uomini che più docilmente obbediscono a’ suoi precettį e alla virtù degl’istinti, siccome sono i contadini e la parte più mansueta e modesta della plebe cittadina. E così la intendeva Teocrito, padre incolpevole di quella infinita schiera e tediosa di ricamatori di egloghe antiche i quali per più d’un secolo ànno popolato il Parnaso italiano ed
ancor lo spagnuolo. Nè è meno curioso a considerare che tutti costoro immitarono di quel greco la parte appunto non immitabile, e ciò è la gara squisitamente ingegnosa ed anzi miracolosa tra caprari e bifolchi nel dire a vicenda versi improvvisi i più belli che mai scrivesse appensatamente nessun poeta. Gara forse stata possibile nelle campagne e fra’ costumi di Grecia, ma che la ignoranza e rusticità de’ nostri pastori cava al tutto dal verisimile. Invece, nessuno à corso la via la quale era aperta da qualche altro idillio di Teocrito, come per esempio dal quindicesimo intitolato le Siracusane, che è tanto vero e semplice quanto è vera e semplice la vita reale e ordinaria della gente mezzana di cui quell’Idillio fa bello e fedele ritratto. Ma quando Virgilio disavvedutamente scrisse quell’emistichio: silvæ sint consule dignæ, tale dignità consolare fece ai poeti girare alquanto il capo; e si misero tutti in sussiego ed in pretensione. Nè poi seppero, la più parte almeno, coprire con garbo sotto la toga i cenci de’ contadini e de’ pescatori, ma goffamente li mascherarono; e le selve, non so bene se diventarono degne dei consoli e dei monarchi, so che quali appariscono ne’ loro versi in niuna parte del mondo si trovano. Altra volta, se creder vogliamo a Servio, per altra mala fortuna, venne fatto a Virgilio di significare Roma sotto il dolce nome di Amarilli e Mantova sotto quello di Galatea. E tanto bastò perchè si stimasse, di dare sostanza e calore a certe freddissime e snervatissime egloghe aggiungendovi l’allegoria, che i retori antichi, invece, volevano