Fino a Dogali/Don Giovanni Verità
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DON GIOVANNI VERITÀ
Casolavalsenio, 25 dicembre 1885.
I.
Nella caduta non ero solo, ma fortunatamente fui solo ad azzoppirmi.
Ed ecco come avvenne.
Non so bene se raccontando questo ubbidisca alla ridicola ed inesorabile vanità, che ci spinge a farci centro del mondo e a trovare nella compassione o magari nel disprezzo della gente un sollievo ai nostri dolori. Soffrire non è nulla, e sarebbe forse invidiato, se tutti dovessero accorgersi delle nostre sofferenze e stimarci più di prima, e sopratutto più di sè stessi. La nostra personalità afflitta nel corpo cerca compensi nell’anima e, poichè questa vale più di quello, tira a credere e a far credere che gli spasimi fisici abbiano, per chi patisce e per chi vede patire, valore morale.
Invece non hanno significato che per la patologia.
Avvenne così.
La sera al caffè piccolo e fumoso, pieno di braccianti, dove vengo a passare la prima parte della notte quando villeggio a Casola, alcuni gruppi di giovinotti, vantando mandati di Società Operaie, erano venuti a scongiurarmi di rappresentare Casola ai funerali di Don Giovanni Verità. Il Municipio, dominato da tutte le bigotterie e le imbecillità proprie dei contadi, non osava andare a Modigliana. L’arciprete, il priore, i grossi elettori montanari sempre padroni, avrebbero urlato d’indignazione se Casola fosse stata ufficialmente rappresentata alle esequie di un prete, che aveva avuto il torto di salvare la vita a Garibaldi. Giù nella folla, invece, alcuni vecchi garibaldini e molti giovani socialisti strepitavano incolleriti da una inerzia che avrebbe reso Casola ridicola presso tutti i comuni della provincia. Infatti i paesi di val di Senio, val di Lamone e val di Santerno avevano aderito o si preparavano a mandare rappresentanti e bande musicali ai funerali dell’ultimo prete rivoluzionario. Nel caffè il puzzo del carbone, il fumo delle pipe, il sito degli abiti, il fiato del vino bevuto, la veemenza delle parole e dei gesti mozzavano il respiro. La marea dello sdegno saliva.
Tutti i piccoli e fanatici odii municipali soffiavano in questa questione, della quale nessuno capiva la vera importanza. In fondo a tutti gli elogi prodigati al vecchio prete si sentiva ancora una diffidenza, quasi un disprezzo che non osava analizzare sè stesso, ma che vibrava ad ogni ironia lanciata alla sua memoria da qualche scettico o avvinazzato. Don Giovanni era morto affermandosi prete, ma ricusando di smentire la propria vita politica per ricevere i sacramenti. I giornali della sera erano tutti pieni di commenti alla sua dichiarazione.
Io stavo leggendola. Non era gran cosa e non palesava nè un gran carattere nè una grande mente. Analizzandola attentamente molti sospetti ne venivano alla riflessione. Al capezzale di quel povero e semplice prete una fiera battaglia doveva essere scoppiata fra coloro, che mandati dal vescovado avrebbero voluto dal cappellano garibaldino una abiura di tutta la sua vita, e gli altri, rappresentanti officiali o officiosi del partito radicale, che dopo essersi serviti di Don Giovanni come di una catapulta per battere i molti bastioni del clericalismo paesano, avrebbero forse preteso da lui una dichiarazione d’incredulità.
Avevo finito di leggere i giornali e ascoltavo distrattamente i discorsi. In essi nè commozione nè sentimento vero. Molti vantavano il coraggio e l’abnegazione di Don Giovanni, nessuno lo stimava buon prete.
— Se ti fossi trovato in punto di morte, chiesi al custode del camposanto, tremulo per le sbornie di gioventù smesse un po’ troppo tardi e ora vecchio bonario agitato tratto tratto da impeti liberaleschi: avresti chiamato Don Giovanni?
Egli si fermò di soprassalto. La gente non ci aveva udito, ma la mia domanda lo aveva percosso nel petto come una piattonata di sciabola.
Agitò la testina calva e rossa, troppo rossa ai pomelli, gittando intorno un’occhiata diffidente.
— Filomena! gridai alla caffettiera: porta un bicchiere di acquavite a Venanzio.
Questa cortesia lo decise. Abbassò il volto, si strinse nelle spalle e coll’aria di chi confessa un secreto, che tutti sanno ed approvano ma niuno osa rivelare:
— Uhm! Io ho già deciso da un pezzo di chiamare il canonico.
E alludeva all’arciprete diventato canonico in Imola, già annunziato per vescovo, prete signorile e fanatico precisamente all’opposto di Don Giovanni.
Io sorrisi rivolgendomi per rispondere a un gruppo di giovani, che mi avevano già circondato.
Volevano andare a Modigliana collo stendardo della società operaia, poichè il Municipio rifiutava la propria bandiera, ma sempre per l’onore del paese avrebbero preteso un oratore. Io, convinto di molti libri stampati e di parecchie orazioni politiche, solo letterato del villaggio, dovevo prestarmi al loro bisogno. Ricusai. Non avevo e non dissi buone ragioni a ciò: ringraziavo dei complimenti. Essi insistevano esagerandoli; a Modigliana sarebbero convenuti d’ogni parte d’Italia rappresentanti, e quella era bene una circostanza propizia per me e per Casola. Un certo orgoglio paesano vibrava nelle loro frasi; la bontà delle loro intenzioni rendeva simpatica una insistenza già cortese di per sè stessa, e nulla meno una secreta inesplicabile ripugnanza m’impediva di acconsentire. Un non so quale terrore, un presentimento di sventura m’involgeva la coscienza.
Lo compresi più tardi.
Dovetti accondiscendere. Allora avrebbero voluto che prendessi meco in biroccino lo stendardo della società operaia per non portarlo essi sulle spalle faticando pei monti. Feci loro riflettere che la bandiera lunga come una partigiana, dal fodero vivace, sul mio biroccino rosso e piccolo tirato da una rozza veemente e semistorpia, avrebbe reso ridicolo in me il rappresentante, al quale tenevano tanto; mentre a una svolta di strada la punta della lancia avrebbe potuto cavare un occhio a qualche cittadino. Sorrisero e ne convennero.
Io sarei partito l’indomani, essi nella notte in drappello a traverso i monti.
E i discorsi proseguirono. Un vecchio garibaldino d’umore faceto e poetico, che aveva conosciuto Don Giovanni in una campagna con Garibaldi, si pose a raccontare degli aneddoti. In uno di essi, il più piccante, generale e cappellano avevano amato in comune una monaca della carità, gran signora francese, che avrebbe così trovato modo di sfogare con loro il proprio entusiasmo eroico e il proprio sentimento religioso. Il garibaldino leggermente avvinazzato narrava, inventando, i particolari più scabrosi dell’avventura; il pubblico credeva e commentava, dimenticando il riserbo di poco prima e giudicando finalmente Don Giovanni per uomo di coraggio, fortunato nell’essersi fatto un nome col salvare Garibaldi, ma di nessun ingegno e pessimo prete.
Non uno solo nel caffè che lo ammirasse e lo amasse.
Un altro lo paragonò a un prete del paese morto non era guari di apoplessia e vissuto sempre ubbriaco. Il paragone parve esatto. Nullameno qualcuno dei giovani socialisti protestò più per dovere che per sentimento; secondo lui Don Giovanni non era stato un vero prete, ne conveniva, ma tutti gli altri preti non erano veri uomini.
E la discussione deviò.
Sulle dieci tornai a casa. Un amico insisteva ancora per accompagnarmi a Modigliana; avevo acconsentito.
Quando fui solo seguitai a pensare a Don Giovanni. Avevo inteso il suo nome fin da ragazzo nei racconti di famiglia, lo avevo poi letto sovente nei giornali, udito sulle bocche del popolo ad ogni circostanza della epopea garibaldina, ma non avevo visto Don Giovanni che una sola volta.
Ed era stato a Faenza in un Comizio per la morte del Generale.
Il Comizio si teneva nel teatro Comunale. La sua sala piccola ma elegante malgrado alcuni capitali difetti di architettura, male illuminata da poche finestre aperte nei fianchi del palcoscenico, aveva in quel pomeriggio un’aria malinconica e quasi solenne. Una folla bruna e fremente, a volta a volta chiassosa, lo riempiva, lo stipava oscillando, vibrando, sollevandosi, abbassandosi in movimenti ritmici che la facevano assomigliare ad un’inondazione. Tutti i palchi ceduti buono o malgrado dai proprietari erano zeppi di uomini e di ragazzi, che si ammucchiavano sui parapetti, s’ammonticchiavano dietro sui sedili, avvolti nell’ombra cupa della tappezzeria mostrando talvolta la faccia biancastra per un raggio che cadeva di sbieco. Una ondulazione li faceva ogni tanto curvare la testa verso la platea per rialzarla poco dopo verso il loggione con atto curioso ed insieme pauroso. Gli abiti a festa erano generalmente scuri, i cappelli a cencio. Le fisonomie in tale luce non si coglievano, ma si sentiva come una fisonomia generale, un fondo di lineamenti, che rimaneva fermo in quella mezza tenebria e faceva che tutti si rassomigliassero: e, doloroso a confessarsi, l’aspetto del popolo non era bello. Tutte quelle faccie chine, strette, che sembravano toccarsi nella luce scialba filtrante dagli invisibili finestroni laterali del palcoscenico, avevano perduto il rilievo della propria individualità per non parere più che un allineamento di chiazze, nelle quali un giallore di carta pecora sembrava mettere un’ultima verità di malattia. I visi così spiattellati non conservavano che gli occhi, i capelli e le barbe: qualche sorriso o qualche urlo in un angolo aprendo una bocca lasciava brillare fugacemente una bianchezza di denti entro una oscurità più piccola e più densa; molte cravatte rosse mettevano sulle vesti certe righe di sangue che il balenìo bianco delle fibbie di acciaio sui cappelli, simile a un balenìo d’armi, avrebbe potuto a una fantasia troppo eccitabile spiegare sinistramente. La folla strepitava scherzando con tale veemenza che sembrava di minaccia. E non vi erano o non si vedevano signori. L’impressione era di una immensa plebe, sciaguratamente vestita a festa e quindi anche più brutta, che aveva tutto inondato con un senso feroce di conquista. La gente cacciatasi nei palchi non vi si poteva calmare, inebbriata di quella specie di sfregio fatto intenzionalmente ai padroni assenti, troppo timidi per difendere i propri palchi, mentre il Municipio, vile al solito in faccia alla folla, aveva persino ceduto i palchi non suoi.
Le vanterie dell’assalto rimbalzavano da palco a palco ora che tutti erano rivoluzionalmente occupati. Molte mani gesticolavano per aria in segno di trionfo o agitavano cappelli: parole oscene scoppiavano, affermazioni superbe di monelli che gremiti nel palco della Prefettura e della Giunta municipale vi assumevano con grazia scimmiesca atteggiamenti gravi di magistrati, ma per lanciare subito altre urla di gazzarra, ricomponendosi a un rimbrotto inaspettato, accendendo tutti i razzi di un riso inconscio e strepitoso, pel quale l’aspettazione di quanto deve succedere vale più di quanto succederà. Poi le figure accigliate e le pose impettite dei ribelli importanti sempre in agguato per cogliere una circostanza nella quale mostrarsi e che disseminati nei palchi col piccolo cappello floscio sull’occhio sogguardavano con occhiate brevi di padroni, assorti in un raccoglimento di oratori che si dispongano ad improvvisare, o vigili in una curiosità d’impresarii che temano per il proprio spettacolo. Fra di essi brillavano a forza di medaglie le vanità legittime, ma appunto per questo meno simpatiche, dei veterani garibaldini col cappello sormontato da penne, affettanti nell’orgasmo di tutti una boria che la grandezza dei fatti compiuti poteva certamente giustificare, ma che la semplicità eroica del loro modo non consentiva; e questi fra la nuova folla dei giovani rivoluzionari, ai quali Garibaldi non piace più, sembravano dispersi, talvolta incoraggiati da sorrisi, tal’altra rattenuti dal sarcasmo di una occhiata o di una parola.
A mano a mano che il teatro si stipava, cresceva il rumore. Il primo ordine dei palchi, quantunque gli usci ne fossero aperti, era stato invaso dai parapetti; la gente arrampicatasi sul basamento vi si era lanciata strepitando, cadendo a grappoli sui sedili, brancicando le tendine, strappando e ridendo. Pareva una festa. Agli altri ordini, i primi arrivati s’erano chiusi nei palchi e ricusavano d’aprire agli ultimi. Pochi o nessuno fra i proprietari invece aveva però osato far questo o, facendolo, aveva ceduto il posto d’onore a qualcuno della plebe come a un parafulmine che dovesse difenderlo in caso d’uragano nella platea o nel loggione. Quindi rintronavano pugni negli usci, urla di minaccia e di scherno. I conquistatori già calmi nel diritto fondamentale della proprietà, l’occupazione, sentendo percuotere sulle porte si voltavano dai parapetti con sorrisi di sprezzo o guardavano per le griglie e, se per caso era un proprietario diventato coraggioso per curiosità, si consultavano sul caso e finivano quasi sempre per aprire. Ma il proprietario doveva restare nel fondo del palchetto. Tra il frastuono della gente che strepitava per strepitare, così ingannando il tempo dell’attesa, si coglieva l’insistenza di certe voci, ed erano di compagni che dispersi nell’impeto dell’ingresso in teatro tentavano invano di riunirsi, giacchè abbandonando il proprio posto si era bensì sicuro di perderlo, ma non già di riguadagnarne un altro.
Molti invece si drizzavano gettando un grido, tentando un gesto nello spasimo di attirare l’attenzione della folla, e vinti dalla penombra che spesso non li lasciava più nemmeno riconoscere, dalla agitazione di tutti che non badava ancora ad alcuno, ripiombavano sopra sè stessi con certi atti di scoraggiamento, nei quali osservando da vicino si sarebbe forse notato del rancore.
Al quarto ordine ammirabile per disegno, uno dei più belli dell’architettura italiana, coi vani dei palchi quasi in quadro, i parapetti bassi bassi, i tramezzi nascosti da statue di eccellente stile decorativo, la folla si era stipata a piramidi, gli uni sulla schiena degli altri, di maniera che i primi appoggiati col petto sul davanzale sembravano dover soffocare, ed invece ciarlavano. Altri sporgevano temerariamente col busto e avevano gesti da nuotatori guardando in basso, o aggrappati agli stipiti accennavano di passare da palco a palco sullo spessore dei cornicioni, o afferrati ad una statua vi facevano un’oscena macchia nera. Un’immensa allegria saliva dalla fitta platea, s’insinuava nei palchi, scorreva per le corsie, gorgogliava, ricadeva straripando dal loggione. La moltitudine disoccupata e sovrana di sè, non avendo nulla a fare e niuno cui obbedire, sentiva istintivamente la comicità della propria situazione; cominciavano già le ironie al comizio eccitate dai significati che la varietà dei palchi attribuiva agli invasori. In quello del Prefetto, un gruppo di ragazzi, più numeroso e compatto del Consiglio Comunale, rappresentava, momentaneamente il Governo: nell’altro della Giunta un’orda di beceri sghignazzava intorno ad un piccolo borghese ingenuamente repubblicano, capitato al comizio come in duomo e che spaventato dal baccano aveva presa la più mortificata delle fisonomie. La platea se ne era accorta, e rideva. Nel palco della deputazione teatrale due lavandaie, le sole donne che si vedessero al comizio, ne rappresentavano apparentemente anche la sola pulizia.
— Sei brutto! tuonò improvvisamente un vocione, e si vide un gesto indicare un ometto calvo, dalla faccia ignobile e cadaverica, che occupava in un palchetto del secondo ordine il posto della più bella signora del paese.
Tutti capirono a volo l’allusione del confronto, ed applaudirono.
Egli comprese, arrossì, avrebbe voluto fuggire, ma i compagni lo rattennero fischiando.
— Viva Garibaldi!
— Viva Mazzini!
— No, viva la comune!
— Viva Garibaldi e la rivoluzione sociale!
— Viva Garibaldi!
E questo nome dominava, riuniva tutti gli evviva. Una frase, nella quale si distinse solo la parola carabina, suonò e si perdette nel frastuono del loggione. Poi si intesero fuori lontano degli squilli di fanfara e un fremito corse in tutte le persone, che si voltarono istintivamente alla porta. Il corteo, che avrebbe dovuto formare il vero comizio, si avvicinava e il teatro era già pieno.
E dalla porta tutti gli sguardi si riportarono sul palcoscenico. Una scena calata in fondo lo lasciava in tutta l’ampiezza del suo vano. A sinistra una luce filtrante da un vicolo per gli aperti finestroni lo illuminava melanconicamente. La tela, che lo chiudeva in fondo, rappresentava una parete di camera aristocratica colla porta tutta ornata di goffi rabeschi: due ritratti degli antenati comuni a tutte le commedie, un cavaliere del secolo passato in cappellaccio piumato e bavarina bianca, e una dama scollacciata, in abito rosso orlato di merletti bianchi, lo fiancheggiavano; e al di sopra della porta un piccolo quadro chiuso in una povera cornice dorata rappresentava Garibaldi. Il Generale era dipinto colla berretta in capo, avvoltolato nell’immenso mantello cilestro. La sua testa rimasta bella attraverso le falsificazioni di tutti i ritratti si distingueva male, e nullameno tutti la riconoscevano e a tutti quella nobile e semplice fisonomia faceva la stessa impressione. Non uno degli schiamazzatori che, voltandosi al palcoscenico ed incontrando quello sguardo immaginario, non smettesse di vociare colto da un senso affettuoso e pauroso di rispetto. Sotto al ritratto del Generale, più innanzi verso la ribalta, una lunga tavola coperta di un vecchio tappeto mezzo lacero, prestato dalla generosità del Municipio, aspettava il Comitato del comizio: una poltrona interrompeva a mezzo la fila delle sedie imbottite promettendo nel Comitato un personaggio, che nessuno ancora conosceva. La poltrona era di un rosso sbiadito e bisunto.
Chi mai l’avrebbe occupata?
Questa domanda, che mi rivolgevo mentalmente, la sentii ripetere più volte intorno a me.
Sulla tavola quattro candelabri d’argento a tre branche cariche di candele steariche, che sgocciolavano sotto il vento delle finestre imitando la fiamma delle torcie, non accrescevano per nulla la luce al palcoscenico. Pochi individui vi passavano ancora, forse incaricati della polizia del comizio, faccendieri vestiti anch’essi a festa e tutti superbi di occupare momentaneamente la scena destinata agli oratori e ai principi del Comitato.
Gli squilli della fanfara si avvicinavano sempre; la moltitudine si era calmata improvvisamente.
Dal mio palchetto di secondo ordine, già abituato alla poca luce della sala, non perdevo una fisonomia della moltitudine. Il grosso e bel lampadario solito ad illuminare il teatro era scomparso dietro il zodiaco della vôlta lasciando libera in giro la vista dei palchi. L’aria era calda, la gente già in sudore si asciugava le fronti.
— Viva Garibaldi!
— Viva l’Eroe! s’intese dal loggione.
In quel momento le fanfare entravano nell’atrio del teatro, e una colonna compatta, irresistibile sfondando la folla accalcata sulla porta della platea, si dilatava dentro la sala in torrente. Il corteo era arrivato. Quasi contemporaneamente dalle quinte a destra del palcoscenico irruppe un’onda di bandiere. La musica era cessata forse per la impossibilità di mantenere le bande allineate nelle corsie, ma le ultime note dell’inno garibaldino vibravano ancora nell’aria. Un immenso fremito corse nel teatro. Tutti quegli stendardi dalle lancie dorate, dai colori vivaci ondeggianti, che sfilavano e s’accalcavano sotto il ritratto del Generale, benchè appartenenti a pacifiche società operaie, parvero parlare a tutti di battaglie; e i sibili della seta, i riverberi delle frangie, l’addossarsi dei gruppi che per la esiguità dello spazio si scomponevano entrando l’uno nell’altro mentre i vessilli oscillavano, le trombe finalmente arrivate lanciavano gli ultimi trilli e la luce intercettata da tutto quel tumulto si velava, sembrarono comunicarlo alla folla. Le bandiere erano così alte e folte che il loro panneggiamento copriva tutto lo sfondo intorno al Generale. Le fantasie s’infiammarono, i cuori batterono. A tutti sembrò che quel ritratto si animasse. Le memorie delle cento battaglie vinte, degli eroismi prodigati, ripalpitarono in fondo a tutte le coscienze, mentre una bontà di commozione dolorosa e superba, riavvicinandole, traeva un urrah irresistibile da tutti i petti.
La figura di Garibaldi saliva fra le bandiere in una luce tragica di crepuscolo.
Tutte le miserie e le ridicolaggini inseparabili da un comizio popolare erano scomparse: egli solo restava, e la dolcezza del suo occhio azzurro che nessuno vedeva e tutti sentivano, la semplicità epica del suo abbigliamento così simile alla sua vita e alla sua morte, sollevarono da tutti i cuori come un immenso peso.
Ma improvvisamente si fece un gran silenzio.
Garibaldi era morto, quelli erano i suoi funerali!
Forse fu illusione, ma mi parve che tutti fossero impalliditi; certo tutti istintivamente si erano levato il cappello.
Nessuna voce, nessun evviva osava rompere la solennità di quel rispetto.
Intanto mutamente, compostamente, il Comitato del comizio si disponeva intorno alla tavola.
Quindi al rilassarsi di quella tensione troppo forte s’intese nel teatro il sommesso rumorio della gente che si accomodava quanto meglio poteva per assistere a una lunga ed interessante rappresentazione. Tutta la platea, poichè ne erano state levate le panche, stava in piedi così densa che nemmeno un grano di miglio cadendovi, secondo il vecchio proverbio, avrebbe toccato l’assito; nei palchi la ressa s’era acquetata subitamente: appena qualche moto provocato dalla positura insostenibile di uno spettatore vi si coglieva e cessava. Volsi un’occhiata in giro. Tutto il teatro rigurgitava. La folla, impossibile a credersi e a descriversi, era raddoppiata: al quarto ordine molti individui si reggevano alle statue. Ercole aveva un cappello nero sulla testa, Nettuno ne teneva un altro sul tridente.
Si aspettava.
A fianco della gran tavola un’altra più piccola era occupata dalla stampa: intorno al Comitato seduti, stretti, incredibilmente stretti, tutti gl’invitati e i rappresentanti delle società romagnole democratiche stipavano il palcoscenico. Molte teste espressive spiccavano, molte medaglie lucevano sui petti. Cercai cogli occhi Giuseppe Cesare Abba, eroica e gentile figura di troviero diventato poi lo storico della spedizione di Marsala, la sua prima campagna di giovinetto: ma non lo vidi. L’anno dopo egli solo parlò del Generale, alla commemorazione della sua morte, in un discorso che fu un canto di allodola interrotto da strida di aquila.
I rettori del comizio sembravano agitati. Alcuni erano calvi, altri canuti, nessuno aveva sembianza di soldato, tranne l’ultimo a sinistra, un fornaio, bella figura di littore romano, tozzo ed energico, che non potendo restar seduto era venuto a postarsi presso l’ultima bandiera e gladiatoriamente atteggiato pareva quasi pronto a brandirla al primo impeto di rivolta. Vicino alla poltrona centrale occupata da un signore ventruto, il sindaco giallo, sottile come una distinzione scolastica, floscio si accasciava sul tavolo cercando fra alcune carte che erano forse telegrammi. Alla sua sinistra la testina viva, oramai bianca ai capelli e tutta rossa al viso di un medico toscano, vecchio democratico dalla frase violenta e dall’accento gentile, si torceva vivacemente parlando con chi le stava dietro.
Degli altri le fisonomie svanivano nella penombra.
E il comizio cominciò colle solite agghiaccianti formalità.
Ma quando uno degli oratori si trasse leggermente in disparte e col braccio spinse innanzi una figura nera, recalcitrante, e con enfasi di voce gridò:
— Ecco Don Giovanni Verità, il salvatore di Garibaldi!
La scossa nel pubblico fu così violenta che produsse come un tuono.
Primo il Comitato si era levato, e dietro lui tutti gli invitati avevano fatto altrettanto. Le bandiere salite più alto del ritratto del Generale squassavano guerrescamente e tutti dalla platea, dai palchi, dal loggione, protesi coi cappelli in mano gesticolando, urlavano con un impeto, uno scroscio irrefrenabile ed onnipotente. La violenza dell’urrah era tale che quasi vi si sarebbe sospettata della collera. Cresceva sempre, saliva di tonalità arrivando allo spasimo dell’impotenza, mentre le voci meno robuste strozzate dallo sforzo rantolavano o guaivano e nei gesti cominciava come un tremito di disperazione. Ma l’urrah aumentava ancora, come un vento che sollevava tutti i cappelli, investiva le bandiere, agitava le fiamme dei candelabri, ruggiva nella penombra dei palchi, s’ingolfava nelle corsie, urtava nella vôlta e, riabbassandosi, strisciava su tutti i palchi, e tutti vi sorgevano per lanciarsi nella sala, di cui la folla sollevata da un conato incomprensibile si premeva contro il parapetto del palcoscenico e stava per soverchiarlo.
In quell’urlo nessuna parola era possibile, nessun gesto intelligibile.
Poi tutte le bandiere, alte dinanzi al ritratto del Generale, quasi sventolanti al vento di quell’ululo oceanico, si abbassarono contemporaneamente come per istinto colle lancie verso la testa del prete, scoprendo il ritratto del morto Generale.
Erano gli stendardi di cento vittorie, che si chinavano a toccare la veste del prete che aveva salvato il vincitore. Non si videro più che la testa del Generale olimpicamente sorridente e la testa del prete curva come le bandiere, quasi nel dolore di averlo invano salvato, poichè alla fine il Generale era morto.
Perchè dunque applaudire? Garibaldi era morto!
Le bandiere sempre più chinate parevano cadere, il volto del prete piegato sul petto si era coperto di un pallore cadaverico.
Era la festa della morte.
Garibaldi era morto, Don Giovanni non tarderebbe molto a morire.
Lo osservai.
Benchè tutti fossero ritti intorno alla tavola, la sua figura spiccava singolarmente. Non era nè molto alto nè molto grosso, ma si sentiva ancora in lui una vigoria senile, che rendeva facilmente credibili tutte le avventure eroiche della sua gioventù. Il suo soprabito nero da prete non differiva quasi più dagli abiti degli altri signori del Comitato, ora che la testa china tristamente sul busto gli nascondeva il collare.
Capelli grigi e duri la coprivano così che la chierica vi si distingueva appena. Una profonda commozione lo sopraffaceva. La bufera dell’applauso passando sopra la sua testa, pareva piegarla senza scuoterla, mentre le bandiere curve al pari di lui sotto lo sguardo del Generale in una tragica stanchezza ubbidivano forse al medesimo irresistibile senso di morte, che l’entusiasmo soldatesco di quella ovazione non vinceva più.
Io lo osservavo.
Le sue mani ossute, brune dal sole di tutta una vita di caccia, e più scure in quella penombra, tremavano sul cappello da prete posato ingenuamente sul tavolo: lo sforzo come di un singhiozzo represso gli sollevava a volta a volta le spalle. Improvvisamente con atto affaticato, disperato di naufrago, sollevò la testa.
Era un bel volto nero di contadino dai lineamenti angolosi, livido in quel momento e nullameno impresso d’una grande aria di bontà. La fronte naturalmente bassa erasi alquanto alzata in un principio di calvizie, che pel colore più bianco della pelle la cingeva come di una benda; l’arco dei sopraccigli vigoroso e sporgente ombrava senza nasconderlo il suo sguardo scintillante di cacciatore. Tutto il volto raso e rugoso tremava di una commozione, che metteva come un sorriso in tutti i suoi lineamenti modellati robustamente sulle ossa. Gli zigomi erano sporgenti, il mento quasi quadro come negli uomini capaci di forti azioni, gli occhi rotondi, il loro colore non si distingueva, acuti e vibranti come quelli di un falco. Ma la sua bocca colle labbra di un rosso cupo di mattone lasciava vedere i denti ancora bianchi a traverso un sorriso timido, che i fremiti di quel trionfo scomponevano ad ogni istante.
Stava piegato, ma era naturalmente un poco curvo.
Le sue spalle larghe e quadre si erano leggermente incurvate col peso degli anni; nullameno ognuno di quel popolo osannante avrebbe potuto ancora salirvi senza piegarle maggiormente. Garibaldi vi era montato per guadare un fiume rigonfio e lo avevano portato asciutto ed incolume all’altra riva. Era stato in una fosca notte di temporale scelta abilmente dall’eroico prete.
