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xliv l’autore ai lettori.


Ma il genere pressochè creato da lui, fu egli buono ed eccellente in sè stesso e da durare perpetuo nell’ammirazione degli uomini? Di ciò è lecito a ognuno di dubitare. Conciossiachè quel genere nella sua sostanza riesce il più delle volte ammanierato, gonfio, eccessivo, incredibile. Esso abbaglia e brucia più ancora che non illumini e scaldi; e l’animo e la fantasia ne rimangono io non so bene se ricreati o storditi. Mi confermano forte nel dubio i numerosi ma infelicissimi seguitatori e discepoli di Giorgio Byron. E veramente, non rimanea loro che o sempre imitare e copiare, o crescere i difetti e gli eccessi del lor modello, e però farli non tollerabili. Appunto, come nella scoltura potè il Bernini meritar lode assai giustamente con quelle sue ardite movenze, con quegli svolazzi di panni e di veli, con quelle labbra e quegli occhj per la passione quasi contorti. Ma tutto ciò negli imitatori suoi divenne falso ed incomportabile.

Tali cose bene considerate, io venía ricercando più sottilmente se nel fatto la verità, la schiettezza e la sobrietà dell’arte fossero morte fra gli uomini; e quando morte, se aver non potessero risurrezione. Io diceva quindi in fra me: che dunque? la storia, dove lasci in disparte il più atroce ed il più deforme delle sue narrazioni, e dove non pigli fattezze posticcie e colori falsati, cosa alcuna non offre la quale basti per sè medesima a toccare i tre fini supremi dell’arte, che giudico essere il diletto, la erudizione e la migliorazione degli animi? E si stimerà il simigliante della vita privata e degli innumerevoli casi e accidenti che v’intervengono? Se io non muto natura, e se la forma della mia mente non si travisa, io non reputerò mai buona e savia cotesta sentenza, o ch’ella sia espressamente significata o che nella pratica del poetare ella venga più o meno seguíta e obbedita. A me riuscirà sempre impossibile di persuadermi