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l’autore ai lettori. | xlv |
che la nudità e la ingenuità del vero non sia ricolma di bellezza profonda ed originale; nè crederò mai che nell’ottima poesia debba in verun tempo cessare l’impero della temperanza virgiliana, o che il nuovo, il grande, il forte e il patetico debbavisi scompagnare dal semplice, dall’assegnato e dal decoroso; e infine, che senza mirar nello strano e nell’iperbolico non possa rinvenirsi materia cospicua e sufficientissima ad esercitare con diletto e proficuità la sensitiva e l’immaginativa così del popolo come degli spiriti culti e gentili.
Riconfermatomi, impertanto, in cotali massime che sempre sono state a governo della mia maniera di scrivere, posi in carta le due Eroide, le quali se tornano insufficienti alla trattazione varia e piena di quel genere antichissimo di poesia, bastano forse a indicare il modo com’io ne concepiva la ristaurazione ed innovazione. Non so il perchè, ma dipoi la famosa lettera di Eloisa a Abailardo dettata dal Pope e in più lingue traslatata, non conosco scrittore insigne a cui piacesse di scrivere Eroide. Eppure quella foggia di componimento mi comparisce bellissima e naturalissima; ed anzi da Ovidio a noi essa è divenuta mille volte più naturale. Perocchè si può dubitare e negare che Penelope sapesse vergare un foglio o farlo vergare ad alcuno schiavo, reputandosi dai più che gli eroi di Omero fossero tutti analfabeti e le lor donne ancor di vantaggio.
Ò allargato un poco i termini di cotesta forma di poesia, e forse l’ò guasta o come direbbe il reverendissimo Curci, l’ò ammodernata; ma parvemi di recarle maggiore efficacia e maggior varietà, facendo seguire più epistole l’una all’altra nell’ordine delle date, e intrecciando con esse alcun caso od azione che proceda contemporanea all’opera stessa dello scrivere.