Se ne ricordava egli in quel momento, mentre tutta Faenza applaudiva e tutta l’Italia fremente e l’Europa stupita ripetevano il suo nome raccontando l’epico aneddoto di quella notte? Quando nel buio di quella tempesta notturna, al mattino della quale era così facile essere sorpresi e fucilati, giunti in riva al torrente aveva imposto a Garibaldi, l’intrepido marinaio invano recalcitrante, di salirgli sulle spalle colle semplici e superbe parole:
— Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio fiume! e si era lanciato nell’ombra entro l’acqua furiante: aveva egli pensato che verrebbe un giorno, nel quale tutto il mondo lo ringrazierebbe, e che la storia scriverebbe il suo nome sulla pagina breve e luminosa degli eroi di questo secolo?
Lo guardavo attentamente: ebbene, giurerei che anche allora egli era semplice ed ingenuo come in quell’istante nel quale rischiando la propria vita si era appena accorto del pericolo. Nessun orgoglio, nessuna spavalderia gli venivano da quel trionfo, nel quale tutti ingrossavano forse la voce per la speranza di farsi notare. La teatralità di quella scena antipatica malgrado la sincerità della commozione generale gli sfuggiva interamente; il suo volto restava tranquillo, le sue mani non facevano un gesto, mentre il suo orecchio sembrava non udire alcuno dei mille complimenti che i più vicini gli susurravano.
Tutti gli invitati del palcoscenico si erano stretti intorno a lui: nessuno osava toccarlo con una mano, ma le spalle e i volti si premevano sul suo. L’umiltà della sua posa umiliava quella gente tanto a lui inferiore e così superba del proprio strepito. Se tutti non volevano essere ringraziati, tutti avrebbero almeno preteso che egli sentisse per un minuto la sincera grandezza di quel trionfo meritato da tutta la sua vita.
Una profonda emozione s’era impadronita del mio animo.
Era dunque vero che tutti gli eroi fossero semplici e tutte le feste volgari? Nessun popolo per quanto buono o ingenuamente commosso, stringendosi colle lagrime della riconoscenza o col singhiozzo dell’entusiasmo intorno ad un eroe, non giungerebbe dunque mai a toccare la sua anima, poichè nella meraviglia universale per la propria azione questi sentirebbe la bassezza della umanità e l’insufficienza di ogni grandezza individuale?
L’umanità è dunque ben piccola se gli eroi sono così grandi!
Ma Don Giovanni alzò finalmente il capo. Il semicerchio delle bandiere si era stretto in quel tumulto intorno ai capi della tavola, cosicchè una arrivava quasi a toccarlo colla lancia dorata. Egli la vide, corse collo sguardo su tutte le altre, che gli si appuntavano quasi al petto, cercando ansiosamente il Generale.
Garibaldi era là, vestito come nelle battaglie, sorridendo come da vivo in faccia alla morte, come un immortale per cui le follie della gratitudine o della sconoscenza non hanno più valore, buono ma altero, ora che il genio della sua vita, compiuta l’opera, era salito nella storia.
— Viva Garibaldi! tuonò la moltitudine, che comprese per istinto quello sguardo di Don Giovanni.
Don Giovanni si volse, aperse la bocca, fece un gesto vivace, urlando forse un viva Garibaldi che non s’intese e ricadde seduto, quasi intendendo così di scomparire nella gloria del generale che aveva salvato, dell’amico che aveva perduto.
Il comizio proseguì.
Molti oratori parlarono commentando la vita di Garibaldi, ma il popolo restava freddo, malgrado la voglia che tutti avevano di commuoversi e di applaudire. I discorsi male concepiti, peggio pronunciati, fors’anco poco intesi passavano nel silenzio del pubblico come un mormorio insignificante. Le bandiere ritte intorno al ritratto del Generale non squassavano più, l’inno dell’epopea garibaldina era cessato da un pezzo. I suonatori borghesemente vestiti non si discernevano nella folla.
Al banco della stampa i giornalisti scrivevano con atteggiamenti e velocità di copisti.
E appena un oratore finiva ne sorgeva un altro: parevano una nidiata di pulcini uscenti dal pollaio per pigolare intorno al cadavere di un’aquila.
Che ne sapevano essi di quest’aquila, che aveva visitato tutte le terre, valicato tutti gli oceani, gridato vittoria sull’albero di cento navi, sulle torri di cento fortezze, sulla cima di cento bastioni, sulle Alpi e sulle Cordigliere, sul Campidoglio e sull’Etna, aspettata e conosciuta da tutti i popoli? Che ne sapevano essi di quest’aquila così tremenda e così mite, così indomabile e così mansueta, che figlia delle aquile romane e napoleoniche aveva lacerato l’aquila bicipite d’Asburgo fra gl’inni di tutti i poeti e gli anatemi di tutti i papi, mentre al suo strido i falchi della plebe rispondevano esultando dai tetti e i gallinacci della borghesia fuggivano chiocciando per i cortili a riparare nelle stalle?
Che ne sapevano essi?
Quale dei molti garibaldini accalcati nel teatro aveva una coscienza chiara ed intera della epopea cui aveva preso parte? Chi aveva capito il significato delle sue battaglie così piccole militarmente e delle sue vittorie moralmente così grandi?
In questo secolo che comincia con Napoleone e si chiude con de Moltke, perchè Garibaldi un soldato quasi di ventura che comandò sempre pochi battaglioni, un ignaro che dalle scuole non apprese nulla e alle scuole non lascia nulla, che veniva non si sa donde e andava dove pochi, oggi egli morto, sanno ancora: che predicava la pace in mezzo alle battaglie, creava una nazione con una piccola orda di armati, fondava una monarchia affermando una repubblica, regalava libertà ai popoli e reami ai re, conquistava una patria agl’italiani e perdeva la propria, rovinava il papato in faccia al mondo e assicurava la repubblica francese contro l’Impero germanico, moriva a Caprera nudo e povero come lo scoglio al quale nudo e povero aveva approdato: perchè Garibaldi che i centurioni degli eserciti stanziali deridevano, che i ministri spregiavano, che i popoli stessi sembravano abbandonare, perchè morendo diventava così incredibilmente grande e soverchiava Napoleone e Moltke, e tutti dall’America adolescente all’Asia decrepita, dall’Europa ancora centro della civiltà all’Africa ancora teatro della preistoria, dall’Australia che essendo una terra non è ancora potuto diventare un paese; perchè tutti dalle steppe della Russia dove un vero dispotismo schiaccia alle officine d’Inghilterra dove una falsa libertà assassina, dalle foreste germaniche ancora dominate da castelli feudali ai monti spagnuoli ancora ammalati di conventi cattolici, dalle isole che il mare fece libere e altere alle immense valli continentali tuttavia ombrate da millenarie monarchie; perchè da tutti i poveri, da tutti gl’infelici, da tutti i poeti, da tutti i prodi, da tutti i lavoratori, da tutti i pensatori, da tutti i giovani che anelano alla vita non conoscendola, da tutti i vecchi pronti ad abbandonarla avendola troppo conosciuta, scoppiava il medesimo sentimento, erompeva il medesimo urlo: Garibaldi non può essere morto, non deve essere morto, non è morto: evviva Garibaldi!
Forse appunto perchè era morto allora allora, nessuno poteva anco riconoscerlo bene.
Pochi sono gli occhi capaci di abbracciare tutto un paesaggio trascorrendolo, meno ancora gl’ingegni così larghi da comprendere tutto un fatto nel quale abbiano vissuto ed agito.
Come ogni vero grand’uomo, Garibaldi è un immenso viluppo di contraddizioni, che la sua anima unificava, ma nel quale gli altri si perdono analizzando.
Gli oratori del comizio non vi si smarrivano nemmeno perchè non vi arrivavano.
Nessuno di loro si chiedeva il significato della nostra risurrezione, il perchè l’Italia e la Grecia dopo diecine di secoli riapparissero nel mondo col nome di nazione, mentre nella storia come nella vita non vi sono e non vi possono essere risorti. Quali idee riapportavano dunque la nuova Italia e la nuova Grecia? Come dalle sue generazioni decrepite, per replicate infusioni di sangue barbaro e di idee civili, era sorta un’altra gente? Quale secreto veniva essa a rivelare? Dov’erano i segni della sua nuova vita, i testimoni della sua legittimità? Nell’attuale civiltà, che mischiando tutti i popoli ha fusi tutti i caratteri, certo è ben più difficile il distinguere le nazionalità spirituali che non nella storia antica ancora senza unità apparente e tutta occupata dall’antagonismo delle razze onde era composta: ma poichè la storia è una tragedia, nella quale ogni popolo è un personaggio che deve avere qualche cosa a dire o a fare, bisogna pure riconoscerli tutti sotto pena di non comprenderne alcuno.
L’Italia moderna deve avere quindi alcuni uomini grandi diversi da quelli che formarono l’Italia antica, perchè nella storia non vi sono duplicati e ogni grande vi è fatalmente originale. Quali erano dunque le figure veramente nuove dell’ultima Italia? Da quali caratteri derivava la loro originalità? La nostra rivoluzione figlia del 89 perchè aveva tardato mezzo secolo a prodursi e che cosa aggiungeva ai principii che l’avevano creata, al disegno storico nel quale entrava? Conchiusa entro la monarchia costituzionale dei Savoia, la più vecchia, la più abile se non sempre la più illustre e generosa delle case dinastiche d’Italia, non aveva certamente avuto origine monarchica, mentre tutti gli eroismi di pensiero e di azione, coi quali aveva trionfato, sembravano aspirare a una forma più alta e più pura di governo: e nullameno una piccola monarchia montanara, della quale le ultime tradizioni erano meno che gloriose, l’aveva costretta nel proprio àmbito, coordinando il suo impeto e profittando delle sue vittorie, logorando il suo entusiasmo e organizzando i suoi bisogni, uccidendo il suo ideale e rianimando i suoi interessi.
Se la forma monarchica aveva vinto sulla repubblicana, la vittoria era legittima, poichè nella storia i deboli e quindi i falsi non vincono mai; non pertanto questa vittoria poteva bene non aver creato la forma definitiva della rivoluzione, se alla morte di Garibaldi, il vinto volontario, i vincitori non osavano fiatare e tutto il popolo si levava altero in faccia alla monarchia, che aveva seppellito nella volgarità di un immenso trionfo artificiale il proprio re.
Vittorio Emmanuele dormiva sotto la vôlta del Panteon, deformato a tempio cristiano, in un silenzio di abbandono che i passi della guardia d’onore rompevano soli; ma Garibaldi vigilava ancora sullo scoglio di Caprera e Mazzini intendeva dai colli di Staglieno, mentre Cavour che li aveva entrambi avversati e battuti, riposava quasi dimenticato nel santuario di Superga.
Questi, forse il più destro e profondo politico di questo secolo, afferrando subitamente l’antitesi di una temporanea necessità monarchica nel moto repubblicano, vi aveva soverchiato le due massime figure, senza riuscire vincendo a mettere nel proprio governo un’anima schiettamente rivoluzionaria e moderna. Tutti, aderenti e ripugnanti, avevano sentito nella fatalità di questo processo che la repubblica era immatura, ma che la monarchia non poteva essere longeva. Quindi gl’interessi sopraffecero i sentimenti, Garibaldi riparò a Caprera e Mazzini rimase nell’esilio. Ma in essi solo era la vitalità e la legittimità della nuova Italia.
Italiani come l’Italia non ne aveva più avuto dopo Dante e Michelangelo essi furono mondiali: nel piccolo moto nazionale riassunsero tutti i principii dell’evo moderno, vincendo in Italia le loro vittorie appartennero a tutto il mondo. La rivoluzione del 89, che dopo l’Impero napoleonico la Francia non aveva potuto continuare fuori di sè stessa, ridivenne per opera loro universale. Se l’Italia non avesse prodotto Mazzini e Garibaldi non sarebbe risorta: essi furono i rappresentanti della sua terza giovinezza che ricominciava un’era nuova pel mondo. Quindi tutti i popoli se li appropriarono. Ogni moto liberale della prima metà di questo secolo si fece nel loro nome, per tutte le sconfitte ci fu del loro sangue, in tutte le vittorie ci fu del loro genio. La razza latina che aveva fatto la rivoluzione in Francia con Danton e distrutta l’Europa feudale con Napoleone, creava l’Europa liberale con Garibaldi e con Mazzini; mentre il suo antico genio dell’impero insegnava a tutti con Cavour la disciplina necessaria alla rivoluzione per riuscire feconda nelle inevitabili transazioni storiche. Ma Cavour ebbe molti rivali in questo secolo, benchè nessuno di loro potesse poi forse vantare risultati simili ai suoi, e Gladstone in Inghilterra, Bismark in Prussia, Frère Orban nel Belgio, Gambetta in Francia mostrarono nelle combinazioni parlamentari e diplomatiche un ingegno e una scienza certo non inferiore alla sua.
La rivoluzione italiana però rimase e rimarrà eternamente incarnata in Garibaldi e in Mazzini: Ercole e Prometeo, tanto maggiori oggi di quanto il mondo antico greco è inferiore al mondo moderno.
E il comizio finì freddamente.
Me ne ricordo: il pubblico era accigliato, quasi triste.
Aveva veduto il volto di Garibaldi in un ritratto, non aveva sentito l’anima di Garibaldi in nessuno di quei discorsi che avevano durato quasi due ore.
Don Giovanni era dileguato fra la folla.
Non lo vidi più.
Quella notte dopo la sua morte, ritornando dal caffè, pensai lungamente a Don Giovanni. La sua villica e schietta figura mi si presentava al pensiero in tutti i racconti della sua vita. Lo vedevo cinto di contrabbandieri trafugare ai confini della Toscana i rivoluzionari romagnoli, vestito di una piccola giacca col fucile sulle spalle: lo vedevo prete al letto dei malati, al banco degli sposi, agli altari delle chiese: lo ritrovavo cacciatore sui monti col gabbione sulle spalle, a sera innanzi la piccola casa curando gli uccelli nelle gabbie assistito dagli stessi monelli che lo aiutavano nel paretaio; lo seguivo nelle caccie alla lepre. Era un semplice e un forte. Alla mattina dissi che sarei partito per Modigliana.
L’amico che doveva accompagnarmi era un giovane signorile, fanaticamente liberale, che mi aveva spesso aiutato a ricopiare i libri che do alle stampe.
La giornata brumosa e fosca accennava a piovere. Nullameno, attaccammo il ronzino e partimmo. I monti in quella melanconia dell’autunno parevano più belli: i campi erano già seminati e i boschi cominciavano a perdere le foglie. Discendemmo a Riolo, dove molti che si disponevano a partire per Modigliana ci salutarono; erano tutti giovani eccitati che parlavano entusiasticamente di Don Giovanni. A poche miglia da Riolo calando verso Castel Bolognese ci trovammo davanti una lunga fila di biroccie cariche di legna: i birocciai, che al solito camminavano loro innanzi un cinquanta passi, si rivolsero al tintinnío delle nostre sonagliere, ma invece di ritornare ai loro cavalli per darci il passo seguitarono ciarlando. La strada non molto larga era quasi chiusa dalle biroccie. A sinistra le loro ruote rasentavano i mucchi della ghiaia preparata per l’inverno, a destra lasciavano un piccolo vano; misi il cavallo al passo, e riconoscendo inutile ogni appello ai carrettieri tentai di passare. Lo stretto era minimo ma sufficiente: però quando il mio cavallo arrivò colla testa alla groppa del cavallo da bilanciere della prima biroccia, questo si torse come per sferrargli un calcio. Il mio indietreggiò, una ruota scivolò dal ciglio della strada. Il cavallo, sentendosi tirare al petto dal peso del biroccino, si ritrasse di un altro passo; feci per saltare, era troppo tardi e rotolammo giù nel burrone. Non era molto profondo ed era il solo lungo la strada da Riolo a Castel Bolognese. Nel fondo alcune acacie vi ombreggiano una fontana che serve ai contadini dei dintorni, ma tagliate il giorno innanzi presentavano come tante cuspidi sui cespi. Cadendo dall’altezza di cinque o sei metri andai a battere col ginocchio destro, rattrappito, sopra una di quelle punte. La percossa fu così forte che quasi non la sentii, ma quando volli alzarmi, prevedendo che il cavallo rimasto a mezza costa nel primo sforzo per drizzarsi mi sarebbe rotolato addosso col biroccino, m’accorsi che la gamba non veniva.
— Mi son rotta una gamba, urlai al compagno che già stava in piedi incolume e sorridente.
— Che!
Il cavallo non si mosse. I birocciai avevano proseguito senza nemmeno voltarsi.
Quindi accorsero contadini dai prossimi campi.
Abbreviamo questo racconto che non può interessare alcuno. Per non svenire dallo spasimo mentre mi portavano di peso su per il pendio della strada, misi il labbro inferiore fra i denti e lo perforai senza accorgermene: fui trasportato nella casa più vicina. Il medico di Riolo, un amico, accorse prontamente e non constatò che una forte contusione al ginocchio, che parve impressionarlo: il mio compagno, prevedendo che il racconto della caduta sarebbe giunto a Casola spaventando sinistramente i nostri genitori, mi consigliò di ritornare alla villa invece di discendere a Faenza. Acconsentii. Il medico del villaggio giudicando la cosa leggiera non volle mettere nè ghiaccio nè sanguisughe sul ginocchio: al mattino una sinovite enorme era già determinata.
I dolori infierivano.
Feci telegrafare a Modigliana l’accaduto e attesi fra gli spasimi che ritornasse qualcuno a raccontarmi dei funerali.
Allora io stesso non credevo la cosa molto grave.
La notte seguente non dormii. L’indomani verso sera venne a trovarmi un gruppo dei giovani che dovevo rappresentare.
I funerali erano stati imponenti per concorso di popolo, ma scarsi di oratori e quel che è peggio infelici. Il sindaco di Ravenna, del quale è inutile ricordare qui il nome, goffa figura di zoccolante diventato poi deputato, aveva quasi asfissiato il pubblico con un discorso dei più lunghi e dei più grevi. La gente, mi raccontavano quei giovani, aveva ascoltato strabiliando le sue frasi mezzo pretine pronunciate a voce chioccia.
Nullameno i funerali erano stati belli, gli oratori non avevano potuto guastarli.
Quei giovani se ne andarono e rimasi solo.
II.
presentava alla riflessione. Garibaldi condannato dal papa era stato salvato da un prete, cui non si era osato scomunicare. Perchè? Questo prete morendo ricusava di abiurare il carattere di tutta la sua vita e il clero dopo avergli amministrato i sacramenti abbandonava il suo cadavere al popolo, che lo portava in trionfo. Tutto il suo piccolo paese, tutta la provincia, tutta l’Italia era piena del nome dell’eroico sacerdote: le persone più disparate per opinione e per nascita, per educazione e per indole convenivano commossi intorno alla sua bara, dalla donnina usa a scongiurare col rosario i terrori dell’inferno al vecchio garibaldino cresciuto nell’odio della religione che aveva per lunghi secoli assassinato la patria, dal magistrato pedantescamente devoto al governo, al giovane ribelle fremente nell’entusiasmo delle prime negazioni. E ognuno riconosceva un prete in Don Giovanni. Certo le interpretazioni di tale parola oscillavano e nelle frequenti clamorose discussioni pochi riuscivano ad intendersi; ma da tutte il suo carattere sacerdotale usciva radiante in una luce di trionfo. Grosse questioni vi tempestavano attorno: le coscienze n’erano agitate.
Perchè tutti coloro che si vantavano di non credere nei dogmi cattolici ammiravano entusiasticamente in un prete un fatto che centinaia di soldati garibaldini avevano talvolta compiuto in circostanze più difficili? Perchè gli altri non meno numerosi, che si confessavano cattolici, s’intenerivano all’eroismo di un sacerdote che salvando Garibaldi aveva disobbedito al papa ed era morto appellandosi a Dio dalla sua autorità? Su quale sentimento idee così discordi convenivano e in quale idea concordavano sentimenti così opposti?
Questa sintesi, che nessuno sapeva formulare, Don Giovanni l’aveva realizzata nella propria vita.
Non so come fosse nato e credo inutile saperlo. Della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua prima educazione in seminario nessuno si è mai occupato: nella sua vita vera, che cominciò più tardi, questi antecedenti sono quasi senza valore. Don Giovanni non fu nè un apostata nè un convertito. Nessuno di quei terribili drammi religiosi, che Renan ormai vecchio si compiace a rivelare, scoppiò nella sua anima. Era nato di popolo e popolo rimase, visse e morì.
Era forse un ignorante, senza dubbio un ignaro.
Nè poetici entusiasmi nè mistiche elevazioni lo trassero al sacerdozio.
Nelle povere famiglie plebee come nelle minime famiglie borghesi l’allevamento di un prete rappresenta ancora la più facile e la meno dispendiosa delle speculazioni.
I seminarii accettano e educano i giovinetti per tre o quattrocento lire all’anno: le parrocchie, incredibilmente numerose in Italia, consumano un numero stragrande di preti, poi vi sono tutti gli altri uffici sacerdotali più o meno lucrosi. Il ragazzo diventato prete esce generalmente di casa portando seco metà della famiglia; la sua parrocchia è una specie d’eredità capitata nella casa.
Quanto al sentimento e al carattere sacerdotale nè una parola nè un dubbio; si diventa preti come avvocato. Certo i due mestieri diversi esigono diverse attitudini, ma nell’economia domestica e nel concetto sono pari. Se un prete ammalato d’idealismo religioso pretendesse vivere come i primi cristiani, distribuendo ai poveri le proprie rendite, la sua famiglia griderebbe al furto e tutto il paese allo scandalo.
La poesia del sacerdozio è morta da un pezzo: negli stessi conventi, ove da ultimo fu ospitata, è talmente sconosciuta che persino nei libri che vi si scrivono non ne appaiono più traccie.
Don Giovanni sarà cresciuto come gli altri suoi compagni, indisciplinato e villano, ignorante e coraggioso perchè così la natura lo aveva fatto. Non so se fosse mai parroco, parmi che sì, certo servì nelle parrocchie. Il suo era temperamento di soldato, ma nullameno potè rimanere sempre prete senza soffrire e far soffrire. Era un semplice. Della meschina filosofia del seminario non aveva appreso nulla, della sua teologia fine, oscillante, piena di agguati pel ragionamento, tutta sparsa di casi somiglianti a trappole, aperta qua e là in prospettive metafisiche di una profondità perigliosa, illuminata da raggi mistici abbaglianti ed improvvisi, egli sapeva ancora meno.
Solo la morale evangelica, dura e semplice, lo aveva colpito.
L’aveva seguita senza discuterla e senza discuterla l’applicava. La tragedia così profondamente filosofica del cristianesimo per lui non era che un caso di sacrificio, tanto anormale nella grandezza che Dio solo aveva potuto compierla: non vi trovava altri significati. Accettava tutto il rito, tutti i Santi, le pene e i premi, le rivelazioni parziali dopo la massima di Gesù Cristo, le tradizioni, le autorità, i vizi commerciali insinuatisi nel culto, le deformità idolatriche, gran parte delle pretese politiche, perchè la sua natura fatta d’istinto ripugnava alla indagine, e debole per troppa ignoranza soggiaceva all’immane peso di un sistema che abbracciava tutto il mondo da circa duemila anni.
Viveva. Avrebbe potuto agire sotto l’impulso di certi sentimenti, ma sopratutto lasciava vivere. Il pensiero era troppo alto per lui, l’azione non ancora matura. Ed era un prete come gli altri. Nato non ricco, non pensò mai ad ammassare. Aveva le abitudini di un contadino coi gusti di un cacciatore, nei quali fermentavano forse le sue forti attitudini guerresche. Incapace di sentire tanto l’idealità della Madonna quanto la tragica delicatezza di S. Francesco d’Assisi, la sua pelle, e la sua anima si eccitavano nelle albe frizzanti sui monti, quando il sole sembra prorompere improvvisamente da un’onda rutilante di colori, e la terra palpita, e tutti gli animali esultano. Amava l’abito corto di cacciatore, le ore snervanti del meriggio nelle stoppie, i ritorni lenti a sera accompagnandosi coi braccianti che discendono dai monti, le stanchezze così sane, e così buone che la caccia lascia nei muscoli, e nello spirito, quando appena suonata l’avemaria si à bisogno di dormire.
Quali erano le sue divozioni, poichè un contadino come lui deve averne avuto?
Non ho potuto saperlo, e questo sarebbe il dato più interessante della sua vita. Se in psicologia fosse permesso indovinare invece di dovere sempre osservare, affermerei che il suo santo prediletto fu S. Paolo, il suo evangelio preferito quello di S. Matteo. Il vigore, la precisione romana nei ragionamenti del primo, la sua fulminea conversione, l’indomato orgoglio soldatesco esplodente nelle concioni d’apostolo, la tendenza così moralistica del suo insegnamento, la bruscheria delle sue frasi ancora frementi di passioni mal dome, la sua effigie rimasta in tutti i secoli, e in tutte le chiese colla spada in mano, quasi minacciando anche dopo la vittoria, dovevano piacere al suo spirito meglio capace d’intendere la religione nelle battaglie storiche che nelle origini metafisiche. Mentre il racconto austero, e quasi fanciullesco di S. Matteo dipingente un Cristo tutto cuore, come un ideale diventato poi divino a forza di essere umano, blandiva certamente la parte più tenera della sua rozzezza, quel fondo di soavità malata, e appunto per questo così facile ad inacidirsi, che la mancanza della donna, suicidio parziale del sesso, lascia in tutti i preti.
Don Giovanni potè forse amare Santo Stefano che in una piazza di Gerusalemme dopo la morte di Cristo moriva primo nel suo nome, araldo eroico e gentile di un esercito di martiri che dopo duemila anni passa ancora per la storia; e la sua figura bella di gioventù immacolata, incuorante con coraggio senza acrimonia i lapidatori a finirlo, gli avrà forse da fanciullo strappato urla d’indignazione. Ma la clorotica ed evanescente gracilità di S. Luigi Gonzaga, chiusa nell’invincibile egoismo del santo che si isola dal mondo e vive, pensa, opera, si consuma e muore entro al proprio sentimento, gli avrà senza dubbio ripugnato.
Nella sua natura la poesia non arrivava fino alla musica: la sua bontà poteva forse simpatizzare colla colpa, non ammirare una virtù chiusa nel fondo del cuore e vaporante solo del pensiero i proprii effluvi vivificatori.
I tempi politici della sua giovinezza ingrossavano.
La Romagna, terra di ribellioni, era tutta agitata da idee liberali ancora torbide ed incerte. Il governo papale discendendo la propria parabola millenaria era arrivato al di sotto del ridicolo nell’impotenza, oltre la nausea nella corruzione; la sua stessa religione, così robusta storicamente per guerre durate e battaglie vinte, sembrava ed era profondamente malata. Il clero romagnolo, numeroso come le cavallette, non aveva nè coraggio nè capacità politica, nè valore intellettuale. Dominava tutte le attività della vita pubblica e una invincibile anemia lo esauriva: senza idee e senza passioni, gli erano rimaste le abitudini delle une e i vizi delle altre. Oppugnando l’immenso sviluppo della civiltà moderna, non ne sapeva nulla: vantava il proprio passato, e lo ignorava; a corto di ragioni, non sentiva più la poesia; accattone di aiuti assassini da tutti gli stranieri, non sapeva e non poteva esercitare sui popoli una autorità che non trovava in se stesso.
Questo periodo di storia religiosa e civile oggi conchiusa non fu ancora abbastanza studiato.
Don Giovanni lo visse.
Persecuzioni minute e ridicole inferocivano. Si imprigionava senza processo, ma non si osava uccidere nemmeno condannando a morte: nei pochi casi di esecuzione capitale il governo si rivolgeva all’Austria, della quale stipendiava le truppe, e l’Austria fucilava colla ipocrita ragione di una ribellione militare. L’epoca dei grandi inquisitori era passata. Quel governo moribondo, incapace di saper morire, non sapeva nemmeno ammazzare. Ma in fondo è la medesima cosa ed esige le stesse facoltà.
Don Giovanni, uomo fra un clero che di virile non gli era rimasto che il sesso, era troppo avveduto per dividerne gli ultimi morbosi capricci. La forza della sua natura mantenuta dalla rozzezza della razza e da una vita incessantemente rimescolata fra persecutori e perseguitati, fra una gente che anelava alla libertà come alla prima delle virtù, e una casta che pretendeva ancora la servitù verso sè medesima come primo dovere verso Dio, lo fecero istintivamente tenere per un dì coloro, che volevano essere uomini ed italiani contro gli altri, suoi compagni o superiori, che non essendo nè l’uno nè l’altro pretendevano imporre la propria incapacità come un divino ideale.
