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xliviii l’autore ai lettori.


torna spessissimo, quel Severino Boezio che seppe in secolo barbaro rendere alcuna immagine della grandezza romana. E dell’esempio suo io mi sono sempre confortato oltremodo; perocchè mi sembra salvata in Boezio la dignità stessa del genere umano, e provato per lui che non vi sia tempo sì misero e forma di vita comune si bassa e incivile da togliere ad uno spirito nobile e vigoroso la possibilità di riuscir grande e magnanimo.

Se a me venne succeduto di far pittura fedele de’ suoi concetti e sentimenti, non so; ma certo, piena di tristezza abituale e profonda esser dovea quell’anima in cui erano vive e parlanti ancora le tradizioni del mondo romano e splendeva la luce della sapienza greca e latina, in quel mentre che ogni cosa intorno di lui prenunziava e significava l’ultima declinazione e ruina della civiltà e del senno umano. Benchè, a dir vero, egli fosse ancora meno infelice di noi italiani; perchè la ruina di Roma era al suo secolo la estinzione della cultura e umanità universale. Laddove a noi tocca di scorgere di rimpetto all’abbassamento, alla servitù e all’umiliazione di Roma, e d’Italia il grandeggiare e l’inorgoglirsi de’ forestieri. Il Gibbon affermando che senza l’opera de’ cristiani non avrebbero i barbari manomesso e disfatto la dominazione dei Cesari, mostrò di non sentir molto avanti nella grande scienza sociale; perocchè da essa avrebbe raccolto le vere cagibni ed irreparabili che dannavano il mondo antico alla corruzione e dissoluzione. Ciò non pertanto, è da confessare che non poteva non affrettarne il disfacimento quella indifferenza funesta e colpevole a cui pervenuti erano i cristiani intorno alle sorti civili degli uomini. E trista cosa è leggere nei volumi di uno de’ più fecondi e sottili ingegni di quella età non doversi l’animo turbar sommamente perchè regni il romano od il barbaro; e doversi badare, invece, sotto quale dominazione sia meno