molte migliaja della sua versione dell’Eneide sia più che raro il trovarne due consecutivi esattamente conformi d’accento e di suono. Ben tu comprendi, o lettore, che se cotesta ricchezza e cotesta grazia di prosodia torna difficilissima ad essere conseguíta, l’effetto che n’esce è altrettanto bello e incantevole. E per ciò solo, a giudicio mio, lo sciolto vince e sorpassa la leggiadria e l’attraimento de’ versi rimati, e aggiungesi alla poesia tutta la vaghezza che si nasconde ne’ ben fabbricati periodi d’un prosatore eccellente. Nè occorrono lunghe ragioni e dimostrazioni per capire quale maraviglia dilettosa e durevole debba svegliarsi da un beninsieme di concetti legati fra loro assai strettamente e nelle cui parole e frasi gira un’armonia sempre varia e conveniente alle idee, e la quale dopo essersi avvolta leggieramente come meandro o fatta grave ed equabile come la piena d’un fiume reale o invigorita di suono e di moto come gonfio torrente, nell’ultimo riempie ed appaga l’intelletto e l’orecchio ora con maggior grado di dolcezza ora con la maestà e solennità del numero ed ora, in fine, con raddoppiarne l’intensione e la veemenza. Leggasi l’infrascritto brano:
. . . . . . . . . . . . . . affanno e lutto
Costan di plebe poverella e nuda
Le boriose dilettanze nostre.
Ai padiglioni intorno ed alle mense
Macera di fatiche e di digiuno
Erra, intanto, l’afflitta, e ai corsier vostri
Le mangiatoie invidia, invidia il sonno
Ai blanditi sparvier gioja de’ grandi.
Che ministrare a me trepidi io scorga
I miei fratelli con vendute, affrante
Membra di schiavo, e ch’io ne beva il pianto
Nelle patere d’or, mentre i lor fiochi
Gemiti copre del giullar la voce
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