Ma prete campagnolo e cacciatore, optando per il popolo contro il governo, non vide sciolto alcuno dei grandi problemi, che prima di lui avevano perduto tanti illustri sacerdoti e dovevano seguitare a perderne altri ancora.
La modestia delle sue brame e delle sue idee gli aveva sempre impedito di comprendere le necessità avviluppate e profonde del potere temporale. Non avendo nè a salire nè a discendere per restar prete, il suo buon senso di villano gli suggeriva fatalmente una equazione fra sè stesso e il papa. Perchè questi non potrebbe restare papa senza regno, se egli poteva rimanere parroco senza i poderi della parrocchia? Dio era buono e l’umanità infelice; Cristo l’aveva redenta, lasciandola nel dolore come in un aroma che le impedisce di putrefarsi. Tutto il resto era rito, culto, bisogno di rappresentazione e di traduzione per la povera gente: il cristianesimo non era che il sacrificio di Dio per tutti e che ognuno doveva ripetere per sè e per gli altri.
Come il cristianesimo erasi sviluppato nel mondo vincendolo? Per lui il problema era facile: il cristianesimo era vero. Perchè dal pontificato era sorto il papato? Necessità di tempi e di disciplina. Perchè il cristianesimo lacerato sempre dalle eresie aveva finito per scindersi in cattolicismo e in protestantesimo? Egli l’ignorava. Secondo lui il cattolicismo avendo ragione ne aveva abusato, il protestantesimo poteva aver torto, ma il suo errore non provava nè malvagità di mente nè corruzione di cuore. E non ci pensava oltre.
Il vangelo bastava a tutti e a tutto.
Le condizioni presenti della religione, nella quale doveva agire come prete, gli erano sconosciute. I curati, i canonici, i vescovi che aveva conosciuto ne sapevano quanto lui. Le loro interpretazioni dei vangeli, ormai vecchie quanto i vangeli stessi, avevano perduto nella monotonia di una troppo lunga ripetizione ogni significato. Il sacerdote le sviluppava straccamente dall’altare al popolo ascoltante nella invincibile indifferenza di chi non può aspettarsi più nulla da una spiegazione. Nessuna virtù, nessun ideale luceva più. La Chiesa che aveva tanto canonizzato nel passato, aveva perduto il profumo e il senso della santità: il clero non era più che un’immensa amministrazione religiosa, nella quale i conventi rappresentavano ad un tempo i magazzeni e le caserme.
Un vasto e freddo disprezzo li avvolgeva.
Nella campagna e nelle piccole città italiane, sprovviste di cultura, rito e culto testimoniavano soli della religione. Le anime quetatesi dopo la tormenta del rinascimento in una inerzia appena sollecitata dai minuti bisogni quotidiani della vita, non aveva più nè aspirazioni nè ricordi, nè ideali politici, nè sogni religiosi. Si viveva chiusi entro la cerchia del paese grande quanto tutto il resto del mondo ignorato. L’educazione dei seminarî e dei conventi troppo prolungata aveva portato i proprii frutti uccidendo tutte le arti colla rettorica e tutte le scienze colla teologia.
Se qualche intelletto spinto da una irresistibile forza intima sorgeva, le fiacche curiosità paesane lo circondavano; ma rimaneva a loro in mezzo applaudito ed incompreso, triste e solitario.
Tutte le classi erano disgiunte, mentre il clero più unito per uniformità di tendenze e d’interessi, che compatto, bastava a dominarle.
Ogni piccolo Stato italiano isolandosi per istintiva diffinanza inceppava le comunicazioni. I suoi soldati incapaci di guerra non erano che sbirraglia, la sua politica interna una tutela di convento quando quando la prigionia e la pena di morte vi si praticavano ancora, la sua politica estera una laida servitù verso l'Austria ultimo impero feudale cinto di feudatari più grossi degli antichi e più abbietti dei cortigiani moderni. Fra essi il Pontefice, immemore della grande epoca papale, vantava ancora nei molteplici brevi un impero universale, tremando pel rifiuto di un reggimento di croati. Nelle Università le vecchie lampade non rifornite mandavano più fumo che luce: il commercio viveva del piccolo contrabbando alle innumerevoli frontiere interne.
L'Italia desta dai cannoni di Napoleone I, poi rialzata da uno strettone della sua mano terribile, sembrava rimorta con lui.
Il suo ultimo poeta aveva conchiuso nel 5 Maggio l'inno a Napoleone colle supreme parole dei funerali.
Nullameno l'Italia viveva ancora e intorno a lei l'Europa grandeggiava.
Nella tempesta di mille questioni poste dalla rivoluzione francese il problema religioso soverchiava. La rivoluzione avendo l'aria di sopprimerlo colle feste della Dea Ragione lo aveva invece rianimato. Il cristianesimo attaccato teoreticamente dagli enciclopedisti, lacerato dai frizzi di Voltaire, aperto dalle potenti invettive di Rousseau, soffocato dalle prime scoperte della nuova scienza, impicciolito dalla recente sicura conoscenza di tutto il mondo fisico, quasi soppresso dalla rivoluzione alla quale si era opposto come vecchio alleato della feudalità, aveva trovato come sempre la propria salvezza nella persecuzione. La rivoluzione per ricacciarlo dal campo della politica entro i suoi confini naturali l'aveva seguito oltre ai medesimi nel campo chiuso delle coscienze. Allora il cristianesimo fuggente si era rivoltato resistendo. Moltissimi de' suoi preti seppero morire; i suoi credenti trovarono con lui nel fondo della propria anima l'energia di tutti i dolori e di tutte le speranze. Parvero ritornati i primi tempi dell'apostolato.
Invece delle catacombe la religione abitò nei boschi. Le case ebbero altari; all'eroiche superbie dell'ateismo si contrapposero le miti ma inflessibili resistenze della fede.
Poi Napoleone, disciplinando la rivoluzione nell'impero per portarla in tutto il mondo, sospese la persecuzione religiosa. Al rombo dei suoi cannoni vittoriosi le campane risposero con squilli di trionfo e le chiese si aprirono al culto, mentre tutta l'Europa vinta da una apparente conquista si schiudeva alla libertà. Chateaubriand, che avendo invano cercato giovinetto il passaggio del polo era tornato esule della rivoluzione a Londra per seguir poi tutta la vita il fantasma della regalità, scioglieva nel Genio del Cristanesimo, libro futile e meraviglioso, l'inno della nuova religione pacificata colla nuova libertà.
Le coscienze respirarono. La religione si rialzò avendo perduto nella breve persecuzione gran parte dei falsi ornamenti procacciati nei lunghi secoli della sua tirannide. Roma oscillando sotto la protezione violenta di Napoleone, fra una repubblica fugace e una fuga del Pontefice, trovò alcuni accenti tragici de' suoi primi secoli: la libertà rivoluzionaria alleandosi istintivamente alla libertà religiosa nel nome della libertà di pensiero resistette al nuovo impero. Si potè essere orgogliosamente cattolici come dianzi si era stati superbamente giacobini. Dio confessato da Robespierre all'ultima ora, quasi nel presentimento della morte, sfolgorò nelle chiese fra i Tedeum della vittoria: Cristo prima odiato come tiranno ritornò a capo dei nuovi martiri, martire più antico e più bello di loro. Un vasto sentimento patetico prodotto dai massacri della rivoluzione, alimentato dalle carneficine dell'impero, poetizzato dai sacrifici di quanti erano morti e morivano ancora su rovine fumanti, sostenuto dalle energie della nuova vita creò nella politica, nell'arte, nella religione un mondo nuovo di figure e di realtà.
La religione, ritornando di moda nei costumi, imperò nei libri.
Un moto di reazione la sospinse così in alto amplificandola che un'altra reazione scoppiò, e la scienza, prima complice, poi vergognosa degli eccessi della rivoluzione, e quindi ritiratasi in faccia alla nuova ovazione cristiana, si ripresentò austera per contraddirla.
Da Chateaubriand a Victor Hugo rimasto cristiano attraverso le meravigliose metempsicosi della sua poesia, tutta una legione di scrittori e di artisti agitò il problema religioso: l'ateismo cedette al pessimismo, che fu ancora una contropprova della religione. Le imprecazioni di Lord Byron, le maledizioni di Leopardi espressero il dolore di non potere più credere pur conoscendo le bellezze della fede, mentre l'ateismo vero del secolo antecedente, vissuto nella calma della propria sicurezza, non aveva nè bestemmiato nè sofferto. Lamartine e Manzoni rinnovando la lirica della Chiesa superarono forse gl'inni più belli dei suoi primi tempi: De Maistre e De Bonald sentendo la necessità del nuovo impero religioso vollero mantenerlo colle ragioni dell'antico, e quegli reclamò il dispotismo del papa, questi l'assolutismo del re; Ballanche conservò nel nuovo ardore religioso la vecchia placidezza platonica, mentre madama Staël, fondando con Chateaubriand il romanticismo francese, preparava la più grossa falange di scrittori cristiani apparsa nella storia. Le nuove generazioni arrivavano tumultuan do, raggiando.
La Germania quasi sconosciuta nel commercio letterario compiva nella calma di una fecondazione così enorme che oggi appena, dopo cinquant'anni, si è potuto calcolarne le opere e i risultati, la rinnovazione della filosofia e della scienza, dell'arte e della politica. Se la Francia aveva agito, la Germania aveva pensato: pensiero ed azione parvero combattersi un momento nella forma conquistatrice della rivoluzione francese, ma stavano già per fare la pace. Il soffio religioso seguitava a purificare l'aria dalle impurità rivoluzionarie sconvolgendo molte teste. Alessandro di Russia ne ammalò a Pietroburgo; il pontefice ammalò in Roma del vecchio morbo vaticano. Roma che avrebbe potuto conquistare il mondo col nuovo sentimento religioso largo e puro, pretese riprenderlo colle vecchie armi del governo papale. L'avarizia del potere temporale e l'affetazione della tradizione divina la fecero contraddire al recente moto, e poeti, apostoli, scrittori, credenti, tutti furono violentemente assoggettati alla interpretazione vaticana.
Ma generati dalle persecuzioni e nati nella libertà, la loro maggioranza resistette. Roma, che doveva rappresentare la verità della libertà eterna contro la tirannia della libertà rivoluzionaria, divenne l'ultima cittadella del dispotismo, piena più di preti che di soldati, immensa officina di idoli e di catene governative. Per conservare le proprie provincie avversò ogni fortuna d'Italia, costretta ad invocare soccorso da cattolici e da eretici benedisse tutte le violenze e anatemizzò tutti gli eroismi; più vile che nella decadenza dell'impero romano smarrì il senso della sua eterna universalità per non conservare nella coscienza decrepita che il dolore delle ultime ferite e il terrore delle nuove libertà.
Allora, nell'urto del sentimento religioso colla religione, scoppiò la guerra fra il cristanesimo e il vaticanismo.
Da un lato una grande sincerità di idee, tratto tratto turbata da passioni individuali, e una istintiva sicurezza nella equazione della religione colla civiltà; dall'altro la forza di una organizzazione sviluppata in tutto il mondo, mantenuta dalla certezza della tradizione, stabilita sulla verità dei dogmi, raddoppiata dalla potenza della gerarchia, ma il tutto guasto dalla politica di un regno che avarizia e vanità tentarono sempre d'insinuare dogma fra i dogmi, paralizzato dalle antitesi fra il dato umano e il divino favorevoli alla corruzione dei costumi e alla confusione dei precetti. La nuova guerra religiosa arse pressochè in tutti i paesi.
Ma Roma, depositaria dell'unità e quindi inflessibile con ogni nemico, era sempre stata meno dura con coloro che uscivano dalla sua orbita, che contro quei ribelli i quali volessero mantenervisi. Nullameno, vincitori e vinti, nessuno aveva davvero avuto la nozione di un mondo più vasto che contenesse il cristianesimo. Il paganesimo al sorgere di questo era già una realtà dissolventesi nella putrefazione: quindi la nuova fede impossessandosi di tutto potè vantarsi di essere tutto, poichè i cristiani nelle loro più fiere battaglie non miravano che ad imporsi vicendevolmente ideali ed interpretazioni cristiane. Appena qualche setta filosofica rimasta prigioniera entro la conquista cristiana tentava rompere il confine e vi dispariva dispersa o trucidata.
Dopo circa duemila anni le condizioni erano mutate.
Il cristianesimo invece di contenere la civiltà vi era contenuto. Il mondo si stendeva immenso oltre i limiti segnati dalla croce, la storia rivelatasi alla critica aveva mostrato le sorgenti di questa religione che si vantava al pari d'ogni altra discesa dal cielo. La sua teogonia, la sua teodicea, la sua cosmogonia, la favola della creazione, il romanzo di Eva, la tragedia di Adamo, l'odissea, dei suoi primi figli, il peccato e la redenzione, Mosè e Cristo, tutto era capito o almeno analizzato. Un altro sentimento religioso si librava sull'opera cristiana.
Il cristianesimo, che si era annunciato nel mondo combattendo la decadenza pagana, ad esso era in lotta col progresso spirituale da lui medesimo preparato.
Se Voltaire aveva deriso invano i suoi difetti, Hegel lo uccideva trasportandolo nell'etere del più puro ideale mediante una simbolica, nella quale svanivano tutti i dati precisi della sua divinità.
Il cristianesimo aveva oramai preso il posto del paganesimo. Mentre le scoperte della scienza umiliavano i suoi miracoli e le altezze della nuova metafisica superavano le cime nebulose de' suoi misteri, un'altra poesia trovava voci più delicate e poderose di quelle echeggianti nelle prime catacombe, e gli ultimi eroismi dei rivoluzionari superavano gli eroismi dei martiri negli anfiteatri romani.
Il clero, una volta alla testa dei credenti, si trovava ora alla loro coda: la religione considerata per tanti secoli come la sintesi della civiltà ne ridiventava un frammento.
Bisognava risalire, rifare una poesia, ricomprendere tutte le scienze, raggiungere l'idealismo germanico, supremo sforzo del pensiero umano nella storia.
Roma ricusò affermandosi maggiore del mondo. Essa, che aveva tanto mutato e camminato, non volle più nè rinnovarsi nè muoversi, e dando alla propria estrema interpretazione cristiana la divina inflessibilità del testo, pretese nelle forme monarchiche della propria gerarchia tutta la veri tà della sua instituzione religiosa. Allora la battaglia si riaccese. Mentre gli ultimi increduli, scienziati e filosofi, accusavano il cristianesimo di decrepitezza, gli ultimi eretici gli ridonavano nell'entusiasmo di una fede piena di dottrina e di poesia un'altra gioventù.
Questo secolo, del quale si dice ancora tanto male e che il volgo addottrinato vanta come quello delle scienze, sarà forse annoverato nella storia fra i più fecondi per la religione. Tutte le letterature e le filosofie ne sono impregnate: mai tante voci, discordi di accento e di tono, si accordarono in maggiore eloquenza d'invocazioni tormentando i fantasmi divini per giungere all'orecchio di Dio. Preghiera e bestemmia lottando d'energia si fusero nel medesimo singhiozzo.
Vaticanismo e positivismo parvero assistere sdegnosamente immobili a questa nuova patetica demenza del sentimento religioso: l'uno nella certezza della fede, l'altro nella calma della incredulità. Il Vaticano era sicuro di Dio, il positivismo più che certo della natura.
Fra questi due estremi la vita proseguiva.
Il dissidio cattolico, cominciato nei credenti colle espressioni vaghe dell'istinto, ingrossò disciplinandosi per opera di grandi sacerdoti. Dalla Francia, dalla Germania, dall'Italia, da tutte le parti del mondo giungevano a Roma ammonizioni e m inaccie, odi squillanti come fanfare di guerra, apostrofi fievoli come gemiti, superbe proposte di nuove conquiste, temerarie ingiunzioni di nuova povertà; e la poesia e la storia cristiana investigate sprigionavano ogni giorno nuovi profumi e nuovi raggi quasi ad annunziare l'avvento di un'altra idea religiosa.
I prelati splendenti nella vanità della porpora vigilavano intorno al pontefice come pretoriani diffidenti dell'imperatore ancora in debito dell'impero; il clero minuto disseminato nelle campagne viveva delle terre distribuitegli come gli antichi legionari romani mutati in coloni, ma non conservando dell'antica vita di legione che la servilità della disciplina.
Don Giovanni avrebbe dovuto essere uno di questi legionari.
Nella sua gioventù due illustri sacerdoti riempivano l'Italia del loro nome, Gioberti e Rosmini: entrambi eminenti filosofi, l'uno più eloquente, l'altro più dotto. Gioberti doveva poi tuffarsi nella politica per uscirne più grande tra l'urlo feroce di partiti nemici momentaneamente d'accordo nel maledirlo: Rosmini, compita l'opera enorme, isolato dalla diffidenza del clero, colpito dalla riprovazione di Roma, si spense più tardi nel silenzio tranquillo di un lago. Sulle prime furono i due massimi campioni del cattolicismo contro le nuove coorti scientifiche minaccianti da ogni parte d'Europa, ma trascinati troppo oltre dall'ardore della difesa vennero percossi dall'anatema.
Senonchè tutti i cuori e le menti religiose stettero o s'aggiunsero a loro. Mamiani e Manzoni, Grossi e d'Azeglio, Cantù e Balbo, Duprè e Capponi, poeti, storici, letterati, artisti, tutti seguendo le loro traccie finirono per incorrere nella loro condanna: qualcuno arretrò a tempo, ma se uno spavento improvviso gl'impedì di varcare il confine, la direzione del suo pensiero rimase nullameno palese. Tutti erano sospinti e sospingevano per una rinnovazione religiosa. Il vaticanismo rimaneva con un esercito senza generali, con molti combattenti senza eroi. Non pertanto resisteva superbo. Tutta l'energia degli assalti si fiaccava contro la sua inerzia. Lammenais stesso, impetuoso come Demostene, ampio come Cicerone, vi urtò ribellandosi, e fu vinto. La sua collera non bastò a scuotere il colosso. Ma coll'abbandono di Lammenais le defezioni aumentarono; Lacordaire, meno forte ma non meno facondo, sollevato dal soffio rivoluzionario andò a sedere fra la montagna nell'assemblea del quarantotto, e se la repubblica avesse durato il suo zelo papale si sarebbe forse esaurito; Gratry violentato fuggì, il padre Giacinto si rifugiò volgare fra il volgo, mentre la condanna che aveva sempre minacciato Chateaubriand colpiva Montalembert, e Renan giovinetto, destinato ad oscurare le loro due glorie di scrittori, emigrava dal seminario, pallido della grande tragedia di Cristo, che doveva più tardi raccontare nel più bello fra i romanzi di questo secolo. Il padre Curci scelto a prototipo del Gesuita moderno dal Gioberti nella sua astiosa e troppo spesso volgare polemica, dopo la diserzione del Passaglia e la riprovazione del Ventura parve rimasto solo come Ettore a difendere il Vaticano; ma più infelice dell'eroe troiano fu poi costretto a rifugiarsi nel campo dei nuovi greci per riparare ancora entro le mura abbandonate, raccogliendo l'infamia di due tradimenti, rivelando nell'incertezza della propria condotta, sempre inconseguente e sempre sincera, le terribili oscillazioni del nuovo spirito religioso che si agitava nel cattolicismo. E tutti i giorni recavano notizie di apostasie religiose, ed erano piccoli curati, oscuri canonici, predicatori esorbitanti dal pulpito, vescovi e porporati, che volendo trattare coi ribelli ne pigliavano il contagio. La maggior parte di essi rientrava nel campo al primo appello, ma il campo restava nullameno aperto a fughe e invasioni d'ogni sorta.
Libri e discorsi fumavano di sentimento religioso: il romanticismo, originalità e morbo della nuova letteratura, non viveva più che di religione, e se talvolta ne sformava le immagini o ne ricusava il culto, riconosceva tuttavia da lei ogni filosofia e ogni arte. Appena qualche pagano classico protestava solitario. Foscolo non piaceva più; Niccolini si faceva a stento perdonare il giacobinismo politico collo splendore di una lirica, che diventava a volta a volta drammatica per passione di patria; Guerrazzi non volendo essere cristiano aveva dovuto diventare biblico; la satira di Giusti mordendo il clero rispettava i dogmi; Mazzini stesso rovesciava la Chiesa per fondare una nuova religione; Cattaneo, positivista incompiuto, non osava tutte le massime del proprio sistema.
Lo scrittore preferito era Manzoni, non perchè artisticamente il migliore, ma come il più temperato fra tanto tumulto di religione e di bigotteria, di tradizione e di rivoluzione. Non commovendo alcuno e piacendo a tutti, al di sotto della passione e lontano dal vizio egli rappresentava meglio di ogni altro la vita del momento, calma ancora di un'inerzia secolare, ma riscaldata già dallo spirito che doveva poi sconvolgerla per rinnovarla. Non pertanto era l'ingegno più nuovo d'Italia, che vi portava la prima rivoluzione. Forse egli stesso non lo seppe, giacchè oggi solo si comincia ad intendere la sua vera originalità, cui l'armonia del suo temperamento artistico o la fiacchezza del suo temperamento umano tolsero di essere novatrice come quella di Hugo in Francia.
Persecutori e perseguitati, preti e rivoluzionari, governanti e ribelli, tutti parlavano il medesimo linguaggio vantando gli stessi ideali. La religione era una gloria e un ornamento cui niuno si ricusava, ma il clero esercitandola non era più fuso con lei come in passato. La padroneggiava senza possederla, presso a poco come l'Austria faceva coll'Italia.
Se i grandi spiriti religiosi coglievano nel cattolicismo i difetti derivati dalla sua organizzazione e dalla supremazia vaticana, il popolo sentiva vivamente nel clero la mancanza di religiosità; quindi credulo e beffardo accettava i dogmi e rideva dei precetti, si lasciava ammaestrare e spogliare, ricordandosi delle spoglie e dimenticando gl'insegnamenti.
I preti, mutata l'antica parola, infedeli, nella nuova di giacobini, minacciavano senz'ira e senza paura dagli altari sempre parati a festa: parlavano di rivoluzionari credendovi poco e non comprendendoli affatto. In fondo si tenevano sicuri e ridevano dei frequenti moti di ribellione come di un malcontento prodotto dalla inguaribile corruzione di tutti i tempi; pronti nullameno a combatterla col ferro e col fuoco. Ma se la teorica e il sistema inquisitoriale duravano, gli uomini erano mutati. Ai terribili asceti della tirannide, che avevano curvato con una mano il mondo dei fedeli alle proprie ginocchia respingendo coll'altra le ultime invasioni degli infedeli, erano succeduti preti nè credenti nè increduli nè scettici: ubbidienti al papa perchè i suoi ordini non imponevano sacrifici, simpatizzanti senza gratitudine cogli stranieri che guarentivano loro i beneficî delle antiche posizioni.
Le ultime grandi anime religiose, i veri discendenti dei grandi inquisitori erano i sacerdoti condannati, i nuovi apostoli ribelli. Èvvi davvero molta differenza fra lo spirito di Torquemada e quello di Lammenais?
Don Giovanni, solo, nel piccolo paese di Modigliana, poco occupato nelle funzioni ecclesiastiche e sempre distratto dalla caccia, non sapeva nulla dell'immenso moto religioso che sollevava l'Europa, o intendendone qualche motto bizzarro a un pranzo di parroci ove capitassero professori di seminario, alzava le spalle. Tutte le eresie dovevano secondo lui finire a un modo. Perchè discutere tanto stiracchiando le parole? Sentire ed agire, ecco la verità: il sentimento viene da Dio e non falla, l'azione viene dal sentimento e lo realizza.
Allora i giornali erano pochi e i libri si fermavano quasi tutti nelle città.
Pochi leggevano, Don Giovanni non leggeva affatto.
Nella sua camera, dopo morto, entro una scansia tarlata e sverniciata non si sono trovati che cinque o sei libri, forse i medesimi che gli avevano servito in seminario. Per credere nella grandezza d'Italia e desiderarne appassionatamente la risurrezione non aveva certo avuto bisogno di leggere il Primato del Gioberti: le prove storiche della grandezza italiana l'avrebbero imbarazzato senza accrescere il suo orgoglio patriottico, mentre la sua conoscenza del clero gli avrebbe tolto di cedere alla illusione che dal papato potesse venire una vera rivoluzione nazionale.
Egli sentiva che il papa non poteva differire dal vescovo di Modigliana, pel quale il paese non era che un vescovado.
Il cattolicismo, composto a quel modo, per diventare rivoluzionario avrebbe prima dovuto rinnovare sè stesso; ma don Giovanni ignorante pieno di buon senso ricusava d'inoltrarsi per così vasta e difficile questione.
Troppe cose per questo avrebbe potuto intendere e sapere. Roma non ostante i suoi abbominii in tutti i secoli, non aveva ancora mancato a sè medesima: pagani e barbari dopo averla inutilmente oppugnata erano caduti ginocchioni sotto le sue mura: le eresie lacerandola non erano riuscite a scinderla, l'antagonismo dei pontefici cogli imperatori o dei papi fra loro non l'avevano abbattuta; ad ogni disastro, ad ogni abbandono, quando tut to sembrava perduto, Roma risorgeva improvvisamente dominatrice più alta di prima.
Il suo clero talvolta tremendo, spesso corrotto, sempre abile, non aveva mai abbandonata la suprema direzione religiosa: irresistibile nelle blandizie e irrefrenabile nelle collere aveva fino al protestantesimo trionfato di pressochè tutti gli scismi. Lutero e Calvino gli avevano soli resistito trionfalmente, e nullameno Roma andava ancora riguadagnando con lenti ed assidui approcci le provincie della insorta Germania. Roma non aveva mai perduto.
Adesso nel suo regno peggiore che ai tempi del Petrarca e di Lutero, nella confusione del sacro col profano, affermava come ultima espressione religiosa la necessità del potere temporale.
Don Giovanni non vi credeva.
Le necessità di una religione secondo lui erano ne' suoi principii e non nelle sue forme: una religione incapace di vivere in ogni secolo, con tutti i governi, attraverso le più impari civiltà non era una religione. Che cosa importava al cattolicismo il potere temporale? Tutto il suo beneficio consisteva nel guarentire l'esercizio libero o magari capriccioso del culto nelle provincie pontificie; per tutto il resto del mondo quel minimo regno non aveva efficacia. Il papa, libero anche nella più crudele persecuzione, avrebbe sempre potuto dirigere tutte le coscienze interpretando i testi divini. Molti papi erano morti di martirio senza che la religione fosse stata ritardata nel suo sviluppo, offesa nel suo organismo. Una religione non deve temere per sè stessa, sotto pena di non essere più una religione: abitando le coscienze vi è inviolabile ed invincibile; nessuna tirannia saprebbe impedire un sentimento o distruggere un'idea. Una religione non può quindi temere che per il suo culto o pe' suoi membri. Terrori umani, interessi umani. Chiudendo i conventi o rovesciando le chiese forse che il cristianesimo perirebbe? Non era esso vissuto senza questi e quelli? Se il clero ritornasse alla povertà del primo apostolato, le sue predicazioni sarebbero forse meno efficaci? Se il papa invece di essere un re e un semidio fosse un prete come gli altri, eletto perchè santo fra i più santi, l'unità divina della religione ne andrebbe rotta?
Don Giovanni si faceva talvolta queste domande e sorrideva bonariamente.
Senza sapere nè come nè quando nel suo spirito si erano venute profondamente differenziando chiesa e religione; questa era l'idea e quella il fatto, l'una veniva da Dio, la seconda era opera degli uomini. Certo Dio non aveva mai permesso che la sua Chiesa snaturasse la sua religione, e infatti dogmi e precetti erano rimasti inviolati, ma la chiesa conservandoli puri aveva troppo spesso bruttata sè medesima. Così per difendersi da giuste accuse aveva voluto imporre silenzio a tutti nel nome di Dio, e per resistere a più giuste critiche aveva preteso difendere in tutta sè medesima la divinità che era solo nel suo principio.
Di questo passo Don Giovanni sarebbe presto arrivato nel protestantesimo colla coscienza libera in faccia al testo della legge, ma il suo spirito inconsciamente disciplinato dal romanismo si arrestava. Poichè Dio aveva istituito la Chiesa per sviluppare la propria religione, solo attraverso di essa dirigeva e parlava. Tutti i mutamenti fatti fuori della Chiesa o contro la Chiesa non avevano durato e non durerebbero.
