare un vocabolo nostro e da tutti saputo ed inteso ad una terminazione addiettiva che è nuova per esso, ma è creata secondo similitudine e non à più nulla del forestiero.
Mambre querciosa, e cioè a dire: Mambre abbondante di quercie; nè ad alcuno riuscirà l’espressione oscura o dubiosa. Nullameno, io la giudico molto arrischiata, e non può l’autenticazione sua venir fuori che dal consentimento assai generale dei lettori. Appresso i latini, un luogo per natura copioso di tale pianta o di tale altra viene di rado significato con un addiettivo che pigli la terminazione da me usata, e l’esprimevano più volentieri alla maniera greca: olivifer, pinifer, vitifer e cento altri consimili. Fra noi italiani accade cosa ancor più singolare; che la desinenza da me adoperata adattasi bene a indicare la moltitudine delle piante basse e minute. E lasciando stare erboso, trovasi ne’ classici: terreno spinoso, cespuglioso, giuncoso, algoso, prunoso, cannoso, granoso ed altri siffatti; ma la desinenza medesima non si nota pei nomi di piante di grande fusto. Ò io fatto bene a cominciare? Forse che sì, quando il comune de’ lettori non se ne avveda.
Iridati ingemmamenti. E cioè gruppi di gemme tinti e illuminati dei colori dell’iride. A me sembra avere memoria che alcuni naturalisti descrissero con questo epiteto iridato i rifrangimenti e i giuochi di luce che fanno alcune pietre polite, diafane e faccettate. Ma s’io non fui preceduto da alcuno, quasi non me ne dolgo, parendomi quella espressione non mal graziosa ed anzi feliciter audax.
Valanga. Vocabolo necessario, perchè di speciale e peculiare significazione; quindi l’uso non à aspettato che la Crusca lo segni del suo suggello.
Terracqueo. È voce nota e adoperata comunalmente, sebbene esiliata con poca ragione dalla Crusca.
Turbinare. E questo verbo ancora non è registrato; ma chi non sente la sua efficacia? e il Monti l’adoperò nel Prometeo con molto garbo e acconcezza.
Accovigliare. L’Alberti lo reca nel gran Dizionario, e cita la Bucolica di un Arsocchi sanese comparsa nel 1481. E sebbene nell’Arsocchi sia neutro passivo, cotal forma di verbo, chi ben l’estima, inchiude la virtù e la significanza del verbo attivo.
Sirventa. È nome proprio di una sorta di componimento poetico appo i provenzali. Nè so bene se gli risponda compiutamente ciò che gli antichi nostri domandarono serventese. Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/68 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/69 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/70 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/71 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/72 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/73 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/74 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/75 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/76 Pagina:Terenzio Mamiani Poesie.djvu/77