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l’autore ai lettori. xxxv

AUSONIO.

Tanto l’amor proprio è tenace e così parziali i giudicj suoi, che l’essere stato questo componimento letto da pochissimi e lodato (che io sappia) da niuno pubblicamente, non basta per tormi dal capo anzi per radermi dalla coscienza il convincimento che in esso è qualche pregio e qualche bontà.

Dopo dieci anni d’esilio e vivendo appartato e più che mai solitario in Parigi, io soleva, il mattino, scegliere volentieri a termine del mio passeggio il Campo Santo di Montmartre, dove alla mestizia religiosa del luogo io mescolava quella che provenivami dalla lettura e meditazione di qualche volume pensato e scritto nel dolore e abborrente dalle piacevolezze e lusingherie del bel mondo. Carissima fra questi m’era la Bibbia, e fra le scritture di lei, il libro di Giobbe. Leggendo il quale più d’una volta e annodando le idee, giusta la disposizione singolare dell’animo mio, m’incominciò a parere che non poca parte di que’ concetti stesse molto propriamente sul labbro della misera Italia, e però sul labbro altresì di quegl’infelici e raminghi che nelle straniere contrade la rappresentavano ed erano tuttogiorno satollati d’umiliazione e alcuna fiata d’amarissimo scherno. Di qui si originò il mio Idillio; di qui il grandeggiare delle sue immagini e certa novità e robustezza di elocuzione; di qui, infine, l’espressione ardita e passionata che ritrovarono i miei travagliosi pensieri e il mio dolore verissimo e profondamente sentito. Io non so bene se i casi straordinarj del 48 abbiano come ecclissato nell’animo degl’italiani le forti querele e l’affetto generoso e iracondo che spira in quel mio componimento: ciò sole mi si rappresenta come sicuro, che nel 1842 (anno in oui fu