Inutile quindi ogni rivolta aperta, superba e vana ogni contraddizione. Nessuna grandezza di cuore o d'ingegno poteva essere maggiore di Roma. Bisognava adempiere la religione col cuore, lasciando che la Chiesa per l'intima virtù depostavi da Dio si correggesse.
Ma se la sua coscienza rifuggiva dagl'inutili eroismi della ribellione, ripugnava ancora più alle condiscendenze della servitù. Cristiano e prete, sentiva di non dipendere da altri che da Dio, del quale non era possibile fraintendere la legge s enza perfidia della volontà, mentre la cornice lavorata dalla Chiesa per chiudervela non essendo mai stata santa non era nemmeno più bella.
Queste idee torbide gli si rischiaravano a mano a mano nell'azione.
Se domani il papa cessasse di essere re, non uno dei cattolici cesserebbe di essere tale: il re non era dunque necessario.
Gregorio XVI, il re d'allora, era crudele. Don Giovanni troppo ignorante per aver letto il Trionfo della Santa Sede, e stimare in lui il teologo, era troppo buon cittadino per non disapprovare il pessimo sovrano; ma quando per propiziarsi lo czar il papa riprovò i Polacchi morenti con disperato eroismo contro i Russi, Don Giovanni fu quasi per trascendere. Il potere temporale, che teneva schiava l'Italia, minacciava di mutarsi in ragione di schiavitù a tutti i popoli.
Non bastava soffrire, bisognava aiutare. Don Giovanni entrò nella vita politica chiamato dallo stesso strido di dolore, che lo aveva più volte condotto al letto dei moribondi.
Così rimase prete.
Niuno sulle prime se ne accorse. La rivoluzione che si compiva silenziosamente nel suo spirito, somigliava a quella che si veniva maturando in Italia e della quale gli affigliati sapevano poco, i governi nemici quasi nulla. Se Don Giovanni fosse stato un pensatore, si sarebbe gettato con violenza nelle nuove teoriche religiose per rovesciare il papato; essendo invece un uomo di cuore, discese nell'azione aiutando quelli che rischiavano la vita a preparare i combattimenti dell'indomani. Cacciatore sui confini della Toscana e della Romagna, le sue amicizie coi contrabbandieri iniziarono le sue relazioni politiche senza macchiare la sua austera probità, giacchè le leggi doganali dei piccoli governi che separavano allora l'Italia non gli erano mai sembrate vere leggi.
Quali fossero i suoi primi rischi di patriota sapranno forse i pochi vecchi amici superstiti, ma non ne fu ancora scritto. Se prete consentisse ad affigliarsi in una delle tante società secrete che allora riunivano colla loro disciplina i ribelli, lo ignoro; forse l'orgoglio del suo carattere indipendente e il suo abito sacerdotale glielo impedirono. Ma presto fra i congiurati della Romagna si seppe di un prete di Modigliana che aiutava, cimentando tutto sè stesso, a trafugare coloro che audacia di generose impazienze o perversa abilità di spie avevano compromesso. Modigliana, piantata fra i monti nel confine toscano, divenne rifugio e passaggio di congiurati, ed era sempre Don Giovanni che senza nemmeno conoscere il nome dell'uomo pel quale arrischiava la vita; giovandosi delle proprie non sospette abitudini di cacciatore andava di notte, a piedi o in biroccino, ai convegni, per ricondurne a casa propria profughi e proscritti. I contrabbandieri lo aiutavano spesso.
Intanto nelle apparenze della sua vita nulla era mutato malgrado la rivoluzione che gli si allargava nella coscienza.
La sua religione invece di contraddirli si accresceva di quegli atti patriottici.
Ma i tempi ingrossavano. L'eco delle vittorie di Garibaldi nell'America valicando l'oceano veniva a percuotere per tutti i monti d'Italia: le fantasie s'infiammavano, nobili orgogli e speranze anche più nobili s'alzavano nelle anime che la tirannide secolare non era riuscita a protestare. Mazzini esule, ma presente collo spirito in ogni terra, organizzava congiure, dava ordini, scriveva lettere, opuscoli, libri, agitando ogni sorta di questioni e riassumendole tutte in quella della libertà, eloquente come la tempesta, luminoso come un sole. Tutti ascoltavano e guardavano. La sua figura, cui la tragedia della patria dava una tragica espressione accresciuta dal mistero della sua vita privata e dalla ubiquità della sua presenza, sgomentava le anime fanciulle attirandole col fascino del pericolo; la lirica delle sue frasi e la religiosità del s uo sentimento seducevano persino coloro, che la sua politica troppo chiara ed insieme tenebrosa minacciava.
I più giovani e i più intrepidi non parlavano più che d'insorgere.
Il disprezzo pei governi ancora più timidi che feroci fomentava il coraggio, mentre le satire del Giusti, i romanzi del Guerrazzi, le canzoni del Berchet infiammavano entusiasmi già esasperati dalle ridicolaggini delle persecuzioni papaline. Nella Romagna, Beozia d'Italia se il suo Monti fosse stato Pindaro, altrettanto scarsa d'ingegni che robusta di temperamenti, scoppiarono i primi moti, ma la nullaggine degli uomini che li dirigevano, impedì si diffondessero guadagnando nome nella storia. Il coraggio che sa insorgere e l'eroismo che sa morire, non bastano alla tragedia: solo l'ingegno, che potrebbe vincere diventa tragico quando gli avvenimenti lo sopraffanno e soccombe. L'ingegno mancò anche questa volta alla Romagna.
Nel settembre del 1845 per moti di Rimini una mano di armati raccolta a Bagnacavallo e a Faenza, scorrendo senza vera direzione le campagne, tentò una sollevazione. La guidavano Pietro Beltrami e Raffaele Pasi, gentiluomini entrambi, ignari ed ignoranti, che la chiarezza della nascita e la distinzione delle maniere aveva naturalmente designati capi. Del primo le cronache non seppero più n ulla, del secondo narrarono che soldato aristocratico ed intrepido diventò poi generale e cortigiano. La sollevazione di un giorno dopo di essersi impadronito della dogana delle Balze, sul confine fra Modigliana e Faenza, si disciolse in una pacifica resa alle truppe toscane.
Don Giovanni che vestito da cacciatore aveva primo invaso la dogana, non riconosciuto o protetto dalle simpatie di tutti, non ne subì dopo il fallimento dell'impresa persecuzioni politiche. Oramai con quella insurrezione il carattere della sua vita si era determinato.
Egli voleva essere prete e patriota, giovando senza brillare. La vanità, così comune ai convertiti di ogni fede, non viziò mai la sua anima. Le contraddizioni del cattolicismo colla libertà, che allora s'affannavano a conciliarsi nel cattolicismo liberale, non erano ancora penetrate e non penetrarono mai nella sua coscienza; più cristiano che cattolico non sentì le antitesi, nelle cui soluzioni si smarrirono i più grandi spiriti del tempo.
Fallito quel tumulto, nessun rimorso lo turbò: forse un rammarico gliene rimase della inettitudine colla quale era stato promosso e condotto. Attese. Ma restando prete fra i preti, che colla fatuità degl'impotenti credendo di aver soffocato una terribile insurrezione insultavano al sogno di una Italia liberale, non divenne ipocrita. La rozzezza dei modi e delle abitudini, isolandolo dalle conversazioni inevitabili al suo ufficio sacerdotale, gli facilitarono il nobile riserbo nel quale si chiuse. Forse qualcuno lo sospettò, i più seguitarono a giudicarlo uno spirito bizzarro, un temperamento villico più appassionato di caccie che di processioni.
La maggior parte de' suoi amici insorti, dispersi per la Toscana, corrispondevano ora più sicuri con lui risparmiato dalla persecuzione.
Intanto i moti religiosi e rivoluzionari procedendo verso la libertà, preparavano la rivoluzione del quarantotto. Pio IX, cardinale imolese, eletto pontefice suscitò entusiasmi, dei quali oggi è impossibile rendersi conto. Il sogno del cattolicismo liberale parve avverato fra un immenso soffio lirico che sollevava popoli e pensatori. Tutti coloro, che da anni lavoravano a una rivoluzione guidata dalla religione subendo gli scherni dei veri rivoluzionari e le diffidenze dei veri cattolici, si credettero arrivati al trionfo. Pio IX annunziatosi con una amnistia, che implicava la condanna del suo predecessore, proseguì liberaleggiando: guelfi e ghibellini sospesero le ingiurie per unirsi in un coro di lodi che finì d'ubbriacarlo. Un'ira di guerra si univa al fervore della libertà; si parlò di crociata. Gli entusiasmi cavallereschi del romanticismo scoppiarono, mentre l'energie delle vecchie repubbliche e dei piccoli ducati riapparivano improvvisamente, come evocate dalla forza dei tempi nuovi. Era un tumulto di sentimenti eroici, un fracasso di frasi liriche. Bisognava credere, perchè fra poco si sarebbe dovuto agire. Mazzini ripiegando la bandiera repubblicana prima ancora di sollevarla al sole delle battaglie, scriveva a Carlo Alberto e a Pio IX, sfiduciato d'entrambi, sacrificando con magnanima accortezza politica alla necessaria illusione del momento ogni sincerità di pensatore e superbia di capo: Garibaldi, riempita l'America del nome italiano, attendeva un segnale per rivalicare l'oceano e seguitare in più splendido canto l'epopea delle proprie vittorie. Gli ultimi odii irreligiosi erano sopraffatti dal coro instancabile di speranze che cantava nelle piazze e nelle chiese, nei cuori dei giovani e nelle teste dei vecchi.
Solo qualche classico cresciuto nell'odio del romanticismo o della religione protestava tacendo. Niccolini colla chiaroveggenza del poeta penetrando oltre l'illusione del momento si ricusò ad un'opera, che fallita doveva lasciare discordie peggiori di quanto allora ne conciliava; e feroce fra tanta bontà di accordi si chiuse prigioniero volontario in fondo alla propria accademia per non uscirne che quando la commedia insanguinatasi nel dramma spirerebbe nella più tragica delle disperazioni.
Forse l'acrimonia del carattere e l'angustia dello spirito giacobino gli acuirono la naturale perspicacia dell'ingegno.
Ma i principi d'Italia, malgrado la nuova aria che li sollevava tant'alto, rimasero troppo più bassi che all'opera non fosse necessario.
Il meno tristo di tutti, Carlo Alberto, bizzarra fusione di Don Chisciotte e di Amleto, vano nelle speranze quanto vile nel dubbio, invocato capo concedeva la costituzione e correva a farsela perdonare dal confessore. Ambiva la conquista d'Italia e non osava arrischiare il Piemonte, odiava la libertà e languiva assetato di favore popolare. Nullameno, era il solo che ardisse desiderare se non un'Italia libera almeno una gran parte di essa riunita e compatta. Ma giovinetto, che aveva cominciata la vita col tradimento raddoppiandone l'infamia colla espiazione del Trocadero, doveva chiuderla vecchio con un abbandono che il popolo nella infallibilità dell'istinto chiamò traditore; mentre l'astro da lui aspettato con romantica vanagloria sul suo scudo immaginario di guerriero aveva duopo di altri dieci anni per apparire sull'orizzonte d'Italia e fermarsi chissà per quanto tempo sul tetto del castello savoiardo.
La guerra scoppiò prima che la confederazione dei principi italiani fosse stretta: quasi tutti tradirono. Il pontefice, che aveva prome sso e poteva giovare più d'ogni altro perseverando, atterrito dalle altezze cui lo innalzava la rivoluzione, riprecipitò nel fango oramai secolare del proprio passato. Futile e rettorico nella vanità, fu abbietto e pedante nella paura. Così il sogno del cattolicismo liberale svaniva, mentre i sanfedisti ghignavano feroci aspettando dalle prossime disfatte il massacro degli avversari, e gli spiriti veramente rivoluzionari si gettavano alla testa della poca plebe non guasta dalle lautezze dei governi corruttori, per morire disperatamente nel nome d'Italia.
Il risveglio da tanti sogni fu violento. L'energia dell'odio subentrò alla effervescenza dell'amore. Carlo Alberto solo tenne il campo e rimase vinto senza gloria. Cattivo re, soldato nemmeno mediocre, spirito falsamente italiano, il disastro lo rivelò forse contemporaneamente a sè stesso e alla patria. Ridivenuto piemontese nella fuga abbandona Milano, abdica la corona e va a morire sulle sponde dell'oceano, perseguitato dalle maledizioni d'Italia, avvolto nel disprezzo dell'Europa. Allora gli altri spiriti italiani grandeggiarono, Cattaneo a Milano, Manin a Venezia, Guerrazzi a Firenze, Poerio a Napoli, Garibaldi e Mazzini dovunque.
L'epopea si muta in tragedia, tutto fallisce, l'inesperienza dei generali paralizza l'entusiasmo dei volontari, le diffidenze gelose fra i capi disgiungono le forze restanti: poi le antipatie regionali sempre alimentate dai vecchi governi e male sopite nella gioia della prima fusione, infieriscono esasperate da rovesci che la vanità dei vinti accusa di tradimento. Non si pensa più all'unità, si ricalcitra persino all'unione. L'aristocrazia come classe rimane per codardo egoismo aderente ai governi abbattuti; il popolo grosso e minuto senza coscienza vera di libertà, poco uso alle armi e meno ancora ai sacrifici, subisce malgrado ogni fascino delle novità il prestigio delle antiche dinastie, mentre i preti lo riconfermano nel terrore della religione e le vittorie austriache gli riconsigliano la prudenza, colla quale da tanti anni resiste nella schiavitù. Le campagne peggio che indifferenti sono ostili alla rivoluzione; l'avarizia domestica e la bigotteria religiosa e politica v'imperversano al punto che un clero meno vile avrebbe forse potuto suscitarvi una contro-rivoluzione.
Solo la borghesia è rivoluzionaria, ma fiacca per abitudini, non pratica di governo, non facile alle armi, nutrita più di rettorica che di scienza, meglio atta a morire in un impeto di disperazione che a perseverare in una lotta disuguale di forze, incerta di scopi e di processi, si smarrisce. La sua parte più giovane e più numerosa accorre sotto le bandiere, mentre i suoi seniori ammalati di cattolicismo liberale non ardiscono proclamare davvero la rivoluzione. Si parla ancora di confederazione, le forme costituzionali imbrogliano gl'inesperti e favoriscono gl'ipocriti; in fondo si teme pel popolo e si rammemorano i giorni sanguinosi della rivoluzione francese. Manca il sentimento nazionale. Il problema della indipendenza si fraziona per ogni provincia, la parola repubblica confonde e sbigottisce. Si crede ancora che religione e libertà si accordino, che i principi patteggino leali coi popoli e il papato possa concordarsi volontario coll'Italia.
Non si sa nulla e manca tutto. La rivoluzione fallisce, ma spezzato il dramma, le sue energie si condensano nelle scene. Il Piemonte resiste come regno non ignaro d'invasioni, Venezia riassume morendo tutte le virtù della sua lunga vita, Roma assalita da tutta l'Europa riapre la storia immortale delle proprie guerre per scrivervi un'ultima pagina, che ne vale molti libri. A Napoli tradimento e massacro. I Borboni mentono ed assassinano, fedeli alla propria tradizione. A Milano l'insurrezione inerme, dopo aver trionfato d'un esercito per cinque giorni, sfinita più che vinta cede non patteggia: a Bologna i popolani insorgono e abbandonati abbandonano la rivolta; la Romagna freme, ma i suoi audaci sono tutti a Roma e i troppi codardi rimasti a casa seminano diffidenze preparando persecuzioni e condanne.
L'Europa è sossopra. Parigi, Berlino, Vienna tumultuano: la rivoluzione gloriosa e sanguinante è vinta dovunque, ma fra tutte quella d'Italia, allora forse la meno osservata, è la più significativa. Al principio della nazionalità essa congiunge il problema del papato. Per tutta la storia, dal più oscuro medio evo fino a Napoleone primo, nessuno aveva potuto risolverlo. L'Italia vi si accingeva. Il papato colpito da improvvisa quanto inesplicabile demenza aveva concesso una costituzione, che infirmava naturalmente il suo principio; quindi l'aveva tradita per non essere trascinato fuori della propria orbita, e la rivoluzione era scoppiata, uccidendo nel ministro papale l'ultima illusione di un accordo fra l'Italia e il Vaticano.
La repubblica romana doveva morire prontamente, ma bastava ad interrompere la vita millenaria del papato.
Quindi il dissidio religioso invelenì nelle coscienze liberali. I più coraggiosi nauseati dalle attitudini del pontefice, che fuggiva piuttosto che resistere e malediceva invece di compiangere, si gettarono nella rivoluzione oramai troppo male ridotta per trionfare, e bestemmiando cattolicismo e federazione invocarono come suprema necessità della patria gli esterminii del 93. I più arretrarono mascherando di pretesti religiosi la prudenza, che li faceva disertare una causa per la quale la sola onorevole speranza era di morire: i meno sognarono una reazione papale iniziante un governo più largo d'impieghi ai devoti e di stipendi alle spie.
La lunga servitù d'Italia pesava su tutte le coscienze come una fatalità; la rivoluzione sembrava perdere non per colpa degli uomini ma per ragione delle cose. L'Italia non poteva risorgere. Questa acquiescenza al destino o alla provvidenza, come allora si diceva, era favorita dal quietismo religioso e letterario a capo del quale splendeva il Manzoni: la rassegnazione cristiana e il pessimismo ultra mondano, che mette sempre nell'altra vita la soluzione di tutti i problemi, coprivano le viltà depositate nelle coscienze da troppi secoli di servitù, mentre l'educazione cattolica assoggettava coi suoi terribili dilemmi spiriti anche non volgari.
Quindi i pochi eccessi rivoluzionari, che falsavano la nuova libertà, bastarono a molti per abbandonarla, evitando loro di risolverne il problema nella coscienza. I rivoluzionari rimasero pochi ma intrepidi, i cattolici furono troppi ma quasi tutti vili, certo tutti inetti, aspettando dall'Austria più che da Dio la pacificazione d'Italia.
Il clero che negli antecedenti begli anni della letteratura cattolica liberale si era abbandonato a tutti i lirismi del sacrificio, rientrò frettolosamente nel secolare egoismo: nessuno osò scindere le questioni che il Vaticano fondeva in una sola. Pontificato, governo temporale, romanismo, cattolicismo, cristianesimo, tutto si confuse nell'anatema lanciato dal papa alla rivoluzione e rimase identico nella coscienza del clero. I vantaggi della sua posizione storica minacciati dalla rivoluzione gli tolsero la vista delle grandi riforme da lui stesso invocate, mentre l'emancipazione dello Stato dalla Chiesa proclamata altamente dai liberali lo guariva quasi istantaneamente dalla passione della libertà.
Immaturo per la propria riforma, il clero non poteva accondiscendere nella rivoluzione.
I suoi più grandi pensatori, riprovati da Roma, non avevano osato nemmeno nello sdegno della propria condanna precisare la riforma cattolica; imbarazzati fra loro nella parte dogmatica, non riuscirono che a maledirsi scambievolmente ponendo il problema della nuova costituzione ecclesiastica. Quindi le esigenze della libertà e della autorità sviandoli nel pensiero li esasperarono nel sentimento già atterrito dalla insurrezione e dal silenzio del popolo, fra cui predicavano. Invece di una riforma religiosa, questi domandava una rivoluzione politica. Il cattolicismo non era più un bisogno ideale dello spirito popolare: i suoi dogmi, la magnificenza della sua universalità non commovevano più, mentre la violenta interpretazione papale riassumendo tutto nel vaticanismo aveva già prodotto negli spiriti quell'indifferentismo beffardo e desolato, che Lammenais prima di ribellarsi aveva cercato di combattere con un fervore di fede pari allo splendore dell'eloquenza.
E a poco a poco i nuovi eretici trascinati dallo stesso spirito novatore erano saliti dal campo religioso nel filosofico, abbandonando la sicurezza dell'insegnamento cattolico, prono ma sodo, per smarrirsi non visti dal popolo fra la turba dei grandi pensatori, che cercavano già donde verrebbe la nuova religione.
Il problema del rinnovamento cattolico, intuito nella prima metà di questo secolo, non sarà veramente dibattuto che nel secolo seguente e risolto chissà in quale.
Certo prima di esaurirsi il cattolicismo, che sta rincorporandosi tutto il cristianesimo, deve produrre in sè stesso nuove interpretazioni e forme favorevoli alla espansione degli ideali, che oggi ancora contunde nella idolatria o deprava nella politica.
Il clero italiano fu come da moltissimi secoli al di sotto della propria posizione, il più vile di tutto il cattolicismo. La corruzione vaticana scemandogli il carattere religioso gli aveva tolto, e non gli ha ancora restituito, il carattere umano. Mentre l'Italia insorgeva contro l'Austria in una guerra d'indipendenza scevra di questione religiosa, e la rivoluzione assaltava il Vaticano scacciandone il papa per conquistare la libertà religiosa e politica, il clero non osò essere nè italiano nè cattolico combattendo l'Austria o schierandosi col pontefice. La viltà del Vaticano, che oppugnava l'Italia per conservarvi il minimo regno, si ripetè in tutte le parrocchie; i curati trepidanti pei proprii beni lasciarono a Dio l'ufficio di salvare il papa, e non uno di loro tentò di mettersi alla testa dei molti fedeli per difendere, ultimo crociato, la tomba degli apostoli, o salire almeno il pulpito per dire ai contadini che l'Austria tiranneggiando l'Italia aveva il medesimo torto dei settari insignorendosi di Roma.
Invece ripeterono a bassa voce la parola di Gesù altrettanto vera nella filosofia che falsa nella storia: date a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare; ma il nuovo Cesare stava a Vienna, e quanto a Dio, i suoi beni e i suoi diritti erano quelli medesimi delle parrocchie.
Sullo scorcio del secolo passato il clero francese morendo nella Vandea per il proprio re si era contemporaneamente battuto per la Francia contro gl'invasori, e la rivoluzione aveva dovuto stimarlo, e Napoleone poco dopo l'aveva riconfermato. Il clero italiano, ignobile ed ignaro, non volle morire nè per l'Italia nè per il papa, e visse a sè medesimo.
Ma il papa stesso, moltiplicando per tutta la superiorità del proprio grado l'antico errore di Pompeo, abbandonò Roma al primo scoppio rivoluzionario ricusandosi ad un pericolo di morte altrettanto improbabile che benefico alla religione. La prigionia di Pio VII era bastata a riscaldare gli animi religiosi dopo la rivoluzione francese, l'assassinio o la condanna di Pio IX avrebbero riaccesa in tutti gli spiriti la fiaccola della fede disonorando per sempre la rivoluzione.
Invece riparò nella più solida fortezza del peggior tiranno d'Europa, cingendosi di briganti contro i rivoluzionari. Mentre Garibaldi e Mazzini venivano a morire sulle mura di Roma, disperati di salvarla ma bagnandola del proprio sangue, come di un battesimo che la iniziasse a nuova vita, il pontefice nella feroce umiliazione di re, che non sa nè vincere nè morire, dimenticava il proprio carattere di padre universale per cacciare contro Roma quanti soldati la reazione trionfante in Europa poteva prestargli.
Ma la viltà del papa immortalata da Mazzini in una pagina rovente d'indignazione sparve nella viltà del clero; a tutti sembrò dovere la sua fuga, diritto la sua invocazione agli stranieri perchè lo rimettessero in trono. Senonchè quella fuga e quell'appello oltre le alpi provarono invece che principio e fatto di regno temporale erano esauriti. Quando un principio è incolume e un fatto è intero, coloro che lo incarnano non vi falliscono; l'energia della fede, il vigore della coscienza li sorreggono in ogni frangente; possono perdere non scappare, soccombere non prostrarsi. Il re che abbandonava Roma senza chiamare il popolo alle armi confessava di non esserne che il papa, e il mondo gli credette.
Quindi la sua fuga aperse nelle mura una breccia, che allargata dalla soldataglia cosmopolita del suo ritorno non si potè più sbarrare: vent'anni dopo Vittorio Emanuele, scoprendola, entrò e la chiuse. Questa volta Pio IX non fuggì da Roma perchè non ne era più il re, ed essendone il papa poteva sempre restarvi.
III.
In questo periodo così tumultuante di fatti, e di idee Don Giovanni non si mosse. Molti fra i congiurati, che lo avevano conosciuto nelle opere secrete, aspettavano forse di vederlo insorgere sulla montagna e alla testa di una compagnia fra contrabbandieri e cacciatori correre alla difesa di Roma. La Spagna era tutta piena in questo secolo di curati belligeri, talvolta grandi come generali, più spesso fieri come assassini.
La predicazione patriottica cominciata a Bologna dai padri Gavazza e Ugo Bassi infiammava il popolo alla guerra. Invece che nelle chiese, le prediche si facevano su per le piazze, dall'alto delle scalinate, fra una ressa di popolo piangente di ogni entusiasmo, giacchè l'effervescenza del sentimento patriottico permetteva qualunque eccesso di pensiero e di parola. Si declamava di guerra, d i massacri, di trionfi, di perdoni: tutta la vecchia rettorica delle scuole piena di esempi romani e cartaginesi, quella dei seminari, l'altra più recente del romanticismo si mescolavano in una eloquenza ridicola e commovente, deforme e poderosa.
Nell'aria agitata da tante voci passavano a volta a volta i veri soffi della rivoluzione. Il popolo applaudiva strepitando ai due sacerdoti senza capire delle loro frasi che le parole di guerra. Il nemico scoperto era l'Austria, i nemici incerti tutti i principi, il papa e il clero, i nobili e i borghesi che quello schiamazzo atterriva, e i contadini che ascoltandolo lontani ne chiedevano la spiegazione ai parroci.
Il padre Gavazza, energica figura di tribuno ribollente di passioni e fors'anche volgare di vizii, piaceva più dell'altro, gracile poeta, che la letteratura aveva travolto e la rivoluzione doveva stritolare. Ad entrambi la stessa gloria e la medesima vanità prestò le forze ad uscire dagl'ordini; ma nessuno dei due sapeva bene ciò che volesse. Ugo Bassi additato alla reazione austriaca dal clero implacabile si confessò, abiurò e cadde, martire coraggioso e recalcitrante, per vivere nei ricordi del popolo che di lui non ricordò più che la morte; l'altro, più fortunato o più abile, vinta la rivoluzione, riparò all'estero e vi si convertì al protestan tesimo, e tornò a predicarlo in Italia agli stipendi della società biblica, non ascoltato dalla borghesia, spregiato dal popolo, che stima poco coloro che mutano e non crede mai alle conversioni fruttanti danaro.
Don Giovanni, sacerdote al pari di essi, non li seguì nella breve e tempestosa predicazione. Differenze di indole e più ancora di testa glielo impedirono, salvandogli l'originalità oggi ancora più sentita che compresa.
Come Don Giovanni giudicò la rivoluzione del 48? Che cosa pensava dei principi e del popolo? Di Carlo Alberto e di Pio IX acclamati primi, di Mazzini e di Garibaldi arrivati ultimi?
Il suo pensiero non è rimasto scritto, ma la sua vita lo ha chiaramente rivelato.
In tutto quel periodo, come prima e come dopo, seguitò la vita di cacciatore ascoltando forse sulle cime dei monti nell'aria trepida il rombo immaginario delle battaglie infelici, che si combattevano per l'Italia. Intorno a lui tutto era calmo. I contadini non s'occupavano che dei ladri infestanti per la mancanza di un qualunque governo, mentre giù nel paese invece la grossissima maggioranza assisteva alla rivoluzione come ad una avventura della quale era già previsto lo scioglimento. Nessuna fede, nessuna idea netta; qualche sentimento generoso fra molti avari, una certa smania di novità frammezzo abitudini che la morte poteva interrompere, non già la vita mutare; paure e ignoranze, viltà di ogni servitù, gelosie di qualunque grado. La rivoluzione non era possibile, il popolo non la sentiva. Invano una piccola minoranza aveva profuso da molti anni e seguitava a profondere eroismi di pensiero e di cuore, prodigava sangue e danaro, dimenticando tutta sè medesima nella passione della patria da redimere; la patria indolenzita e indolente rimaneva accovacciata sotto le sedie dei propri tiranni, guardando con stanco sorriso coloro che tentavano di scuoterla ed arrischiavano in questo la vita.
L'Italia allora non aveva nè un re, nè un generale, nè un politico.
In qual guerra aveva trionfato Carlo Alberto? E non era che re di Piemonte, e non aveva osato dire alteramente all'Italia: sii mia! Quale fra i tanti ministri dei tanti piccoli Stati sarebbe stato così forte da soffocare la voce degli altri per farsi intendere dall'Europa? Il migliore, quello del papa, Pellegrino Rossi, smarriva ogni senno politico nel sogno di un papato costituzionale.
