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xxxiv | l’autore ai lettori. |
uomini e della fortuna? Non vo’ negare che la breve lettera scritta da Torquato al suo Costantini in quell’ultimo tempo, sveglia più compassione e move più l’animo che i lunghi e armoniosi lamenti di questo mio Idillio. Nientedimanco, a me era lecito di tentare quello che gli stranieri non possono adempiere con pari fortuna; e ciò è il ritrarre l’anima vera del Tasso, le vere cogitazioni sue, ciò che doveva affacciarsi alla mente del moribondo poeta, usato alle corti, pieno d’immagini di cavalleria, travagliato ancora da cento ricordanze soavi insieme e terribili, testimone delle sempre crescenti miserie d’Italia, testimone del troppo visibile scadimento del Papato e di Roma, e consolato, nondimeno, d’ogni delusione e d’ogni amarezza dalla religione severa e ortodossa, la quale occupò in modo gli estremi suoi momenti da porlo in commercio e in colloquio con gli angioli, secondo che narra il Manso.
Ò poi introdotto quali interlocutori due umili popolani di Roma, così per temperare un poco la gran tristezza e melanconia del subbietto, come per menzionare un pregio singolarissimo e non bene avvertito della plebe d’Italia, che sempre è stata per nobile istinto ossequiosa ed ammiratrice de’ sommi ingegni. L’arte poi ci à guadagnato di rompere la uniformità soverchia d’un lungo soliloquio; difetto che io scorgo (sia lode alla verità) nei Lamenti del Tasso di Byron, i quali si stendono in una serie oltre modo protratta di pensieri acuti, d’intimi sentimenti e di dolorose sclamazioni, senza riposo ed intreccio alcuno di racconti e di descrizioni. Il qual genere di poetare contenta forse la gran virtù astrattiva e ragio natrice de’ boreali, ma fatica e stanca la natura fantastica e la virtù rappresentativa delle menti meridionali.