Tutti gli italiani erano stranieri fra loro: piemontesi, napoletani, lombardi, toscani, veneti, umbri, siculi, divisi per storie, per indole, per produzione non avevano in comune che la servitù, e anche questa diversa, cosicchè il dolore e l'odio frazionandosi s'impicciolivano. Mazzini solo era italiano, ma la sua opera e la sua fama male interpretate gl'impedivano d'abbracciare tutto il popolo. La minoranza rivoluzionaria sola gli ubbidiva adorandolo. Garibaldi sbarcato allora dall'America era per la gente volgare uno sconosciuto, per tutti quei soldati invecchiati nelle parate un avventuriero ricondotto in patria da bramosia di saccheggio.
I Governi, invece di confederarsi, patteggiavano contemporaneamente coll'Austria e colla rivolta, conservando verso l'una molte velleità d'indipendenza, verso l'altra tutte le pretese del comando. Solo un forte moto di unità, rovesciando quei piccoli troni e galvanizzando le piazze nel nome della repubblica, armandole, lanciandole sullo straniero, avrebbe potuto trionfare; o un re temerario e abile come Enrico IV, che affermandosi re d'Italia avesse nel suo nome eccitata la rivolta e guidata la guerra contro l'Austria, avrebbe avuta qualche probabilità di riuscita. Mazzini tentò la prima proclamando la repubblica romana, nella quale, se persistente, tutti gli Stati d'Italia sarebbero scomparsi; ma nell'ultima ora quando tutto era perduto, e salvò con eroismo pari all'ingegno l'onore della rivoluzione. Napoli e il Piemonte avrebbero potuto cimentarsi nella seconda impresa, ma i loro re capaci di aspirarvi per vanagloria non ne ebbero l'animo, tradirono o fallirono, poco sinceri nel sentimento, meno italiani nel concetto.
E questa rivoluzione preconizzata da tanto splendore di arte, preparata con lungo studio, assistita da tutte le forze, in un anno appena si logorò e parve svanire. Il popolo in massa non vi aveva che assistito.
Gl'italiani erano vinti. I campi veneti e lombardi fumavano di sangue, in tutti i paesi la reazione del dolore e della paura sopraffaceva l'entusiasmo della rivolta.
A sera la malinconia delle prime ore era più triste, il pianto si mesceva colla rugiada. I volontari ritornavano sbandati maledicendo e ascoltando le maledizioni ai generosi, che avevano predicato la guerra. Si vantavano la pace umiliante, le molli delizie della servitù.
Venezia e Roma resistevano ancora, quasi trovando nel nome antico della repubblica l'eroismo della nuova morte. Il clero esultava. La sua sordida e numerosa clientela liberata dallo spavento della rivoluzione turbava con gioie parricide la tragica solennità di quel momento. Tutti i maggiori uomini d'Italia erano sembrati impari all'azione: i cattolici liberali mascherati da nuovi costituzionali spingevano l'odio della rivoluzione più oltre dei sa nfedisti, seminando fra i vinti rancori che nulla poteva più consolare. Le calunnie scoppiettavano ora che il fuoco della moschetteria si faceva più rado e meno omicida; le speranze uccise dai sarcasmi del popolo peggio ancora che dal piombo degli eserciti nemici cadevano come Ferruccio avvolgendosi nelle ultime bandiere.
Don Giovanni assisteva a questa agonia prolungata di giorno in giorno quasi per aumentarne il dolore.
La sua anima era in preda a mille passioni. La viltà del clero tripudiante sulle stragi italiane gli dava a volta a volta degl'impeti disperati, che la sua coscienza di uomo, ribellandosi alla coscienza di prete, portava fino a Dio. La questione del papato avviluppata intorno all'ideale religioso lo aveva reso irreconoscibile, mutando una religione di sacrificio e di amore, talmente pessimista da non considerare il mondo che come un tramite oltre il quale splendeva la verità e si armonizzava la vita, in una feroce idolatria, nella quale le avare ingordigie del tempio e gli ignobili silenzi dell'idolo concordavano alle più ribalde affermazioni. Il pontefice, invece di mostrare ai popoli la croce di Cristo, brandiva la canna dellEcce Homo come una mazza, minacciando di spezzare le teste che non si sarebbero curvate.
I tempi parevano dar ragione al papa. Il cattolicismo sorretto dall'ultima reazione della Santa Alleanza si disponeva a riconquistare Roma abbandonata dalla viltà di Pio IX, mentre la libertà proclamata dall'ottantanove a traverso un'immensa carneficina, e quasi soffocata sotto i disastri del primo Napoleone, stava per essere uccisa. I popoli non avevano in cinquant'anni potuto intenderla. I piccoli re d'Italia accodati agli eserciti invasori, come valletti a saccomanni, servivano gli schiavi che venivano a ristabilirli padroni, intanto che il pontefice, re più abbietto di loro, infangando la propria eterna religione nella politica di un'ultima ora di regno, confermava tutte le menzogne assolvendo tutte le stragi.
Garibaldi e Mazzini soli resistevano.
La rivoluzione dell'ottantanove si riassumeva in loro, Garibaldi ne era il soldato, Mazzini l'apostolo; e poichè la rivoluzione era mondiale, la sua ultima battaglia si combatteva naturalmente a Roma. Tutta l'Europa feudale era discesa sotto le sue mura; perfino la Francia, agonizzante nell'agonia di una falsa repubblica che doveva produrre un più falso impero, mandava i proprii soldati a mutare quell'assassinio in fratricidio.
Tutto sembrava perduto.
Se l'Italia fosse insorta nella rivoluzione e sopraffatta dalla reazione monarchica d'Europa avesse soccombuto, non sarebbe stato nemmeno un disastro. La libertà conservata nelle coscienze avrebbe preparato la rivincita, mentre l'unità del pensiero, la concordia del sentimento, l'identità degl'interessi avrebbero consolato una disfatta istantaneamente mutata in vigilia di guerra.
Invece il popolo credulo ai sofismi del clero, che gli mostrava nella ripristinazione del romanismo la verità della religione cristiana, ammirava la forza degli stranieri invasori.
Giammai nella storia vi fu momento più tragico.
Garibaldi, reso feroce dalla disperazione, irrompeva dalle mura di Roma come Ettore chiamando ad alte grida l'Achille de' nuovi greci, ma dal campo nemico nessuna voce d'eroi gli rispondeva, mentre una immensa moltitudine d'armati lo obbligava invano reluttante a riparare nelle mura. I suoi soldati di un giorno non avevano nè armi nè scampo: italiani di ogni provincia, chiamati dalla rivoluzione, erano venuti a morire nella sua tragedia. Non un dubbio, non un lamento. Roma eterna si stendeva accidiosa dietro loro dalle mura. Il suo popolo troppo pieno di cortigiane e di bastardi, rimasuglio di tutte le schiavitù, guardava con suprema indifferenza di servi, che usi a non pagare lo spettacolo non vi portano più e non ne risentono passione. I fastigi dell'impero e del papato dominavano immani quest'ultima battaglia, che stranieri italiani sostenevano contro stranieri d'oltre Alpe.
L'assedio non poteva essere lungo. Ogni giorno scemava il numero e le forze degli assediati. L'Italia vile come Roma non osava nemmeno incitare i combattenti sopraffatta dal dubbio della vittoria. Nulla. In alto, sopra un colle, non uno dei sette immortali della storia antica perchè sovr'esso doveva cominciare la storia moderna, Mazzini pallido e sereno dominava una piccola assemblea, che percossa dal rombo dei cannoni gli si stringeva intorno. L'immensità storica e il silenzio attuale di Roma sbigottivano la Costituente, assemblea di sbandati, senza nè l'energia del senato nè l'impeto dei comizi antichi, in un momento nel quale nè l'uno nè l'altro sarebbero forse bastati.
Campidoglio e Vaticano, ambedue deserti, intendevano dalla sublimità della loro grandezza a Villa Medici, sede del nuovo Parlamento.
Roma taceva.
Il suo silenzio di quel momento fu un silenzio di morte.
La città, che dopo aver soggiogato il mondo coi Cesari l'aveva dominata coi papi, era esaurita; vi sarebbe ancora una nuova Italia, non vi sarebbe più una terza Roma.
E su quel silenzio di due mondi millenari, che il fuoco degli assedianti non bastava a rompere, Mazzini pronunciò la parola della vita nuova proclamando la repubblica moderna. Dopo i cesari i papi, dopo i papi il popolo. Roma assediata dagli ultimi barbari della monarchia liberava nuovamente il mondo; ma era l'anima italiana che parlava in lei. La proclamazione della repubblica, appena udita per le vie della città, echeggiò dovunque. Un'altra êra incominciava bagnata di sangue come tutte.
Ma unico fra i forti italiani d'allora che affermasse l'unità d'Italia, mentre i più intrepidi di spirito non ne sorpassavano la confederazione, anche Mazzini dovette contraddirsi proclamando una repubblica romana. La sua grand'anima resistè allo schianto di questa contraddizione, che annullava l'affermazione di tutta la sua vita in un momento che la morte rendeva libero da ogni menzogna. Senonchè l'unità da lui affermata magnanimamente non era ancora cosciente nell'anima d'Italia, e Genova e Venezia risognavano le proprie repubbliche marinare, e la Toscana si affermava superbamente augusta in sè stessa, e Napoli invidiosa del Piemonte accarezzava contro di lui la stessa vanità di egemonia, e la Lombardia di tradizioni più incerte evitava di risolvere, e nessuno malgrado le molte adesioni al Piemonte sentiva davvero che l'unità sola poteva produrre l'indipendenza e l'unione d'Italia.
Non v'era che un soldato italiano, Garibaldi, nel quale l'amore d'eroe per l'Italia non fosse scemato dalla passione di nessuna delle sue provincie. Mazzini condotto a Roma dalla stessa fatalità che diciannove secoli prima vi attirava S. Pietro, non potè, limitato più dalle singole insurrezioni italiane che dagli stranieri assedianti, proclamare la repubblica italiana: Napoli e Torino, Firenze e Venezia gli avrebbero risposto negando. Si sarebbe accusato il triumvirato di tirannia, le dinastie sabaude e borboniche colpite nell'egoismo di regno avrebbero urlato alla conquista.
L'unità mancava e doveva mancare ancora dieci anni dopo, giacchè il trionfo della forma monarchica sulla repubblicana significa anche adesso che la coscienza italica per comprendere la propria unità politica aveva duopo di vederla prima in una unione esterna ottenuta dalla conquista di un principe italiano sugli altri, e che la soggezione al nuovo regno calmava le paure della maggioranza sugli effimeri disordini inseparabili da una rivoluzione.
Roma proclamerà la repubblica quando l'Italia sentirà davvero nella coscienza la propria unità.
Allora Mazzini non potè affermare che la repubblica romana, sapendo benissimo che uccisa all'indomani profitterebbe colla propria morte all'Italia. La repubblica romana proclamata fra il Campidoglio vuoto e il Vaticano deserto chiudeva per sempre le loro due epoche; durando, avrebbe invece negata l'unità italiana. A Roma, non più centro del mondo ma capitale d'Italia, la repubblica non può essere che italiana.
Don Giovanni dai colli di Modigliana non guardava più che a Roma. Le notizie arrivavano peggio che incerte, contradditorie. Nella piazza del paese l'albero della libertà, piantato dalla canaglia nella prima effervescenza della sollevazione, si essiccava al sole del tramonto, visitato tutto il giorno da ogni classe di persone concordi nella stessa ironia. Nei paesi vicini gli stessi alberi erano già stati rovesciati. Quello di Modigliana resisteva ancora senza speranza.
In quel tempo la vita di Don Giovanni fu esercitata da terribili agitazioni. L'energia della sua natura eroica lo avrebbe spinto a marciare su Roma cinto dei più intrepidi fra i suoi amici contrabbandieri, mentre la sua coscienza di cristiano e di rivoluzionario glielo impediva. La rivoluzione era immatura nel cattolicismo e nell'Italia; clero e popolo non la sentivano. La generosità di una rivolta, che una morte quasi sicura avrebbe bastato ad assolvere in ogni paese, diventava problematica allora che gli spiriti avevano cessato d'intendersi. Nessuno parlava più della libertà d'Italia: Roma e Venezia sembravano due città straniere assediate da stranieri che si difendessero senza speranza; le vittorie austriache ingigantendo nelle fantasie atterrite la potenza dell'Austria rendevano ridicole e criminose le resistenze. Perchè battersi ancora facendo massacrare tanti poveri giovani? E il clero rispondeva insinuando che la rivoluzione non era per l'Italia, ma contro la religione, e il popolo credulo per secolare abitudine malediva ai rivoluzionari, invocando nel papa il santo dei santi. Le minute superstizioni e i miracoli paesani rifiorivano; lo scombussolamento e le morti della rivoluzione che avevano già esasperato le donne e i vecchi, facevano ormai prorompere gli adulti. Si denunciavano all'odio popolare le società secrete, si ricordavano i tempi della schiavitù colla pace delle anime e degli interessi sotto la sacra tutela del papa.
I volontari ritornati dai campi delle varie guerre regionali erano guardati con orrore misto di scherno: avevano voluto distruggere la religione e vinti erano scappati. Malvagi e vili, ingannati o ingannatori.
Il papa sarebbe presto ritornato a Roma e tutto sarebbe finito.
Infatti Roma dovette capitolare. Gl'Italiani che la difendevano, ridotti senz'armi e senza munizioni, si arresero. Roma non si mosse. Molti ro mani generosi avevano certamente partecipato alla difesa della città santa, ma il suo popolo vi aveva assistito come ad uno spettacolo. Se Roma si fosse difesa come Saragozza, gli eserciti stranieri discordi non l'avrebbero presa; se le popolazioni delle sue provincie fossero insorte, li avrebbero fatti prigionieri. Roma non era più Roma; i Latini, i Sanniti, i Bruzii moderni non somigliavano più ai confederati di una volta, frammezzo ai quali Annibale non aveva osato inoltrarsi. La Costituente si disciolse prosaicamente; Mazzini, ultimo italiano, dovette nuovamente esulare solo.
Appena tacquero i cannoni, squillarono le campane.
La città dei preti e dei servi, usa a vivere della ospitalità degli alberghi, accolse gl'invasori precedenti il pontefice e che tronfi della facile vittoria rattenevano a stento il disprezzo per un popolo senza coscienza di patria in una città, che era stata la coscienza del mondo.
Tutto era perduto. Caduta Roma, Venezia vincitrice non avrebbe giovato nè a sè medesima nè all'Italia.
Un silenzio di morte si stese sulla penisola, rotto dalle chiocce invocazioni del clero osannante nelle chiese al ritorno del pontefice, mentre un gran vuoto si faceva improvvisamente nelle coscienze di tutti. Quella rivoluzione vinta, insultata nell' agonia, morta diventava qualche cosa. Rivoluzionari e reazionari al rumore della caduta di Roma si guardarono in viso allibiti: che cosa significava quella repubblica vissuta un giorno nella gloria tragica di un assedio senza scampo e morta di ferite fratricide senza gettare un grido di paura o di odio?
I suoi soldati, ultimi superstiti di un'epopea che forse un giorno avrà un poeta grande quanto Omero, si dicevano usciti dalle mura, dispersi. Che cosa era avvenuto di Mazzini? Garibaldi era forse prigioniero?
Ognuno se lo domandava, nessuno lo credeva.
Un fascino misterioso circondava quest'uomo rendendolo superiore a tutte le circostanze.
Mazzini esulava, Garibaldi si ritirava, nessuno dei due fuggiva.
Coi rimasugli dell'esercito, forse un quattromila uomini, Garibaldi era uscito al momento della resa da porta S. Giovanni. Il popolo lo aveva visto ritirarsi con un senso di ammirazione paurosa. Come avrebbe egli potuto salvarsi per una campagna tenuta da tre eserciti, ognuno dei quali tanto maggiore del suo? Garibaldi andava innanzi pallido e biondo. La serenità della sua fronte entrando dalla porta nella campagna, era degna di Roma; aveva perduto la battaglia ma la guerra proseguiva. Invece i soldati laceri e sfiniti, senza quella fede incrollabile del generale nella unità d'Italia, cadevano quasi sotto il silenzio di Roma. Non uno sguardo dalle mura dell'immensa città li seguitava per la morta campagna.
La ritirata cominciava senza meta e senza scopo. Perchè salvarsi? Dove salvarsi? La desolazione della campagna, eterna come Roma, avvolgeva la disperazione di quelle ultime ore. Solo Garibaldi alzava la fronte sul deserto e lo dominava colla sicurezza di chi scruta oltre i suoi confini nelle terre che lo attendono. Roma era presa, ma l'Italia poteva sollevarsi ancora. Perchè la ritirata da Roma non sarebbe un ritorno dall'isola d'Elba? Il numero dei soldati non montava, giacchè il popolo è senza numero, e dai monti, dalle valli, dalle pianure che vanno a bagnarsi nelle paludi, dalle città che nessuna milizia occupava, dai villaggi, dai porti, dai litorali deserti, fino dalle vette più inesplorate insorgerebbero italiani al tuono delle nuove battaglie, che inseguito da tutti i nemici egli darebbe a tutti loro per tutte le terre d'Italia. Ora che le singole rivolte erano fallite doveva cominciare la resistenza generale. L'Italia medioevale aveva fatto le ultime prove in questa insurrezione frammentaria, inspirata e sorretta dalle energie delle tradizioni locali, ma un'altra Italia disciplinata da Mazzini nelle società secrete, rappresentata al supremo sacrificio di Roma da' suoi figli più prodi poteva sorgere e vincere.
Traversare l'Italia, sollevarla, spingerla sugl'invasori e mentre essi dispaiono nella battaglia di tutto un popolo contro un esercito, salire sulle Alpi e gridare all'Europa attonita: che la rivoluzione ha vinto e un'altra Italia comincia per tutti una nuova storia di libertà....
Era il sogno di quel momento, l'alba che egli vedeva attraverso il crepuscolo sinistro di quel giorno di sconfitta.
Il pericolo dell'aperta campagna rianima la piccola truppa; Roma si allontana all'orizzonte, mentre il deserto dell'agro romano si distende oltre lo sguardo e le memorie dei più in una desolazione così sublime che rivela loro la grandezza della propria.
L'anabasi incomincia: tre eserciti li cingono e li perseguono. Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude, li inganna; muta passo e direzione ad ogni ora, aumenta di velocità, dissipa le proprie traccie, è introvabile, invincibile. Agile come un serpente, ha dei balzi e delle ferme di leone che seminano nei persecutori la confusione e la paura: guadagna i monti e vi si perde, sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando gli stratagemmi e gli eroismi, lasciando ad ogni tappa una gloria e una speranza.
Il popolo non si è mosso e non si muove. I contadini lo guardano passare svelto e superbo pei campi, seguito da soldati che di umano non hanno più che la fatica e il dolore, e abbassano gli occhi colla indifferenza di una ignoranza cui nulla più commuove, di una servitù che da secoli non ha più tentazioni di libertà. Le città e i villaggi, dove giunge, non lo ricevono o almeno non vorrebbero riceverlo, percossi dalla notizia degli eserciti che lo inseguono o meravigliati di vederlo vivo e forte, mentre una voce misteriosa lo annunziava morto ad ogni ora. L'orrore dei sacrilegi immaginari di Roma allontana da quei superstiti ribelli la pietà dei credenti, che il ritorno del papa ha entusiasmato; le amare delusioni rivoluzionarie li colpiscono, il solito disprezzo pei vinti li insulta.
Il piccolo esercito non è più che un manipolo, la stanchezza disperata delle marcie ha di già abbattuto la maggior parte dei soldati avviliti dalla indifferenza ostile del popolo. Solo Garibaldi, che non spera più, non cede ancora. Invece di irritarsi di quella viltà del popolo, la comprende e lo compiange. Tre o quattro secoli di schiavitù non si cancellano in un giorno: il popolo che non ha ancora potuto credere, malgrado ogni dimostrazione scientifica, al giro della terra intorno al sole, perchè crederebbe subito che la storia giri intorno alla libertà? I dolori centenari della sua immobilità sulla gleba fecondata sotto l'occhio avaro del padrone e il sorriso beato del prete erano ben maggiori delle sofferenze di quella ritirata, che la morte poteva ad ogni istante interrompere e consolare: ma il popolo che non muore e non si ritira, non poteva credere ancora alla propria resurrezione, nè all'eroismo di coloro che avevano invano tentato di morire per ottenergliela.
Garibaldi marciava sempre. Amici e nemici, nessuno in Italia sapeva bene dove si trovasse; egli stesso ignorava la propria meta. Un istinto lo guidava. La reazione trionfante in tutta l'Europa si ricordava appena di lui per chiedere sbadatamente se lo avessero fucilato, il popolo l'abbandonava, Mazzini l'astro del suo pensiero era scomparso o si era spento, Roma si stordiva d'incenso e di scampanio, i tedeschi stavano per uccidere Venezia, Genova più infelice era stata riconquistata dai Piemontesi.
Egli solo, inerme capitano di un manipolo d'inermi, restava all'Italia.
La sua coscienza lo sentì. Per una di quelle attrazioni che la poesia è pronta a cogliere ma delle quali il volgo ride, avendo invano traversato l'agro latino, l'Umbria, le Marche verso la Romagna, si diresse a S. Marino per disciogliervi, ultimo difensore della repubblica romana, nell a libertà della sua minima ed antica repubblica, le supreme reliquie dell'esercito, col quale aveva sognato di sollevare l'Italia. I tempi non erano maturi: d'altri dolori e di più profondi studi aveva d'uopo l'Italia per risorgere.
Egli riservato a quel giorno doveva restar solo e sparire.
Quindi senza un lamento congeda il drappello degli ultimi che l'avevano seguito. Napoleone aveva singhiozzato a Fontainebleau stringendo la mano al generale della sua vecchia guardia, e sublime egoista le aveva gridato: Scriverò nell'esilio quanto operammo insieme! Garibaldi moralmente più grande si perde nella sventura d'Italia e non ha un solo motto d'orgoglio dopo tanti eroismi. Al momento di sbandarsi generale e soldati, egualmente profughi e cercati a morte, dimenticano ogni gerarchia di merito e di ufficio per stringersi semplicemente la mano, forse per l'ultima volta, e si separano.
Egli volle restar solo.
L'epopea si muta in romanzo. La ritirata è finita, il pellegrinaggio incomincia. Invano gli consigliano di radersi la barba e di mutare abito, giacchè la sua fisonomia e il suo abbigliamento reso popolare dai ritratti è nella coscienza di tutti. Egli nega, non sa dirne la ragione, ma nega. Tale prudente menzogna del viso e delle vesti avrebbe mutato il suo pellegrinaggio in una fuga, e Garibaldi non può fuggire. Sua moglie Annita, meravigliosa fusione di Andromaca e di Clorinda, lo segue incinta e non teme; un amico solo, un capitano, li accompagna. Come ha egli ottenuto questo privilegio? Forse da Annita troppo ammalata malgrado tutto l'eroismo del suo cuore.
Da S. Marino scende al mare, s'imbarca, approda tra le valli di Comacchio, s'interna nella pineta di Ravenna; perchè raccontare tutto questo? Troppo e troppo sconciamente lo dissero poi tutti coloro che lo giovarono di aiuto. La vanità dei salvatori fu questa volta maggiore della grandezza del salvato; egli aveva sempre ricordato nel silenzio della gratitudine, essi si percossero di contumelie dopo la sua morte, litigandosi ognuno il vanto di averlo salvato e confessando così tutti insieme di non averlo conosciuto.
Ma la sventura d'Italia persegue l'ultimo italiano; come l'Italia aveva tutto perduto in quell'ora, a lui non doveva restare nulla, nè un soldato nè un amore. Annita vinta dal travaglio di quella caccia, che non dà requie, s'arresta un momento e spira. Garibaldi, solo, non può nè soccorrerla nè seppellirla. Il suo dolore rugge colla bufera che tormenta la pineta, ma la sua anima non cede tuttavia alla tentazione della morte.
Morta Annita, l'Italia moribonda che aveva con lei diviso il suo cuore, vi rimane sola, sventurata erede di nuova sventura; ma il cuore di Garibaldi non si restringe. E i pericoli si rinnovano, la morte incalza. Adesso tutto il mondo sa che Garibaldi, congedati gli avanzi dell'esercito col quale era sfuggito alla capitolazione di Roma, erra sul littorale di Ravenna in cerca di scampo: spie e pattuglie lo cercano. Appena ravvoltolato nella sabbia il cadavere della povera Annita, che i cani scovrirono e rosicchiarono nella notte, muta ricovero di capanna in capanna, protetto da povera gente, più triste perchè più solo, ma quasi tranquillo. Tutte le speranze d'Italia erano ospitate nel suo cuore: egli lo sentiva e camminava senza affrettarsi e senza nascondersi, seguendo le guide che il destino gli mandava e dicendo a tutti:
— Sono Garibaldi, insegnatemi la strada.
Quale?
E lo guidavano al sicuro.
Fra tanti, cui si scoperse, nessuno dubitò di lui e lo tradì. Un fascino fatale lo proteggeva. Biondo, coi capelli lunghi come la criniera di un leone, coll'occhio azzurro come l'azzurro delle più belle albe italiane, vestito come tutti i soldati d'Europa l'avevano veduto sulle mura di Roma fra le tempeste dell'assedio, nessuno dei tanti drappelli nemi ci, cui s'imbattè, lo riconobbe. Se gli avessero chiesto il nome, avrebbe risposto:
— Garibaldi.
Non glielo chiesero.
Egli taceva abbandonato al proprio destino, non avvertendo quasi più nulla di quanto accadeva intorno a lui. Una quiete superba si veniva facendo nel suo spirito, come una inesplicabile sicurezza di essere già in salvo per potere più tardi salvare l'Italia, e che raggiandogli da tutta la persona assoggettava istantaneamente quanti gli si accostavano per aiutarlo. Non pareva più un proscritto, ma un incognito fatato e fatale. Comandava e accettava serenamente grato della assistenza e sicuro nel comando.
E alla voce che lo gridava già morto quando nei giorni passati alla testa di quattromila uomini scorreva l'appennino, ora più solo e abbandonato che in alcun tempo della sua vita, ne era succeduta un'altra che lo diceva salvo. Nessuno sapeva nè dove nè come, ma Garibaldi doveva essere salvo.
Dai monti di Modigliana Don Giovanni tendeva l'orecchio a questa voce.
Per lui Garibaldi era ormai tutta l'Italia. La rivoluzione fallita per sola colpa degli Italiani, che l'avevano indebolita disgregandola nelle vanità delle singole provincie, non aveva avuto che due uomini, Garibaldi e Mazzini: tutti gli altri per quanto alti di pensiero e generosi di sentimento non erano arrivati al concetto in una sola Italia. La maggior parte di essi, mascherando le vanità paesane di piccoli studi storici, invocavano una federazione che mancando dell'idea fondamentale dell'unità non avrebbe mai potuto produrre la necessaria unione di tutti gl'interessi divergenti per combattere lo straniero e conquistare la libertà. La confederazione possibile in uno Stato già indipendente o livellato da una servitù uniforme, nell'Italia d'allora non era che una ipocrisia dietro la quale i suoi piccoli Stati tentavano salvarsi dalla rivoluzione; e coloro fra i rivoluzionari che la caldeggiavano, e ve ne furono d'illustri, dimenticavano la vera necessità del momento politico per smarrirsi nella compiacenza di un futuro discentramento amministrativo, il quale giovandosi dei caratteri spesso antagonisti delle nostre razze, e delle incredibili differenze del nostro clima, traesse poi da tutte le nostre forze parallelamente ordinate tutta la varia quantità di risultati che possono dare.
Don Giovanni si era accorto fra i primi dell'errore della confederazione. I moti parziali che avevano preceduto il 48, determinati dalle diverse energie e condizioni delle provincie, erano miserevolmente finiti: gli stessi dolori li avevano eccitati, le medesime vanità li avevano condotti a fallire. Austria e clero tremendamente unitari avevano sempre riso e seguiterebbero a ridere di ogni tentativo rivoluzionario senza unità di mezzi e di scopi. Le monarchie italiane costrette dalle necessità dei tempi a simpatizzare colla rivoluzione, negandola nel proprio secreto per egoismo d'esistenza, parlavano naturalmente di costituzione e di confederazione per indebolire con piccoli fatti liberali e con grandi promesse di libertà l'apostolato di Mazzini, che secondata abilmente l'illusione federale monarchica, era ritornato più forte di prima alla predicazione dell'unità.
Ma i tempi immaturi gli avevano mancato. Austria e clero coalizzati avevano trionfalmente resistito a tutti gli sforzi del suo genio. Caduta Roma, l'Italia rientrava nella infermità delle proprie forme storiche, uscendo dalla rivoluzione come da un brutto sogno.
Il solo torto di Mazzini, secondo Don Giovanni, era di aver troppo insistito sulla necessità di un nuovo cristianesimo più morale che dogmatico, senza tradizioni e senza gerarchie. Certo nessuna rivoluzione può prescindere dall'elemento religioso, sotto pena di non essere rivoluzione intiera, ma quel dissidio filosofico con Roma aveva indebolito, disperdendolo in altri campi, lo sforzo rivoluzionario. La rivoluzione francese più abile e più profonda aveva preferito negare il cattolicismo per giovarsi dei dolori e degli odii da esso prodotti in tanti secoli di tirannia e di corruzione. Mazzini aveva sognato contemporaneamente la resurrezione e la rigenerazione dell'Italia. Era troppo. La lirica delicata e veemente del suo sentimento religioso, invece di sollevare gli animi contro le brutture del cattolicismo, riscalducciava la bigotteria latente in tutte le coscienze rendendo più ascoltati i preti, che affermavano essere nella religione l'unica verità della vita. Troppa era ancora l'ignoranza e la bassezza di cuore perchè il nuovo cristianesimo umanitario di Mazzini fosse compreso.
E piuttosto che una riforma questo pareva ai più una confessione umiliante d'inferiorità in faccia al cattolicismo, mentre la scienza aveva già spezzata da un pezzo l'orbita cristiana.
Invece Garibaldi, cansando il problema della rivoluzione religiosa, aveva urtato impetuoso nell'ignobile tirannia di Roma: quindi coll'infallibile intuizione popolare affermando cattolicismo e romanismo, clero e religione identici nell'attualità storica, aveva capitanato contro di essi l'odio delle plebi, solo rattenendolo negli accessi per magnanimità di natura. Se nessuna forma religiosa era stata rispettata da lui, nessun prete innocente o colpevole aveva patito per secuzioni.
Questa sintesi del suo cuore era stata più larga ed efficace della sintesi intellettuale di Mazzini per la rivoluzione.
Garibaldi solo in quel momento era tutta la rivoluzione: guai se fosse morto!
A questo pensiero, che lo tormentava notte e giorno, Don Giovanni si sentiva letteralmente morire. L'inerzia, nella quale si era per eccesso di chiaroveggenza condannato durante il periodo rivoluzionario, gli aveva prodotto nell'anima una specie di sdegno contro sè medesimo che l'azione solamente avrebbe potuto calmare. L'agonia d'Italia gli diventava rimprovero alla calma della sua vita di cacciatore e di prete. Bisognava pur soffrire e morire in un'ora che Dio aveva concesso alla morte. A Napoli, a Roma, a Venezia, a Milano, dappertutto si moriva: gli ultimi tiranni trucidavano i nuovi martiri; framezzo a un popolo per troppa miseria ignaro ed ignavo drappelli di generosi morivano baldamente, gettandogli per ultimo grido una parola di rivolta e di amore.
Garibaldi errava solo per la foresta di Ravenna; così gli avevano scritto vecchi congiurati. Bisognava quindi salvarlo, adesso che Roma da lui difesa sorrideva agli stranieri invasori e Venezia si arrendeva, e il Piemonte per conservare la larva del proprio statuto sotto le minaccie dell'Austria mutav a larva di re; e il triumvirato toscano, ombra del triumvirato romano, spariva nelle tenebre della reazione granducale; e i borboni ritiravano a Napoli la costituzione insanguinandola nelle vie, e la rivoluzione falsata a Parigi dalla repubblica francese, che mandava ad assassinare la repubblica romana, era tradita a Vienna, soffocata a Berlino nel sangue più generoso: salvarlo adesso che generale senza esercito errava fra il popolo incapace di riconoscerlo, ormeggiato da spie, circuito da pattuglie pronte a fucilarlo! Morire ma salvarlo, perchè egli solo poteva un giorno rialzare l'Italia, essendo stato solo a concepirla e a combattere per l'Italia libera ed una! Mentre i più illustri uomini delle varie provincie disonoravano di lamenti e di contumelie reciproche la sventura di quell'ora, Garibaldi già rituffatosi nel popolo e subitamente dimentico della propria gloria di generale, non si difendeva, non si vantava. Come prima di battersi in Italia per l'Italia, comprendendo per lei il bisogno di una nuova gloria militare, era andato a conquistarla in America: sentendo che il torto della rivoluzione fallita era solo dell'Italia, più coraggioso di tutti nascondeva col proprio silenzio quella viltà all'Europa, conscio per prova che il raccoglimento del dolore è sempre più fecondo di tutta l'agitazione delle diatribe. Taceva ed errava. Dov'era in quell'istante? Qual nuovo disastro lo colpiva?
Ma Garibaldi non poteva salvarsi che per la via di Toscana. L'esperienza di Don Giovanni, che aveva trafugato tanti proscritti, lo assicurava di questa necessità. Tutta la legazione di Ravenna era coperta di pattuglie e di spie; impossibile penetrare nel Veneziano o muovere per Bologna verso i ducati.
Ma ad ogni ora il pericolo aumentava: i minuti erano forse contati.
Dov'era Garibaldi?
Sotto il suo mantello di proscritto egli portava allora tutta la fortuna d'Italia.
Bisognava salvarlo a qualunque costo, e che un prete fosse il suo salvatore.
Garibaldi rimasto solo non era più l'eroico avventuriero d'America, che figlio di patria schiava vinceva per la libertà di altre terre; non il generale improvvisato che difendeva Roma contro l'Europa e la repubblica contro l'impero e il papato, ma tutta la rivoluzione. Coll'infallibile istinto del genio, fallita l'impresa di sollevare l'Italia, aveva licenziato i soldati rinunciando a ritardare inutilmente la resa di Venezia. Nessuna resistenza giovava più; bisognava riserbarsi ad altro tempo, forse prossimo, ritemprandosi in migliore preparazione. La nuova rivoluzione avrebbe mutato metodo e processo. La trepidazione vile ed avara, colla quale tutt i i piccoli governi della penisola s'affannavano a ritirare dal naufragio quanto meglio potevano, profittando magari delle peggiori condizioni del vicino, significava che della rivoluzione vinta e della rivoluzione futura non avevano la più piccola coscienza. Dopo di essersi battuti per velleità nevrotiche contro lo straniero, si liticavano stiracchiando i confini come i moribondi tirano le lenzuola. Avrebbero ceduta tutta l'Italia per protrarre di un miglio la propria linea doganale.
Roma benediceva e malediva. Per lei tutta la rivoluzione era infame, e l'Austria tiranneggiava l'Italia per diritto divino, e Ferdinando valeva S. Luigi, e Isabella di Spagna Santa Teresa, e la libertà era falsa, la patria solamente in cielo, la storia italiana immutabile col papa re di poche provincie esauste, col napoletano selvaggio nelle campagne o putrido nelle città, col lombardo-veneto soffocato dai croati, coi ducati lacerati da maniaci come Carlo III o da usurai come Francesco V, con governi tutti senza garanzia di rappresentanza nazionale, coi mari senza navi, coi campi senza strade, colle frontiere senza eserciti, colle scuole senza scienze, colle arti senza ideali, colle chiese senza Dio.
Era il programma di Roma.
No.
Non era vero, nè il cristianesimo nè il cattolic ismo erano così. La redenzione di Cristo non poteva conchiudere all'oppressione del mondo per opera della sua chiesa. Una difficile e tremenda menzogna agiva dentro la tradizione divina. La storia ecclesiastica, che avrebbe dovuto essere la storia dell'ideale verso cui la storia umana piena di delitti e di catastrofi doveva costantemente sollevarsi, non era più stata, dai primi tempi della persecuzione e dell'assisa dei dogmi, quello che doveva. Il mondo da lei purificato l'aveva corrotta; filtri e lambicchi finiscono sempre così. I papi s'erano scannati fra loro, i cardinali li avevano venduti, gl'imperatori erano spesso riusciti ad assoggettarli; i preti, eredi di martiri, che avrebbero sempre dovuto aspirare al martirio, s'erano abbandonati alle cupidigie di ogni impero, e impotenti perchè il loro carattere sacro derivava da una amputazione del carattere umano, avevano finito col preferire le ricchezze alla gloria. Per conservare un minimo regno ottenuto da una falsa donazione, quasichè i regni potessero donarsi, difeso per secoli contro insurrezioni feudali e municipali, sempre negato dal popolo, non avevano dubitato di turbare la storia di tutte le genti. Possessori di beni immuni d'imposte, esenti da ogni obbligo civile, erano quindi diventati stranieri nel mondo, entro il quale per turbolenza di vizi avevano voluto discendere e sul quale avevano regnato nel nome dell'ideale. No; Roma, sede del papa perchè il cattolicismo è universale, non poteva e non doveva essere un feudo del pontefice prolungando nel mondo moderno l'errore della feudalità, che faceva risiedere la sovranità in un uomo invece che nella legge. Il cristianesimo non era monarchico; il mosaismo stesso non lo era stato che a malincuore e solamente di forma, poichè la legge non v'era fatta dal re. Perchè dunque il papa avrebbe un regno? Per la sua libertà? Ma un papa è sempre libero, perchè la religione è un fatto della coscienza; si può uccidere un papa, non dominarlo. E perchè egli temerebbe di morire per opera di coloro, che incapaci ancora di apprendere le divine verità del cristianesimo rappresentano gli eterni gentili, che il cristianesimo deve convertire? Una religione non deve essere sempre in istato di conquista, e nella conquista il vincitore non muore quasi sempre?
Che cosa era il cattolicismo nel cristianesimo? L'uniformità entro l'unità, mentre il protestantesimo e tutte le altre confessioni ne rappresentavano la varietà. Il cattolicismo era necessario al cristianesimo come la grande strada ai viottoli, che vi si immettono, ma a traverso le sinuosità di ogni curva l'una e gli altri miravano alla medesima meta.
Perchè dunque i papi volevano un regno puramente mondano e i preti cercavano sottrarsi ai pesi che la vita e la storia distribuiscono al resto degli uomini?
Ma a traverso tutte queste domande in lui ancora troppo torbide un'idea si faceva largo e splendeva.
Un prete doveva salvare Garibaldi.
Egli voleva essere quel prete.
Era tempo.
Da molti secoli Roma difendeva cogli anatemi i propri privilegi politici, ma perdonando fatalmente appena fossero del tutto perduti. Esenzioni dalle imposte, decime, immunità, gradi, uffici, tutte le forme politiche del cattolicismo nel medio evo erano state abbandonate da Roma dopo la più accanita difesa senza che coloro stessi, che li oppugnavano, credessero di uscire dal cattolicismo. E Roma non aveva osato ostinarsi nella contraria teorica. Invincibile nelle polemiche, aveva sempre creduto alle resistenze popolari contro i suoi privilegi mondani. Le discussioni filosofiche presto o tardi andavano a percuotere in un dogma incrollabile sfracellandovisi, e Roma allora le designava al mondo con una condanna: l'opposizione muta e sorda del popolo contro le sue esorbitanze di regno o i suoi eccessi di dottrine tendenti a pareggiare nella necessità della salvezza i precetti disciplinari ai dogmi fondamentali, l'avevano sempre costretta a rientrare lentamente in sè medesima.
Bisognava dunque agire invece di discutere, perchè le polemiche irritano e gli esempi confortano. In quel momento Roma papale rinnovava tutti gli errori de' suoi molti secoli di storia. Il papato ricomponendosi il trono sulle rovine della rivoluzione aveva bisogno della morte di Garibaldi; questi vivo, il popolo si ricorderebbe sempre della breve repubblica romana guardandone i triumviri o il generale e li stimerebbe sempre capaci di ricominciare. L'Austria accorsa in aiuto del papa aveva altrettanto bisogno di uccidere in essi l'idea della unità italiana. Gli ultimi casi della guerra si prestavano meravigliosamente a una fucilazione quasi irresponsabile per il governo; una pattuglia l'eseguiva, se ne riprovava magari l'uffiziale, premiandolo secretamente. Le monarchie e i ducati italiani ripristinati, folli di paura e d'egoismo reazionario, applaudirebbero: il popolo mal desto dalla rivoluzione, aggirato dalle calunnie, blandito negli interessi e nelle abitudini lascerebbe compiere il delitto, che una interpretazione vaticana avrebbe subito chiamato espiazione.
Bisognava che un prete scevro d'intenzioni riformiste e rimasto come estraneo alla rivoluzione lo impedisse.
Ciò avrebbe significato che Roma aveva torto e che la dottrina di Cristo non escludeva nessuna libertà. Il cattolicismo distrigandosi così dal romanismo nella coscienza del clero avrebbe affermato che il papa infallibile nella definizione di un dogma era fallace in tutto il resto, e che gli si doveva magari in certi casi resistere.
Erano idee vecchie, ma erano la stessa rivoluzione tentata invano dai magni spiriti ribelli e che avrebbe finalmente trionfato contro la Roma dei papa-re. Salvare Garibaldi non era un votare per la repubblica romana, che aveva dichiarata la fine del potere temporale? Garibaldi riassumeva nella propria figura il principio e la storia della rivoluzione.
Se Don Giovanni avesse potuto salvarlo, Roma non avrebbe osato condannare.
Don Giovanni era sicuro di ciò; avrebbe potuto essere ucciso da una pattuglia non colpito da una sentenza. Roma costretta a contraddirsi dalla religione di Cristo, ecco l'immenso beneficio religioso che sarebbe derivato al mondo dal supremo beneficio politico di aver conservato Garibaldi all'Italia.
Così fu.
Dopo parecchi giorni di giri e rigiri per la pineta colle pattuglie nemiche sempre alle calcagna, Garibaldi si decise per consiglio di coloro che lo proteggevano ad abbandonarla. Siccome l'unica via era quella di Toscana, fu scritto a D on Giovanni. Non gli si poteva indicare il giorno, ma lo si avvertiva di trovarsi dalla sera all'alba presso la dogana delle Balze. Così la rivoluzione finiva dopo un lustro circa dove era scoppiata l'insurrezione. Egli non vi mancò. Tutte le notti andava solo, mutando strada, armato, a questo appuntamento, dal quale dipendevano le sorti dell'Italia. Nessuno ne sapeva nulla: le sue abitudini di cacciatore lo protessero anche questa volta. Erano aspettazioni tremende. Accovacciato sopra la strada dietro un rialzo, dominandola per quanto le sue sinuosità glielo permettevano, tendeva gli occhi e gli orecchi nel buio per distinguere ogni passo. Nella sua fantasia diventata improvvisamente timida si componevano e svanivano mille scene drammatiche: Garibaldi non poteva giungere al confine, lo avevano già arrestato nella pineta, lo inseguivano lungo la strada, lo raggiungevano tempestando; Garibaldi inerme non tentava nemmeno di fuggire.... Era preso!
Più spesso gli sembrava di distinguere nel buio la sua fisonomia in tutti coloro che passavano in biroccino. Quando i doganieri entravano o uscivano dalla dogana per disporre un agguato ai contrabbandieri, gli pareva che guardassero nella tenebra contro di lui e sorridessero. Anch'essi sapevano che aspettava Garibaldi! E allora le sue mani stringevano convulsamente la carabina, mentre tutti i muscoli gli si tendevano per un balzo improvviso. Gli sembrava che Garibaldi sorgesse in quel momento alla svolta della strada.... e allora egli gli saltava incontro gridando:
— Fuggite, basto io a trattenerli.
Se quelle notti fossero state molte, la sua ragione ne avrebbe sofferto. Ma l'appuntamento venne mutato; era stata scelta la strada di Ravenna per la Coccolia e Forlì. La notte del 20 agosto Don Giovanni, avvisato, si recò in cima al monte di Trebbio, che divide Modigliana da Dovadola: pioveva dirottamente. Giunse Garibaldi in carrettino; Don Giovanni uscì dal nascondiglio, il cuore gli batteva da scoppiare. Non aveva riconosciuto il Generale perchè non lo conosceva, ma lo aveva sentito. La strada e la notte erano deserte: nè un baleno, nè una voce.
Garibaldi già disceso aiutava un compagno.
— Sono io, disse Don Giovanni.
— Sono io, rispose Garibaldi.
Tutto era detto.
— Andiamo?
— Il mio compagno è ferito e non può camminare, soggiunse Garibaldi
con voce calma.
Don Giovanni, che aveva riacquistato tutta l'energia della propria natura nel pericolo di quel momento, ebbe un impeto che frenò a stento. Che importava del compagno?
La strada era pericolosa, da un istante all'altro si poteva essere sorpresi. Perchè imbarazzarsi di un soldato? Egli, Don Giovanni, andrebbe avanti: al primo incontro ripiegherebbe; se fossero gendarmi direbbe a Garibaldi di fuggire e resterebbe a divertirli facendo fuoco. Perchè un compagno? mormorava nel proprio pensiero.
— Bisogna trovare una vettura.
La voce del generale era dolce ma imperiosa. Don Giovanni ubbidì; proseguirono essi a piedi, il ferito sul carrettino che li aveva condotti. Lungo la strada abitava un altro parroco, amico e congiunto di Don Giovanni; questi batte all'uscio, lo fa alzare, gli domanda cavallo e carrettino. L'altro acconsente. Don Giovanni fa guidare al garzone di casa, tanto per aver qualcuno da ricondurre il cavallo; giungono al Marzeno. Il temporale ha mutato il fiume pacifico in furioso torrente.
Don Giovanni rimanda garzone e cavallo.
La notte era fosca, il fiume ruggiva. Allora Don Giovanni si offerse e impose a Garibaldi e al suo compagno di montargli sulla schiena: egli si sarebbe lanciato a nuoto portandoli così sull'altra riva. Era talmente sicuro di sè che non si spogliò nemmeno. Garibaldi titubava. Marinaio, gli sembrava ridicolo guadare un fiume sulle spalle di un altro uomo. Ma in quel momento Don Giovanni, che avendo deposto il capitano Leggero sull'altra riva ritornava per prendere Garibaldi, gli disse colla voce ferma di chi sa di essere l'arbitro della situazione, presentandogli le spalle:
— Montate; Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio
fiume.
Garibaldi comprese la semplicità eroica dell'invito e si arrese. Quando toccarono la sponda Don Giovanni trasse un forte respiro, e cercando la mano del Generale gli disse con voce tremante:
— Grazie!
Passato il pericolo l'emozione lo vinceva. Ma fu un attimo; si abbassò, afferrò robustamente il ferito disteso sull'erba, se lo caricò sulle spalle e, accennando a Garibaldi di seguirlo per un sentiero tortuoso e dirupato, guadagnò l'orto della propria casa e furono al sicuro.
La grande azione della sua vita era compiuta, tutto il resto ne discese.
Perchè raccontare la vita degli otto giorni che Garibaldi passò nella sua casa? Quello che dissero e quello che sognarono per l'Italia? Don Giovanni nella forte modestia della propria natura non se ne aperse con alcuno; quello solo che poterono poscia indovinare gli amici fu che Garibaldi temeva per Don Giovanni, e questi per Garibaldi. Perchè il Papa re di Roma, che faceva fucilare a Rovigo l'eroico Ciceruacchio e Ugo Bassi a Bologna, non avrebbe inferocito su Don Giovanni?
Una grande ragione v'era che Garibaldi in quel momento non capiva.
Dopo otto giorni, combinati accordi con altri patrioti, Garibaldi sempre guidato da Don Giovanni, prese l'Appennino, giunse a Palazzuolo, e per Pietramala, le Filigare e Prato potè arrivare a Talamone.
Al momento di partire da Modigliana, il più ricco possidente del paese, certo Papiani, l'unico che Don Giovanni avesse messo nella confidenza di quella perigliosa ospitalità, offerse timidamente a Garibaldi tutto il denaro della propria cassa. Questi gli strinse la mano e rifiutò cortese, ma austero.
L'altro insisteva; Don Giovanni, che sapeva il Generale senza un soldo e che non ne aveva neppure egli per imporglieli col diritto dell'amico, che gli salvava la vita, sorrideva.
Garibaldi mantenne il rifiuto.
Partirono in una notte cupa; sempre pei monti giunsero sopra la Badia di Susinanna, antico feudo del celebre Maghinardo.
Erano sfiniti. Don Giovanni vi conosceva un mulattiere, che abitava presso il mulino, e pensò di svegliarlo per chiedergli i muli. Nascose i due compagni in una fratta e avanzandosi sotto la casa lanciò un sasso alla finestra del m ulattiere.
I monti neri nella notte, appena divisi dal fiume, parevano più sinistri in quella gola; l'acqua mormorava sotto il ponte con lamento continuo.
La finestra si aperse.
— Chi va là?
— Sono io, Don Giovanni di Modigliana.
— Oh! che c'è?
— Scendi.
— Che c'è? Vengo subito: come mai lei qui? vengo, ecco!
E si sentiva il mulattiere meravigliato di quella visita parlare ad alta voce nella camera vestendosi.
Poco dopo aperse l'uscio di casa; teneva una lanterna in mano.
Don Giovanni vi soffiò sopra.
— Che c'è?
— Sono io, zitto! Hai i muli a casa, Pio Nono?
Era questo il soprannome del mulattiere, e ricordandoselo Don Giovanni sorrise.
— Ne ho uno solo.
— Basterà: mettigli il basto, debbo andare a Palazzuolo. Ho meco due
signori, sono stanchi. Che cosa vuoi?! non conoscono la montagna.
— Già, signori di città... ci vuole altro per i nostri monti. Lei,
viene da Modigliana?
— Sì.
— Entri, sarà stanco, mi faccia l'onore ... Ecco, veda; ho ancora in
casa due fiaschi. Ma perchè mi ha spento il lume? scoppiò improvvisamente a dire.
— Via via, fa presto; non entro. Ho lasciato quei signori, vado a
trovarli. Metti il basto al mulo e sali sulla strada: noi vi saremo.
Lo lasciò.
Dopo cinque minuti Pio Nono apparve sulla strada tenendo il mulo per la briglia: la bestia s'arrampicava con passo violento, si sentivano i suoi ferri battere contro i ciottoli.
— Ohè, piano! urlava Pio Nono, rattenendola per la catena.
La bestia era impetuosa, nera e piccola. Pio Nono ansava.
— Ecco! esclamò scorgendo il gruppo dei signori. È un mulo troppo
vivo, e lo frenava con visibile sforzo, mentre colla voce sembrava incoraggiarlo, superbo di quella sua vivacità.
I tre parlamentarono; il capitano Leggero dovette inforcare il mulo.
— Io vado innanzi, disse Don Giovanni a Pio Nono traendolo in disparte
mentre teneva sempre la catena del capezzone nella mano, e il mulo impaziente scalpitava sbuffando: lasciami cento o centocinquanta passi di scampo; se incontro una pattuglia...
— Ah! — esclamò soffocatamente Pio Nono.
— Hai capito! Io torno addietro, tu caccia il mulo nel bosco, nel
campo, nascondilo o, se non è possibile, ripara i due. Io fischierò, in una stretta faccio fuoco.
— Oh!
— Non hai paura tu?
Pio Nono non rispose.
— Siamo intesi?
— Ma chi sono?
— Umh! E Don Giovanni si mise l'indice sulla bocca; si trasse il
fucile dalla spalla, l'armò.
— Vado innanzi, siamo intesi.
Don Giovanni si perdette alla prima svolta del sentiero.
Pio Nono era rimasto pensieroso. Amico di Don Giovanni e conoscendone le azioni, pensò tosto che quei due signori fossero due banditi, come si diceva nel linguaggio del popolo, ma importanti. V'era dunque un pericolo serio ad accompagnarli.
Ma Pio Nono era naturalmente coraggioso. I due tacevano; quello a piedi camminava alla testa del mulo. Pio Nono colla catena del capezzone nelle due mani stava indietro il più possibile e si faceva quasi trascinare per moderare l'andatura della bestia. Pensava fra sè inquieto:
— Piano, Garibaldi! gridò improvvisamente.
I due si voltarono.
— Garibaldi! ripetè Pio Nono dando uno strappone al mulo.
Garibaldi gli si avvicinò.
— Che cosa c'è? Mi avete chiamato?
— Chiamato? Che! È il mulo che non vuole andar piano. Don Giovanni mi
ha pure detto di andare adagio. È il mulo, sa; ha quattr'anni, è troppo ardente. L'ho comprato due anni fa a Scaricalasino. Era grande come un porco, ma bello veh! Me lo sono fatto io. Gli ho messo sul groppone sino a due balle da quattrocento libbre l'una; pare una bugia a dirlo. E sa come me lo hanno battezzato? Indovini? ma già, ha sentito come lo chiamo; gli dicono Garibaldi.
— Ah! Garibaldi sorrise voltandosi al capitano Leggero.
— Da quanto tempo, questi domandò, chiamate così il vostro mulo?
— Oh! non è molto, da quando è incominciata la rivoluzione. Garibaldi
è il migliore soldato, e il mio mulo è il miglior di tutti: non è vero tu, Garibaldi?
Si voltò alla bestia, scuotendo la catena. Il mulo s'impennò quasi.
— Piano, piano: vuoi proprio fare il Garibaldi? E dopo una pausa:
Anche lui chi sa dov'è, poveraccio!
L'accento di quest'ultima frase era così buono che Garibaldi commosso gli tese la mano.
— Che cosa vuole? rispose Pio Nono imbarazzato da quel gesto.
— Garibaldi sono io: vi stringo la mano, non posso ringraziarvi
altrimenti.
E la voce e l'attitudine del Generale furono così epicamente semplici, che l'altro comprese di botto: e abbacinato, più incerto ancora dopo aver compreso, tremante di un sentimento inesplicabile allora e che neppure in seguito è mai riuscito a spiegarsi, lasciò sfuggirsi la catena.
— Eh via! Pio Nono, seguitò allegramente il Generale: non c'è da
ridere piuttosto?
In quel momento riapparve Don Giovanni.
— Niente? gli domandò il capitano Leggero.
— Che c'è?
— Don Giovanni! esclamò ancora attonito il mulattiere: è lui
Garibaldi, non il mio mulo.
Don Giovanni comprese che Garibaldi si era nuovamente scoperto e voltandoglisi bruscamente:
— Ma Generale...
— Oh! questo Pio Nono non è come quell'altro, non tradirà.
Vent'anni dopo Pio Nono mi raccontava in una bettola di Palazzuolo il grande aneddoto della sua vita.
— E il mulo? gli chiesi.
— Di quelli non ne ho avuti più.
— Come Garibaldi.
— Con tutto il rispetto di lei e di lui, già!
Ora Pio Nono dev'essere molto vecchio, ma siccome fa ancora il carbonaio e la fuliggine dei sacchi gli tinge barba e capelli, è impossibile indovinare quanti anni abbia.
IV.
Appena salvato Garibaldi, l'opera di Don Giovanni fu conosciuta da tutti: non ch'egli la dicesse, ma coloro che avevano preso parte all'ultima fuga da Modigliana per l'Appennino, di confidenza in confidenza la propalarono. Il vescovado ne venne istrutto e ne scrisse alla Curia fiorentina: di là il quesito andò a Roma, e non vi si risolse. Perchè? Le ragioni furono molte, ma non ne fu detta alcuna; accennarle sarebbe stato un accettare pubblicamente il problema posto dai fatti, impegnandosi a sentenziare.
Il Papa appena di ritorno da Gaeta aveva stabilito una commissione di tre Cardinali colle maggiori attribuzioni politiche. Una reazione più minacciosa che tremenda incominciò quindi per tutte le provincie papaline ancora esercitate dalle ultime convulsioni rivoluzionarie. S'imprigionava per denuncia di adepti senza vagliare nè discutere: scarse le condanne, ma insoffribili le vessazioni; tutto e tutti erano minacciati. I preti gongolanti dalla gioia dopo gli spaventi della rivoluzione infierivano; le superstizioni compresse scoppiavano quasi collo stesso impeto della rivolta liberale, mentre le lotte fratricide dei partiti sembravano preparare un'altra guerra civile fra il lutto delle famiglie orbate dalla guerra e lo sgomento del popolo incapace di capire cosa alcuna attraverso affermazioni egualmente assolute di libertà e di dispotismo. Roma, fatta proclive alla satira dallo stesso scetticismo che la prostrava, chiamò la commissione dei Cardinali triunvirato rosso della porpora, che nullameno si bagnò di sangue.
Il papato si riaffermava come regno. Nulla della rivoluzione, che lo aveva rovesciato prima per sopprimerlo poi con un decreto di popolo unico nella storia, doveva durare; la rivoluzione ispirata da Satana come idea si era politicamente esplicata nella più ignobile e ladra delle anarchie. Così almeno dicevano i diarii cattolici di allora. Ma coll'istinto del popolo, che aveva veduto la rivoluzione riassunta nella testa di Mazzini e nel cuore di Garibaldi, il papato concentrava i propri attacchi nelle loro due figure, mentre tutti i suoi predicatori tuonavano dal pulpito e il Padre Bresciani, estremo dei gesuiti letterati, preparava nell'ombra le serie dei propri libelli romantici, destinati all'infamia di una celebrità pari alla ribalderia delle intenzioni e alla goffaggine dell'arte.
La reazione europea secondava la reazione papale fra la guerra fratricida dei rivoluzionari, che rendeva quasi credibili se non accette le violente affermazioni dell'autorità regia e papale.
Una corrente di odio alimentata dagl'interessi lesi durante la rivoluzione, e rinvigorita dalla nuova persecuzione, sollevava le masse inconscie contro la borghesia liberale; l'aristocrazia minacciata dai principii più che dalle leggi rivoluzionarie s'appoggiava alla plebe, e il clero proteggendo i privilegi dell'una e l'ozio dell'altra, solleticava tutte le passioni per servirsene contro l'entusiasmo generoso, che la tragedia della sconfitta sembrava aver accresciuto nella miglior parte del popolo.
Ma troppo logico e spietato per perdonare nemmeno sè stesso, il clero aveva fatto fucilare a Bologna Ugo Bassi, usando colla solita ipocrisia di regno una pattuglia di tedeschi.
Ugo Bassi, debole e nervosa anima di poeta, aveva predicato prima della rivoluzione e si era quindi battuto eroicamente in molte delle sue battaglie, ma frate e suddito pontificio doveva essere doppiamente inviolabile pei tedeschi alleati del papa. Nullameno, lo si volle da loro fucilato.
Era dunque una rappresaglia contro la rivoluzione già morta, una nuova fase di guerra a esterminio.
Ma poichè il numero di un popolo è sempre superiore a ogni smania omicida di tirannia, e nella presente civiltà non è nemmeno più permessa la decimazione di un villaggio, la persecuzione si accaniva contro i capi più illustri per grado o per ingegno, comprando contro di essi accuse di tradimento verso la rivoluzione, e cercando contemporaneamente di coglierli prigioni. Senonchè la maggior parte di essi avevano esulato o esulavano protetti dal popolo, che diffidente degli stessi governi cui sosteneva, simpatizzava con loro banditi e proscritti. Questo sentimento ostile del popolo alla legge, e che oggi dopo tanta libertà di costumi e di ordini non accenna a scemare, basta di per sè a qualificare i governi che lo hanno prodotto nella sua coscienza.
L'odio più vivo del papato era naturalmente a Garibaldi, maggiore di Mazzini nella coscienza popolare dopo il terribile dramma della ritirata da Roma. Vinto ed ucciso, la riprovazione religiosa, che colpiva la repubblica romana nella coscienza dei più lo avrebbe pareggiato a tutti gli eroi di quell'assedio; non vinto e vivo e in salvo grandeggiava sul disastro di Roma e pareva promettere al mondo una rivincita. Nessun delitto era quindi peg giore dell'averlo salvato. Garibaldi era la negazione di Roma papale.
Colpirlo nell'idea che incarnava, mostrandosi onniveggente ed implacabile contro coloro che l'avevano in lui aiutata, doveva essere necessariamente il programma di Roma. Gli uomini d'arme che avevano accompagnato Garibaldi dall'America, i politicanti che lo seguivano ora nell'esilio, non erano per lei colpevoli che a mezzo, giacchè negando tutte le religioni, la loro negazione di Roma perdeva ogni valore nella falsità del loro ateismo. Forse, anzi senza forse, Roma guadagnava alla loro guerra.
I nemici veri, quelli che occorreva ad ogni modo distruggere, erano i nuovi cattolici o i vecchi cristiani che dichiarando incompatibile colla religione di Cristo l'attuale costituzione pontificia, intendevano a rimutarla nella teorica e nella pratica: Roma papale non poteva perire che per opera loro.
La fucilazione di Ugo Bassi era quindi stata una dichiarazione di guerra.
Ma Don Giovanni aveva nuociuto al Papa bene altrimenti del barnabita.
Bisognava quindi arrestarlo e condannarlo. Difficoltà non se ne sarebbero incontrate. Il governo del Granduca, che aveva consegnato Renzi e cercato di consegnare Gavazzi al principio della rivoluzione, questa prostrata, e sostenuto dagli Au striaci, acconsentirebbe di buon grado ad abbandonare in Don Giovanni un suddito altrettanto nocivo nel passato che pericoloso per l'avvenire. Lo stesso abito sacerdotale della vittima avrebbe reso più facile il sacrificio. Pio IX avrebbe potuto come Papa chiamarlo a Roma e trattenervelo come Re. Nessuno avrebbe protestato.
Ma anzitutto premeva impedirgli ogni esercizio del culto. Il popolo, che lo sapeva salvatore di Garibaldi, doveva riconoscerlo quanto prima per uno scomunicato da Roma sotto pena di credere che Don Giovanni avesse fatto bene a salvare Garibaldi e che questi avesse ragione togliendo al Pontefice ogni diritto politico. Nulla è più sicuro ed inflessibile del buon senso popolare. Se il Papa non condannava coloro che avevano aiutato Garibaldi a cacciarlo da Roma e a dichiararlo decaduto dal trono, abdicava alla propria sovranità: se un semplice prete poteva contraddirla, tenendo per la rivoluzione contro il Papa senza venir meno ai propri principii o alterare il proprio carattere, non era vero che la rivoluzione, opera del diavolo, fosse nata e vissuta nell'errore.
Il clero lo aveva troppo affermato per riparare adesso dietro una distinzione scolastica o una riflessione politica. L'anima popolare violentata da troppi dubbi esigeva una soluzione netta; forse ai più era indifferente che Don Giovanni rimanesse libero o finisse come Ugo Bassi, ma qualunque incertezza da parte del Pontefice, allora sostenuto da tutte le nazioni europee, sarebbe sembrata una confessione di torto.
Le fucilazioni di Ugo Bassi e di Ciceruacchio eseguite dai tedeschi potevano ipocritamente spiegarsi come ultimi fatti di guerra dolorosi, ma impossibili a impedirsi dal Pontefice nel trambusto di un ritorno angustiato da troppe occupazioni straniere. Se la sua regia autorità ne restava compromessa, il suo carattere di alleato all'Austria attenuava l'impressione di un'ingiuria solamente formale.
Con Don Giovanni non era così.
Egli non aveva predicato, non prese le armi, giacchè l'impresa delle Balze era passata inosservata, non capitanato insurrezioni di piazza, non scritto, non affermato eresie. La sua condotta era esemplare, la sua opera patriottica da tutti conosciuta ed apprezzata. Non un grido era sfuggito alla sua coscienza di cattolico contro il Pontefice come capo supremo della Chiesa, ma non una preghiera era salita dalle sue labbra per il Papa re di Roma. Non si ostentava, non si nascondeva. Tutto il suo passato parlava per lui, i suoi sentimenti rivelavano le sue idee, le sue parole erano calme come la sua coscienza, limpide come la sua vita.
Appena salvato Garibaldi ne aveva ringraziato Dio con una Messa: la sua benedizione di quel giorno ai pochi popolani che vi assistevano, aveva raggiunto il grande fuggiasco forse in atto di salpare da Talamone.
Che i venti e le acque ti sieno propizie!
Da Roma, da tutte le altre chiese invece salivano invocazioni a Dio per il trionfo del Pontefice e l'esterminio dei suoi nemici.
Il popolo era perplesso.
Don Giovanni aveva conciliato in sè medesimo con un processo lento ed inconscio quanto si contraddiceva tempestando nell'anima del popolo. La formula cercata indarno dai grandi filosofi cristiani per accordare la libertà del pensiero coll'assolutismo della religione, e la tradizione di Roma colla universalità della storia, egli l'aveva trovata nella semplicità della propria coscienza tutta piena di una idea morale, che riuniva dominandole l'idea metafisica e l'idea storica. Senza saperlo, Don Giovanni riduceva tutta la religione a una moralità illuminata dalla rivelazione e sorvegliata da Dio; le forme esistenti della religione non lo disturbavano e non lo esaltavano; potevano durare o cessare, nate pel costume e nel costume viventi: Dio e la religione non erano lì, ma potevano anche esservi, perchè nessuna forma era loro necessaria o nociva.
Il popolo, che voleva credere sicuro e sentendo le forme della propria religione ormai vuote si ricusava nullameno a mutarle, era tutto riassunto in questa coscienza di prete, che accordava la fede più salda in Dio alla indifferenza più abitudinaria e indulgente del culto, l'amore di ogni tradizione religiosa colla passione di tutti i nuovi ideali politici.
Salvando Garibaldi legittimo difensore della repubblica romana contro tutta l'Europa, non aveva rinunciato a salvare Pio IX, se la rivoluzione invece di sopprimere in lui il re avesse voluto degradare il pontefice.
E il popolo, che sentiva confusamente tutto questo, guardava a Don Giovanni aspettando in lui la soluzione del proprio problema.
Che cosa direbbe Roma?
Roma tacque.
Certo in Vaticano il problema fu lungamente discusso; i più feroci ultramontani avrebbero voluto l'imprigionamento e la condanna di Don Giovanni, ma la maggioranza dei consiglieri più profonda e più abile vi si ricusò.
Don Giovanni non si poteva accusare. Nella sua come nella coscienza del popolo l'aver salvato Garibaldi implicava negazione del potere temporale, e nullameno era impossibile formulare l'accusa sopra questo fatto, che morale e religione assolvevano. Garibaldi vinto diventava sacro come nemico, e quel prete abbastanza grande di cuore per capirlo avrebbe avuto Cristo a difenderlo contro tutti coloro che volessero rimproverarglielo. Roma, che aveva fatto decretare nel Concilio di Trento l'anatema a tutti coloro che non credessero alla necessità del potere temporale per la Chiesa, si trovava nella impossibilità di applicare la condanna: la contraddizione fra l'idea cristiana e lo spirito del papato l'impediva. La morte di Garibaldi, legittima nel concetto politico di Roma, diventava colpevole nella morale del Vangelo, secondo la quale il nemico deve essere più diletto del fratello; assurda, quando impedita dall'opera di un qualunque salvatore, si volesse astrattamente ottenerla nella condanna di questo.
Si poteva chiedere a Don Giovanni, se proteggendo la fuga di Garibaldi distruggitore del papato avesse inteso di approvarlo, ma Don Giovanni avrebbe risposto di sì, e allora il problema si complicava. O Roma gli permetteva questo dissenso, e Garibaldi aveva ragione; o glielo negava e la morte invocata contro di lui, inflitta a Ciceruacchio e a Ugo Bassi, doveva colpire Don Giovanni. Se il potere temporale è necessario alla Chiesa, questa deve conservarlo a qualunque costo, perchè nulla per una religione vale quanto sè medesima.
Ma il supplizio di un prete, docile a tutti gl'inse gnamenti cristiani e mondo d'eresie, diventava pericoloso. Tutto il popolo, che non aveva potuto seguire i filosofi riformatori del cattolicismo, sarebbe stato con lui; bisognava anatemizzare la maggior parte dei cattolici e tener duro e ricusar loro l'ingresso nelle chiese, dannarli nell'agonia se non mutavano opinione. Era impossibile. Il potere temporale, forma storica del cristianesimo, non poteva prevalere sui dogmi essenziali; nessuna coscienza cristiana accetterebbe di non essere più tale solo per non credere alla sovranità politica del Pontefice. Già Roma aveva più volte tentato simili esperimenti e v'era sempre fallita. A ogni privilegio mondano annullato dai governi, aveva protestato scomunicandoli, ma il privilegio non era risorto e Roma aveva ritirato le scomuniche. Così era accaduto per le immunità, per le investiture, per le decime e ultimamente nell'impero napoleonico per la vendita dei beni ecclesiastici; i compratori erano stati maledetti, ma il congresso di Vienna aveva mantenuto le vendite e Roma aveva cassato le maledizioni.
L'idea cristiana era più forte del papato.
Adesso toccava al potere temporale. Uno dei due termini del dilemma presso a risolversi doveva rompersi: i vangeli sarebbero stati più forti delle costituzioni ecclesiastiche. Roma lo sentì, e non osò affrontare Don Giovanni e non po tè circuirlo. L'ignoranza del prete montanaro giovò più dell'eloquenza del Lammenais e della filosofia del Gioberti.
Poichè le religioni sono un pensiero del cuore, uomini semplici le fondarono e le salvarono nelle mutazioni della storia, mentre i grandi filosofi non riuscirono mai nè a stabilirle nè ad abbatterle. Il popolo solo, che le produce in sè stesso, è infallibile decidendo sovra qualche loro punto, ma il popolo aveva da un pezzo abbandonato il papa nella sua querela di re. La stessa fuga di Pio IX da Roma al primo pericolo di guerra era stata una abdicazione, giacchè i re non possono fuggire se prima i sudditi non li abbiano disertati. Egli medesimo non credeva quindi al potere temporale appellandosi agli stranieri piuttosto che al popolo e violando un'altra volta la storia italiana.
Il papa e il re di Roma non erano la stessa persona: una delle due solamente rappresentava Cristo. I re non rappresentano la nazione che quando essa lo consenta loro.
La coscienza popolare era così sicura in questa idea, per quanto si venisse talvolta contraddicendo nell'esprimerla, che processare Don Giovanni sarebbe stato uno snebbiargliela, provocando in tutti gli spiriti una vera rivoluzione. Roma si sentì vinta.
Quest'immenso fatto, alla cui preparazione si erano consumati tanti secoli, si compieva per opera di un prete semplice ed ignaro. Era il grano di sabbia della leggenda biblica, pel quale ribaltava il terribile carro dell'invasore che aveva superato tutti i monti, guadato tutti i fiumi, corse tutte le pianure, rovesciate le porte di tutte le città, sfondate le postierle di tutte le fortezze, prostrate le masse di tutti gli eserciti. Da Arnaldo da Brescia a Cola di Rienzi, da Marsiglio da Padova a Lorenzo Valla, da Stefano Porcari a Carnesecchi, da Macchiavelli a Giordano Bruno, da tutti gl'italiani che avevano combattuto il papato senza pretendere a una vera riforma religiosa, a tutti gli stranieri che l'avevano prodotta per sottrarvisi, le grandi anime si erano sempre stremate in questa lotta senza conseguire la vittoria nemmeno nel trionfo della ribellione. Il papato restava sempre più alto e più vasto dell'opera de' suoi nemici. Come l'impero romano, che i barbari non sarebbero mai riusciti ad abbattere e che il cristianesimo disciolse, perchè solo un'idea può sostituire un'idea, il papato aveva resistito a tutti gli assalti esteriori e a tutti gli schianti interni; la sua unità gerarchica sostenuta dalla unità ideale del cattolicismo vi pareva fusa; nessuna guerra lo aveva prostrato, nessun re o popolo aveva potuto soverchiarlo. Imperatori magnanimi e feroci, repubbliche inflessibili ed inespugnabili, corruzioni di clero e depravazioni di costumi, effervescenze ideali e ricomposizioni storiche, splendidi eroismi d'eresie e irradiazioni universali della scienza, invettive politiche e assedî filosofici, divisioni di genti o fusioni di razze, nulla aveva potuto prevalere contro un regno piccolo come un feudo, che Costantino era accusato di aver concesso e Carlomagno confermato, e che i sudditi stessi avevano mille volte sommosso uccidendo i papi. Pareva un decreto di Dio e non era che una legge della storia. Il pontificato sorreggeva il papato; il primo forte come il cattolicismo, che solo una religione più ideale potrà abbattere, giacchè nella storia il vincitore deve essere sempre maggiore del vinto; il secondo forte della sua somiglianza col primo, che al mondo pareva una identità.
Solo uno schietto sentimento cristiano scevro di ogni secondo fine e inconscio come tutti i sentimenti, che hanno formato e formeranno sempre la storia, poteva operare nel cattolicismo questa grande rivoluzione, denunciando la falsità dell'equazione fra pontificato e papato. Filosofia, scienza, politica, arte, nessuna di queste immense forze della civiltà, essenzialmente diverse dalla religione che sola può correggere sè stessa, avrebbe mai ottenuto simile risultato.
La morte del papato non poteva avvenire che nella forma di un suicidio, dal quale il pontificato si levasse più sublime sul cattolicismo.
Questo accadde per opera di Don Giovanni Verità.
Inconsapevole della grandezza che un movimento secolare in lui accentrava, dopo l'ultima fuga con Garibaldi era ritornato alle abitudini di prima, cacciatore e contadino. La gente lo guardava con occhiate di stupefazione senza che egli se ne accorgesse. Non immaginando nemmeno i pericoli che lo minacciavano, non pensò mai nè a fuggire nè a schermirsi con qualcuna delle sue più illustri amicizie. Allora venne crescendo uno strano confuso affetto per questo prete, che gli altri preti anche disapprovandolo riverivano e che il popolo delle campagne sentiva pari a sè nella semplicità della fede, quello delle città superiore a sè nell'entusiasmo generoso della rivoluzione. I bambini lo amavano per gli uccelli che gli vedevano tutte le mattine sospendere nelle gabbie ai chiodi della piccola e grottesca facciata della sua casa; le donne per la sua forte ingenuità che sentiva il loro sesso senza turbamento, gli uomini per la prodigalità, colla quale offriva sempre quanto aveva, compresa la vita. Egli non si vantava nemmeno nel più fugace degli atteggiamenti, non raccontava; avrebbe potuto chiedere tutto a tutti, tanta era la sua influenza, e invece sembrava sempre aspettare che gli fosse domandato qualche cosa.
Dal cinquanta al cinquantanove le congiure seguitarono nelle Romagne sempre occupate dai tedeschi per conto del papa, ma la persecuzione cessò di essere feroce. Pena maggiore divennero la prigionia e l'esilio. La prima quasi sempre evitabile col secondo. L'oppressione del governo era tutta morale, e forse per questo più dolorosa. Pio IX, temperamento femmineo troppo diverso dal fiero ingegno e dal carattere superbo di Gregorio XVI, non infellonì che qualche rara volta per suggestione di consiglieri.
Intanto Don Giovanni seguitò a prestare la propria opera a tutti i proscritti traducendoli in Toscana, dove il governo granducale, ignobile ma corrivo, li lasciava vivere o li espelleva senz'ira. E furono anni febbrili di aspettazione. Il Piemonte messosi a capo del movimento italiano, quantunque costretto troppo spesso a contraddirlo perseguitando e calunniando i più illustri rivoluzionari, infiammava tutte quelle speranze che aveva tradito nel quarant'otto; mentre il conte di Cavour succeduto al Gioberti, di lui meno vasto e profondo, ma più pratico di negozii politici e più pronto all'azione molteplice di un momento, nel quale si dovevano concordare parlamenti, diplomazia e insurrezioni, persuadeva al mondo che l'Italia aveva finalmente un uomo di Stato. Torino era diventata il rifugio dei maggiori emigrati italiani.
La rivoluzione scoppiò colla guerra. Cavour destreggiandosi abilmente coi bisogni dinastici di Napoleone III, che doveva stordire di vittorie la Francia per toglierle di pensare alle origini infami e alla vita anche più bassa del secondo impero, lo trasse in Lombardia contro l'Austria. La Francia generosa ed eroica ripetè dopo settant'anni le glorie del novantasei contro lo stesso nemico; ma anche questa volta parve che i Bonaparte non potessero compire l'Italia. E fu bene, giacchè riconquistata e rimessa a nuovo dall'epica cortesia di un popolo straniero per quanto fratello, non avrebbe potuto riprendere la coscienza di sè medesima; mentre abbandonata a mezzo il cammino, dopo essersi con puerile sgomento lagnata dell'abbandono, si rivolse a Garibaldi guerreggiante ai piedi delle Alpi, e Garibaldi corse a Genova, ne salpò, discese in Sicilia, rivalicò lo stretto, traversò la Calabria verso Napoli sollevando popoli e sgominando eserciti, cinto da pochi soldati, raggiante di gloria, sereno come un arcangelo cristiano, terribile come un eroe di Omero.
Ma Roma e Venezia, la più grande città e la più marinara repubblica del mondo, mancarono ancora all'Italia.
La guerra sostò.
Don Giovanni cappellano negli eserciti del re d'Italia ritornò quindi ai propri monti, affermando nell'orgoglio trionfante della sua vecchia fede italiana, che prima di morire avrebbe veduta Roma capitale d'Italia. I nuovi moderati, fanatici ammiratori di Cavour e di Vittorio Emanuele, ne sorrisero, giacchè il bigottismo appiattato in fondo ai loro cuori li faceva perfino dubitare del senno di Cavour, il quale non osando assalire Roma la faceva nullameno dichiarare dal Parlamento, accolto in Torino, capitale d'Italia.
Chiusa l'epoca delle congiure e posate le armi, Don Giovanni non lasciò più l'aria serena dei proprii monti che per recarsi a Torino, dietro invito del Ricasoli, ad impedire che il dissidio fra Garibaldi e Cavour degenerasse in guerra aperta. La situazione, già molto grave di per sè, poteva risolversi funestamente. Garibaldi esasperato dalla cessione della propria patria alla Francia, punzecchiato da tutte le invidie dei giornali monarchici inveleniti di una gloria che stentavano a comprendere, offeso quotidianamente dalle fatali viltà di una politica parlamentare, che mirava a sminuire la grandezza della sua opera per ingrandirne la monarchia di Savoia così stretta fra l'aiuto dei rivoluzionari e dei francesi da soffocarvi quasi, ebbe uno scoppio formidabile d'indignazione. I suoi garibaldini, che avevano operato per la patria più di quanto la monarchia di Savoia avesse fatto per sè medesima accettando l'Italia dalla rivoluzione, erano dal nuovo governo peggio che obliati, percossi. Allora egli che, ceduta Napoli a Vittorio Emanuele, era ritornato a Caprera non trasportando sulla piccola barca, frutto di tanta conquista, che un sacco di fagiuoli, rientrò in Parlamento per ripetere con accento più formidabile di Napoleone I il 18 brumaio, a Cavour fatto sicuro dalla sgomenta inesperienza del Parlamento: Che cosa avete fatto delle mie legioni?!
Quel giorno la nuova monarchia tremò: il lampo dello sguardo di Garibaldi coperse l'aurea luce della recente corona posta dalla servile compiacenza dei popoli ancora immaturi alla libertà sulla fronte di Vittorio Emanuele. La coscienza italiana sentì uno strappo improvviso e si trovò bagnata di sangue prima ancora di aver gettato un urlo per rispondere al grido di Garibaldi.
Allora Cavour, che nel pericolo acuiva la naturale astuzia dell'ingegno, si ricordò di Don Giovanni Verità e a mezzo di Ricasoli potè condurlo a Torino per pacificare il Generale.
Don Giovanni andò, ebbe con Cavour un colloquio, nel quale la rude franchezza del montanaro umiliò più di una volta la subdola abilità del diplomatico, ma comprese tosto che la fortuna d'Italia esigeva da Garibaldi, come supremo s acrificio, l'olocausto de' suoi soldati ai codardi rancori, alle insaziate cupidigie delle genti nuove necessarie a sorreggere il governo in quell'ora, e ricusando con nobile orgoglio le offerte del ministro promise non già l'opera propria, ma in nome stesso di Garibaldi, che il Generale si sarebbe un'altra volta sacrificato sull'altare della patria. Così fu, Don Giovanni raccontò a Garibaldi il suo abboccamento con Cavour; forse sospirarono assieme sulla viltà di quell'ora, e l'eroe abbandonò al re la sorte dei soldati che gli avevano conquistato più che la metà del regno.
Ma Don Giovanni, incapace per indole e per studi di comprendere i viluppi del problema nel quale era stato chiamato, conservò sempre del Cavour una spiacevole impressione. La viltà parlamentare e l'egoismo monarchico gli si erano soli mostrati nel grande statista, che pure aveva pianto di rabbia all'annuncio del trattato di Villafranca.
Quindi nel 1866 l'Italia monarchica fu vinta miseramente sugli stessi piani, che diciotto anni prima avevano veduto la sconfitta del Piemonte. La tradizione di Emanuele Filiberto era cessata per sempre nella casa di Savoia, ma l'astro aspettato vanitosamente da Carlo Alberto sul suo ultimo e fantastico scudo di re medioevale brillava sulle alture del Tirolo espugnate da Garibaldi.
Dio e l'Italia erano con lui, vecchio che guidava in carrozza i volontari della nuova generazione.
La monarchia battuta a Custoza e a Lissa impose tremando al solo vincitore d'Italia, che retrocedesse; e il vincitore superò le viltà dell'ordine colla sublime concisione della risposta: Obbedisco!
Quando Don Giovanni potè leggerla nei giornali pianse.
Garibaldi, come Cesare, aveva vinto sè stesso.
Ma fedele alla propria missione, Garibaldi ritentava nell'autunno susseguente l'impresa di Aspromonte, a ciò incuorato e impedito secretamente dal Rattazzi, che nell'audace profondità di una politica allora maledetta, e oggi ancora incompresa superava continuandole le più difficili e gloriose combinazioni del Cavour. Aspromonte era stata l'ode, Mentana fu il dramma. Papato ed impero francese vi perirono, mentre la monarchia italiana ne uscì moralmente diminuita. Garibaldi sconfitto per l'ultima volta vi si trasfigurò in eroe mondiale eccedendo nella sua lotta col papato le proporzioni di una battaglia italiana. Napoleone ripetè imperatore l'errore, al quale aveva troppo cooperato come membro della repubblica, rivelando nell'agonia dell'impero il secreto delle sue origini ed affrettandone la catastrofe fra l'odio della coscienza francese e il disprezzo della coscienza europea; il papato assalito ancora una volta da Garibaldi non osò chiamare il proprio popolo alle armi e invocò dalla Francia un aiuto ai mercenari, confessando così che il suo regno era una soperchieria senza diritto e senza avvenire. Garibaldi ritirandosi dai campi sanguinosi di Mentana traversò l'Italia di Vittorio Emanuele silenziosa ma fremente di sdegno contro il governo. Rattazzi, che con audacia di genio aveva voluto un attacco contro Roma dalla rivoluzione, risoluto ad impedirne il trionfo finale che sarebbe stato la morte della monarchia, calcolando che l'impero francese con questa suprema difesa del papato libererebbe per sempre l'Italia dal debito del 59, cadde dal ministero, percosso da tutte le ire, magnanimamente silenzioso e superbo.
Quella fu la più grande giornata del Parlamento italiano.
Don Giovanni, che nella sua fede in Garibaldi aveva profetato fra gli amici la presa di Roma colla fine del potere temporale, ne rimase sconcertato. Egli non capiva, e non capì forse nemmeno più tardi, che se Garibaldi avesse preso Roma, l'Italia avrebbe dovuto proclamare subito la repubblica, essendovi tuttavia immatura per difetto di scienza e di coscienza.
Garibaldi a Mentana aveva tagliato il nodo del papato e dell'impero, lasciando alla monarchia costituzionale d'Italia, larva incerta di repubblica, di strapparne i capi tre anni dopo.
Roma e Parigi si liberarono quasi contemporaneamente del papa e dell'imperatore.
Fu in una notte tiepida e serena che a Modigliano giunse il telegramma della presa di Roma. Da qualche giorno la campagna era cominciata, e quantunque il nemico fosse più che spregevole, il popolo non era senza inquietudine. La tradizione dei disastri monarchici, quando la monarchia si era battuta colle sole sue forze, pesava su questa spedizione, che non meritava nemmeno il nome di guerra. Si raccontavano aneddoti di La Charette generale dei zuavi, che fedele alla memoria del proprio nome infestava la campagna romana deludendo e superando i bersaglieri di Lamarmora, e allora l'anima del popolo si voltava a Garibaldi. Ma questi, che sapeva di aver ucciso il papato a Mentana, ne abbandonava le spoglie alla monarchia di Savoia incaricata dalla storia di saldare l'una all'altra tutte le membra d'Italia. Un'altra più grande idea occupava il suo spirito. Francia, Italia e Spagna, tutto il vecchio mondo latino doveva riunirsi per rattenere entro i limiti della nazionalità l'espansione del mondo tedesco, contrabilanciando in Europa il dispotismo ancora chissà per quanti anni necessario al mondo russo per sorgere alla propria unità. Francia e Italia, congiunte a Solferino, divise a Mentana, dovevano provare a sè medesime che le loro effimere differenze dipendevano dagli inevitabili egoismi dei loro governi, non già dal loro storico ideale. Garibaldi, che aveva perduto per opera della Francia contro il papato, vinse per lei contro la Germania a Digione; mentre l'Italia dichiarando al mondo la fine del papato salutava con Garibaldi una nuova Francia fra le rovine dell'impero napoleonico e il trionfo momentaneo dell'impero tedesco, fondatrice della repubblica moderna.
Solferino aveva congiunto le due nazioni, Digione fuse i due popoli.
Era la notte del 20 settembre.
Siccome le notizie arrivavano tardi e contradditorie, tutto il giorno si era discusso vivamente; si bestemmiava, si scherniva l'esercito monarchico, che per colpa del suo vizioso organismo a cento passi dal confine era già rimasto senza viveri. Cadorna il generale era già condannato, Bixio furioso e furiante bruciava gli ultimi razzi garibaldini cercando di affrontarsi con La Charette e minacciando di bombardare il Vaticano. Il popolo, che sollevatosi unanime aveva spinto il governo su Roma, si agitava ancora nel medesimo oscuro senso della propria epopea moribonda. L'ultima onda del canto s'innalzava per frangersi in un supremo scroscio di battaglia, mentre la monarchia, chiusa nella secolare prudenza che le aveva permesso di profittare delle virtù e dei vizii di tutta l'Italia, sembrava restringersi nella irresponsabilità del proprio alto ufficio, lasciando ai ministri la cura dell'impresa. E fu errore. Vittorio Emanuele cavalcante sotto le mura di Roma e penetrante primo dalla breccia di porta Pia avrebbe giovato nell'anima del popolo alla propria dinastia più che la stessa conquista di Roma.
Così la monarchia avrebbe sciolto il problema del papato; invece il millenario problema si disciolse in essa. Il papa morente e sicuro di risorgere maggiore come pontefice potè guardare ironicamente il re, che non avrebbe profittato a lungo della sua morte e non sarebbe certo risorto come presidente di repubblica. Infatti la morte del papato se produsse per la conquista di Roma un grande vantaggio alla dinastia, rimase e rimarrà gloria della sola democrazia; la monarchia, come principio, invece di avvantaggiarsene ne ammalò per non guarirne forse mai più, giacchè oggi stesso il Pontefice sovrasta a tutti i troni d'Europa e colla sicurezza di chi non ha più niente da perdere offre loro, minacciando, come ultima difesa le proprie armi spirituali.
Era la notte del 20 settembre; l'ultima gente stava per rincasare.
Improvvisamente giunse la notizia della resa di Roma. Fu uno scoppio, una vampa. Tutti corsero a casa per comunicare la buona novella; usci e finestre si aprivano, i dormienti destati di soprassalto si affacciavano alle vie, bianchi nelle camicie come fantasmi: si scambiavano parole, erompevano grida.
— Le campane, le campane! urlò una voce; e tosto un gruppo di giovani
si divise per arrivare contemporaneamente alle tre o quattro chiese della cittaduzza. Molti già usciti formavano capannelli sulle porte.
— Roma è presa!
— Ah!
— Bene...
— Viva Roma capitale d'Italia!
— Viva!
L'applauso scoppiava da tutti i petti, mentre la gente si stringeva la mano come rammemorando i giorni angosciosi delle congiure quando tutto era pericolo, e promettendosi per l'avvenire una vita più alta e felice. A un tratto da vari punti squillarono le campane, da una finestra spuntò una bandiera: la notte era serena, la luna splendeva, un vento tiepido alitava.
Quella bandiera infiammò le fantasie, che le campane scrollavano coll'impeto disordinato dei loro rintocchi.
Don Giovanni, che rincasato da poco aveva il sonno leggiero dei cacciatori e dei vecchi, ne fu desto. Discese dal letto, udì rumore alla propria porta, si gettò addosso i primi abiti che potè afferrare e corse ad aprire.
— Che c'è? esclamò spalancando l'uscio.
— Don Giovanni! Roma presa...
— Ah!
— Roma presa! urlarono quei giovani.
— Ah...
E il vecchio prete non potè rispondere altro. Le campane suonavano a distesa come impazzite dalla gioia, tutte le finestre si schiudevano, la gente si affacciava interrogando, ed era sempre quella risposta che saliva di tono mutando voce ed accento, ripercuotendosi su tutte le coscienze, cangiandosi in grido, scoppiando in urrah, affermandosi violentemente quasi fosse troppo grande per essere creduta, e tutti si guardavano in faccia commossi da una gioia che non trovava parole, perchè non abbastanza limpida negli spiriti. Qualche grande cosa era crollata, qualche grande cosa incominciava. Le donne sbigottite dal rumore si mostravano appena alle finestre, più bianche nella maggiore ampiezza dei corsetti, e ascoltavano non sapendo quasi nulla, indifferenti alla enormità del caso, ma guadagnate a mano a mano dalla emozione generale, impallidendo e sorridendo. Qualche fanciullo cacciava una nota acuta nel frastuono crescente della strada, voltandosi verso le campane che seguitavano a rispondersi di campanile in campanile, mentre le chiese restavano tristamente mute al di sotto e il soffio blando del vento, lambendo le finestre aperte e gremite, sembrava lenire la violenta caldezza di quella emozione, che nessuno poteva dominare e alla quale nessuno il giorno dopo avrebbe saputo trovare una spiegazione.
Don Giovanni aveva rinchiuso quasi automaticamente l'uscio ed era caduto ginocchioni colle mani giunte ringraziando.
— Roma, Roma!...
La sua preghiera di quel momento era il riassunto di tutta la sua vita.
V.
Dopo quella notte, nella quale si era avverato l'ideale di tutta la sua vita, D. Giovanni si chiuse nella calma silenziosa degli uomini forti che si sentono finiti. Quanto accadeva intorno a lui nella nuova Italia non lo interessava più. L'attitudine incerta della monarchia combattuta da troppe correnti interne ed esterne, l'agonia del vecchio partito repubblicano, che nella morte di Mazzini perdeva l'ultima ragione col solo uomo dal quale ripeteva la vita, l'infanzia oscura e plebeamente bassa del socialismo, al quale nessun uomo di vero ingegno aveva ancora aderito, e che gittava ogni tanto per le piazze grida incomposte e bestemmie pazze, gli erano peggio che indifferenti, sconosciute. Il suo doppio sogno era stato la risurrezione dell'Italia e la morte del papato politico; al di là di esso per lui doveva cominciare il sonno eterno.
La generazione, colla quale aveva sofferto combattendo, oramai dispersa nelle tombe, non era più rappresentata nella vita che da pochi sbandati, solitari nella politica del momento, costretti ad occuparsi di quesiti amministrativi o contristati dagl'insulti della nuova generazione sopraggiunta come un'orda di saccomanni sui campi di battaglia.
Malgrado le seduzioni dei repubblicani, cui la defezione dei migliori personaggi assottigliando ogni giorno la vita consigliava di presentare al popolo in ogni circostanza le poche glorie rimaste, non volle mai uscire dalla propria oscurità. Cacciatore negli ultimi autunni della vecchiezza come nei primi della gioventù, parve anzi sfuggire con senso pauroso di modestia alla celebrità che lo veniva cercando pei colli di Modigliana.
Poi Garibaldi morì.
Questa volta Don Giovanni non pianse, perchè se lo aspettava.
La morte, non mai temuta, gli sembrava ora la più ineffabile delle grazie serbate all'uomo da Dio; d'altronde, anche per lui la vita fisica dell'individuo, quando la sua missione storica è compita, perdeva ogni senso e valore.
Solo la raccomandazione suprema dell'eroe, che un minuto prima di spirare confidav a all'amore della famiglia le due capinere da lui educate nei dolorosi ozii della lunga malattia e che sentendolo morire gli mandavano dalla finestra, già abbandonata dal sole, il più dolce saluto della vita, gli trasse sugl'occhi una lagrima.
Tutta la grande anima di Garibaldi si rivelava in quell'estremo pensiero.
Solo gl'invitti possono essere così sublimemente delicati!
Quando lo invitarono al comizio di Faenza per la morte del Generale accettò e discese.
Lo vidi allora per la prima ed ultima volta.
Egli non parlò, non si accorse quasi della generosa emozione destata dalla sua presenza; morto Garibaldi si sentiva già moribondo e camminava a testa bassa, quasi contando i passi che lo avvicinavano al sepolcro. Ritornò frettolosamente ai proprii colli; di lui si seppe solo qualche anno dopo che era morente.
Ma la sua morte fu come la sua vita.
Il clero che lo aveva sempre dispettato, vendicando sopra di lui la viltà di non avere osato condannarlo salvatore di Garibaldi, stimò di poterlo sopraffare nell'agonia; e siccome Don Giovanni era sempre rimasto prete, molti fra i suoi stessi amici credettero che avrebbe abiurato le opinioni di tutta la propria vita per morire sicuramente nella religione cattolica. Così poco era stato compreso il suo carattere, e per gl'increduli romanismo e cattolicismo sono ancora la stessa cosa!
Il vescovado fu sossopra. Tutti i giornali d'Italia recavano i bollettini della salute dell'infermo, il paese era agitato.
Don Giovanni, calmo anche negli ultimi istanti, chiese i sacramenti e si confessò; ma quando il confessore per concedergli l'assoluzione gli domandò un'abiura di ciò, ch'egli chiamava le sue eresie e che, lui sano, la Chiesa non aveva mai condannato interdicendogli l'esercizio sacerdotale, il suo volto s'illuminò d'un sorriso.
Forse, anzi senza forse, si aspettava a questo.
Ricusò, umile e fermo.
Gli amici repubblicani, che soppravennero, lo complimentarono colle solite frasi della incredulità sulla sua fermezza, e Don Giovanni sorrise ancora. Il suo spirito limpido coglieva meravigliosamente il doppio egoismo dei due partiti, che si disputavano la sua morte per farsene argomento di battaglia. Nullameno sereno ed austero non mise un lamento, non differenziò le due assistenze, che si contendevano il suo letto.
Senza dubbio vi furono incidenti dolorosamente comici fra gli addetti dei due partiti egualmente ammessi nella camera del moribondo, ma li ignoro, e coloro che vi assistettero non li confesseranno. Il vescovo rimase inflessibile e ricusò l'assoluzione; gli altri desideravano una morte da libero pensatore.
Prete e cattolico, Don Giovanni che voleva morire come aveva vissuto, sentendosi veramente vicino al gran passo, benchè avesse sempre taciuto operando in vita, comprese il dovere di parlare. La sua morte come la sua vita dovevano esprimere il medesimo principio: dettò questa dichiarazione.
Modigliana, addì 19 novembre 1885.
«Sono nato nella religione di Cristo e in essa desidero e intendo morire.
«Ho professato le sue massime, come quelle che furono fonte principale di tanta civiltà. Credo nella vera religione di Cristo, non in quella che è stata deturpata dal mondo e da' suoi ministri, che causa delle conseguenze derivate dalla loro ambizione, prepotenza e crudeltà, hanno fatto versare tanto sangue al mondo e specialmente alla patria nostra, e Dio nol voglia che per essi si sparga altro sangue e non ne venga l'estrema rovina all'Italia.
«Non sarebbe accaduto così, se i ministri della Chiesa e il loro capo avessero ricord ato quei detti di Cristo: — Il mio regno non è di questa terra: date a Cesare ciò che è di Cesare.
«Non posso aggiungere altro perchè mi vengono meno le forze.
«DON GIOVANNI VERITÀ.
Era sfinito.
Allora accadde una gran cosa: il prete mandato dal vescovado per ottenere dal moribondo l'abiura, tocco di quella modesta e serena fermezza, diede senz'altro l'assoluzione. Don Giovanni si comunicò. La novella si sparse subito nel paese, cosicchè il confessore appena uscito dalla casa fu attorniato, complimentato. Il dramma era finito. Al vescovado invece scoppiavano molte collere, ma poichè non si era osato processare Don Giovanni all'indomani del salvamento di Garibaldi, e solo più tardi con meschini pretesti gli si era tolta la Messa, per ridargliela poco dopo senza alcun accenno alla grande opera della sua vita, anche il suo confessore non fu scomunicato. Qualche giorno dopo Don Giovanni moriva e il clero ricusava alla sua salma gli uffici pietosi della religione. Non si era osato nulla contro il vivo, si osava troppo contro il morto.
Naturalmente, il partito liberale s'impossessò del cadavere per farsene argomento di trionfo. Tutta Italia ne fu commossa, i funerali per concorso di gente e per sincerità di commozione riescirono quali nessuno, nemmeno fra i più vecchi, ne ricordava nelle Romagne; il popolo vi fu ammirabile, gli oratori, secondo il solito, rimasero troppo al di sotto dell'idea e del fatto che dovevano esprimere.
Quindi si fece silenzio.
I giornali non si occuparono più oltre dell'oscuro prete romagnuolo, che aveva avuto tanta parte nel risorgimento italiano: nessuna rivista, nessun libro, ch'io sappia, ha ancora studiato i problemi posti e risolti da Don Giovanni nella sua vita. La semplicità, che è l'ultima forma della verità, è anche troppo spesso l'ultima ad essere compresa.
Un amico, al quale l'ho richiesta, mi ha portato l'originale della dichiarazione di Don Giovanni. Molti spiriti forti di quella mezza coltura che fa disprezzare tutto permettendo di parlare su tutto, avranno sorriso leggendola; infatti la sua forma letteraria è meno che meschina, il suo contenuto filosofico piuttosto volgare. Io stesso al primo tempo non sono riuscito a difendermi da un sottile senso di scherno che si è poi mutato in ammirazione studiando e ricostruendo tutta l'eroica e semplice vita di Don Giovanni.
Queste pagine che, ammalato per causa sua, scrivo di lui, a letto, senza dormire e senza muovermi da una positura che mi toglie spesso di seguitare a scrivere, sono ben lungi dall'essere uno studio storico e psicologico; appena appena vi ho fissato le idee principali senza nemmeno coordinarle in un disegno, che riveli la loro natura intima e i loro più necessari rapporti. Divagazioni di malato, che cerca nell'attività del pensiero l'oblio di dolori fisici, avranno forse un giorno più alto valore biografico per chi voglia occuparsi dello scrittore che non siano oggi una biografia di Don Giovanni.
Divaghiamo, divaghiamo!
In quel dubbio supremo della sua dichiarazione «che il papa possa ancora riuscire fatale all'Italia insanguinandola in una guerra forse più civile che straniera» Don Giovanni ha egli inteso di alludere ai tentativi di conciliazione col Vaticano, che incominciati colla stessa rivoluzione l'hanno sempre accompagnata di tappa in tappa, insidiandone la sincerità dell'opera quando non riuscirono a infirmarne il movimento?
Per coloro, che conoscono tutta la sua vita, il dubbio non è nemmeno possibile, ma senza dubbio egli non ebbe un'idea molto chiara del terribile problema accennato dalle sue ultime parole.
La rivoluzione italiana, conseguenza della grande rivoluzione francese e sintomo di una maggior rivoluzione futura, ha avuto contro sè stessa il cattolicismo disciplinato e riassunto da Roma papale; il popolo che la seguì inconscio come sempre, era ed è ancora dominato nella coscienza da tutte le idee cattoliche, che non giunge e non giungerà per lungo tempo a sceverare dalle idee politiche del Vaticano. L'odio ai preti e il disprezzo della religione non sono ancora che molto superficiali: nel sentimento delle masse il matrimonio vero è quello ecclesiastico, unica religione il cattolicismo; si battezzano pressochè tutti i bambini, si affidano al clero per la prima educazione, s'iniziano in tutti i gradi della religione. Si diffida dei collegi laici, si amano tuttavia i conventi mutati in educandati; tutte le Madonne e i Santi miracolosi sono più che mai vivi nella illusione del popolo, un sottinteso scinde tutte le coscienze: si vuole la libertà della vita pubblica e si crede ancora nella servitù della vita spirituale. La scienza, incerta nei metodi, dubbia nei risultati, contradditoria nelle affermazioni, rimane in alto, retaggio e culto di pochi: la filosofia è quasi sconosciuta, la letteratura disertata dai campi dell'ideale per una irreflessiva passione scientifica non è più che pittura di superficie. La rivoluzione nata e vissuta d'istinto non si è ancora mutata in riflessione. La maggior parte di coloro che l'hanno sostenuta, morendo la sconfessano, onde i preti se ne vantano affermando che la sua verità non resiste in faccia alla morte.
Il sogno esposto da pochi, accarezzato da quasi tutti è di una conciliazione, che accordando la coscienza religiosa colla coscienza politica induca quella calma, che altri secoli hanno conosciuto.
L'ideale ultramondano, troppo spesso negato dalla rivoluzione, invincibile in fondo a tutte le coscienze offusca e sminuisce gl'ideali politici già intorbidati da interessi non sempre nè grandi nè puri: l'uomo non vuole e non vorrà mai rinunciare alla immortalità religiosa del proprio individuo per nessuna felicità storica ottenuta da spostamento di classi o migliore assisa di ordini. Uno scetticismo doloroso costringe quindi le coscienze a diffidare di tutte le forme della vita. La religione cattolica più antica degli istituti politici che la combattono, incrollabilmente superba nell'affermazione della propria immortalità, sovrasta a popoli e a governi, scemando loro colle condanne e colle ironie la fede già scarsa che hanno in sè stessi.
La rivoluzione non è nemmeno arrivata alla conquista della propria forma necessaria. Solo la Francia, che l'iniziò prima in Europa, dopo quasi un secolo di tragiche prove, attraverso sanguinose ecatombi e rovine economiche è giunta finalmente a costituirsi in repubblica, ma con così debole maggioranza di voti e fiacca compagine di sentimenti, che i residui monarchici possono ancora atterrirla min acciando o rallentarle la vita con opposizioni parlamentari, mentre gl'informi detriti rivoluzionari, che non hanno in essa potuto organizzarsi, l'osteggiano avvelenando le idee delle quali vive.
In Italia invece la rivoluzione, determinata nelle migliori coscienze da tutta una lunga serie di sviluppi storici, s'internò nel problema dell'indipendenza nascondendovi per qualche tempo indole e principii. Mazzini solo non la smarrì mai di vista e badò a spiegarla, poco inteso da coloro stessi che lo seguivano, frainteso dai più che non arrivavano a sbrogliare in sè stessi la contraddizione delle necessità religiose e politiche, malinteso ipocritamente da molti, che l'egoismo degl'interessi tendeva a raggruppare intorno alla forma monarchica parassita della idea rivoluzionaria. La rivoluzione per sciogliere il proprio problema fondamentale dovette contraddire al proprio sviluppo sottomettendosi alla monarchia; Mazzini stesso, che nell'entusiasmo del primo giorno di battaglia aveva ordinato ai propri fedeli di combattere col Re, riconobbe vecchio che la monarchia di Savoia entrando in Roma e compiendo così l'unità d'Italia, vi si assicurava un regno di qualche generazione. Questa suprema e dolorosa confessione del grande apostolo rivoluzionario fu raccolta servilmente da tutti i valletti della monarchia.
Nullameno, la monarchia non potè diventarne più forte. Anzitutto la mancanza di principio nella sua forma le toglieva di potersi davvero impadronire di una qualunque corrente di vita. Uccisa come principio dalla grande rivoluzione francese colla proclamazione della sovranità popolare, non è rimasta dopo nei paesi, i quali accolsero l'elettorato politico sulla base del diritto individuale, che un fatto storico giustificato dallo squilibrio di coltura e di sentimento nelle classi dello Stato. Le più colte si mostrarono in gran parte favorevoli alla monarchia, nella quale potevano più facilmente imperare e difendere i privilegi sopravvissuti al naufragio della grande rivoluzione: le più incolte, dominate dall'antica servilità ed esasperate nel nuovo orgoglio sovrano quotidianamente deluso dalla loro stessa incapacità, soggiacquero alla monarchia accarezzando in sè stesse piuttosto la sua negazione, come sfrenamento da ogni legge che l'avvento di una vera democrazia, nella quale la legge pura di ogni influenza di ordini fosse espressione della più astratta giustizia.
Ma nella monarchia costretta a scimiottare persino le forme più basse della democrazia, sopravvivevano i ricordi e gli orgogli del vero tempo monarchico, quando il re solo era la legge e intorno a lui e con lui i feudatarii mutati in cortigiani spadroneggiavano. Il clero più alto di principii e più largo di sistema era allora servo e signore, manipolando, urgendo, sfruttando monarchia, feudalismo e popolo. Papato ed impero avevano potuto ferirsi vicendevolmente, ma lo stesso principio faceva la loro vita e doveva riunirli, quando un altro sorgendo a combattere minacciasse di relegarli dalla storia.
Carlo Alberto il primo re, che attraverso troppe miserabili contraddizioni parlava di un'Italia sognandone la conquista, pieno ancora la fantasia delle forme medioevali e più savoiardo che italiano, si componeva, come un cavaliero della leggenda, un nuovo scudo e vi scriveva in francese — J'attends mon bel astre.
Dei tempi nuovi, della nuova coscienza creata dal diritto elettorale, neppure il più lontano sospetto: lo statuto largito come generosa concessione di monarca, invece che stabilito come diritto fondamentale; terrore e odio verso i rivoluzionari, che parlavano solo dell'Italia; pregiudizi religiosi, inflessibili vanità aristocratiche, superbie intrattabili di chi si crede nato d'altro sangue che il comune e si stima eroe acconsentendo nella rivoluzione, la quale invece è un dovere.
Ma la monarchia, che s'accorgeva di essere senza principio, non poteva non diffidare della rivoluzione, accarezzandola per giovarsi delle sue forze.
Il clero, riuscito fino allora ad inimicare democrazia e principato, vedendoli riuniti momentaneamente sotto la pressione del doppio problema dell'indipendenza e della unità italiana, si chiarì nemico per difendere il proprio minimo Stato di Roma, mentre la nuova monarchia invece seguitava con lui l'abitudine degli antichi sorrisi.
La guerra coll'Austria scoppiò. L'Italia si riunì con processo fortunato, sebbene troppo spesso umiliante, e al clero vennero ritolti la maggior parte dei possessi e dei privilegi. Roma stessa, abbandonata da Napoleone III nella caduta del secondo impero, si mutò da capitale cattolica in capitale italiana. Quindi colla legge delle Guarentigie, che il Parlamento dovette votare, appena insediato a Roma, per calmare le apprensioni del mondo cattolico sulla libertà del papa, e che fu la legge forse più abile e profonda del periodo legislativo oggi ancora in corso, ricominciarono i tentativi di conciliazione non più fra Chiesa e Stato, ma fra Papato e Monarchia. Pio IX, spirito meschino immiserito dalla vecchiaia e dai disastri, li accolse coll'acrimonia del vinto, cui uno sbaglio del vincitore presenta il destro di un rimbecco: ma Pio IX e Vittorio Emanuele morirono e Umberto I e Leone XIII si trovarono di faccia.
Se Vittorio Emanuele entrando in Roma nel 1870 aveva, nella sua fiacca coscienza di cattolico, sentito il bisogno di scrivere una lettera quasi di scusa al Papa, rincarando sulla vilezza dei ministri che si confessavano spinti su Roma dal popolo, scambiando così per finezza diplomatica la loro insufficenza in uno dei più grandi momenti della storia universale, Umberto I nell'assumere il regno, riaffermò contro il papa Roma intangibile degli Italiani. Questa salda sicurezza di contegno gli valse subito le simpatie della nazione.
Ma le encicliche del papa, i discorsi ministeriali, certe proposte di legge respinte e molte leggi interpretate a rovescio; opuscoli, libri, doni alle chiese, cortesie al pontefice, ingegno preclaro di politico quanto minuto e falso letterato: una prudente risurrezione del vecchio guelfismo, tutto accennò ad una conciliazione non ben definita sulle idee ma troppo chiara nei sentimenti. Il principato invocava dal papato le sue armi spirituali a guarrentigia dell'ordine contro le ignobili anarchie della piazza.
E, bisogna pur confessarlo, la maggior parte del pubblico vi era favorevole. Ruggero Bonghi ne scrisse molti articoli sulla Nuova Antologia che furono poco letti e meno compresi. Ora la conciliazione, apparentemente in preda ad una crisi, occupa tutti i giornali e nello stesso Parlamento ne fu discusso, e un deputato, guelfo fanatico, si è dimesso dopo la risposta confusa ma ferma del Ministero.
Nullameno il problema della conciliazione rimane forse il maggiore della politica interna conservandosi grave nella politica estera.
Esso è doppio. In tutti gli Stati parlamentari, dove il cattolicismo è religione preponderante, la Chiesa difendendosi ostinatamente nei privilegi storici perduti è partito di opposizione, troppo spesso alleato cogli ultimi radicali per odio implacabile alla libertà e offrendo nel medesimo tempo ai governi la propria alleanza per conservare quanto le è rimasto della propria posizione privilegiata. La conciliazione è allora fra Chiesa e Stato, entrambi basati sopra un principio assoluto: la Chiesa, che arbitra della vita ultramondana vuole signoreggiare la presente per indirizzarvela: lo Stato, che prima e ultima sintesi della vita umana, pretende contenerne e rattenerne tutte le forme, sottomettendole al suo diritto universale entro cui ogni singolo diritto può raggiungere tutti gli sviluppi. Ma questo dissidio per quanto filosoficamente profondo non è politicamente molto grave, poichè Chiesa e Stato sotto la minaccia del medesimo disordine rivoluzionario, possono sempre momentaneamente accordarsi.
Nell'Italia la guerra fra la Chiesa e lo Stato si complica delle diuturne battaglie fra monarchia e papato. Se il pontefice del cattolicismo stendendo la propria influenza sopra 'tutto' il mondo a certe epoche vi pretese una suprema sovranità sui popoli e sui re, politicamente il suo regno era nullameno circoscritto a poche provincie intorno a Roma. Il pontefice era universale, il papa romano. Le necessità di tale piccolo regno dominarono sempre la politica dei pontefici, costringendoli nelle più bizzarre e tragiche contraddizioni.
La loro storia fu scritta in un immenso capolavoro dal Ranke, ma l'antagonismo religioso e politico del pontificato col papato non fu nettamente analizzato in nessun libro, che io conosca. Se il papato nel medio evo aveva sottomesso l'Europa aiutandovi la civiltà malgrado gli eccessi di ogni genere che gli macchiarono la vita, doveva ultimamente soccombere per opera della rivoluzione italiana, la quale svolgendosi monarchicamente gli oppose il Principato. Il papato ucciso dalla repubblica romana del quarantotto fu seppellito nel settanta dalla monarchia di Savoia. Sul principio i due alleati, divenuti avversari, ne rimasero come trasognati; quindi il papato, più antico e più forte, mutando in carcere la reggia conservata e in catene le guarantigie concessegli, si affermò prigioniero. Pronto a patteggiare con tutti i governi, non ebbe che una vera inimicizia: la monarchia italiana.
La sua vecchia abilità di governo gli scoperse subito le parti deboli del nemico. La monarchia italiana conteneva la rivoluzione come una coccia o una cuna; ogni giorno che cresceva al bambino, scemava alla culla, che questi doveva rompere per saggiare le proprie forze prima di abbandonarla. Tutte le monarchie assorbite da quella dei Savoia, le avevano legato col regno una pericolosa eredità di odii e di difetti, mentre la rivoluzione, conquistandole mezza Italia, le aveva troppo scemata la gloria delle battaglie e la legittimità dei trionfi. Il popolo italiano nella sua massa più inerte era meglio cattolico che monarchico, nella sua minoranza più attiva rivoluzionario anzichè liberale; le classi, conservatrici per egoismo di censo e di nome, che avevano abbandonati i vecchi signori pel nuovo solamente per paura della rivoluzione, non resisterebbero intorno al re di Piemonte mutato in re d'Italia, quando quella, acquistata la coscienza di sè medesima e imparate nella opposizione le arti del governo, piglierebbe la rivincita del cinquantanove.
Queste le analisi e le speranze del Vaticano. I suoi giornali ripresero quindi la guerra recandovi una superbia d'ironia, alla quale i conservatori non seppero opporre un'uguale superbia di regno. La codardia delle frasi diplomatiche usate dal Ministero andando a Roma dopo Sedan, la lettera umile ed umiliante di Vittorio Emanuele al papa, che rigettava sulla rivoluzione la conquista di Roma, diedero ragione al Vaticano. Il suo nemico aveva coscienza della propria debolezza; temere d'essere vinto è sempre stata la meta di ogni sconfitta.
Intanto il pontefice, libero dalle angustie del piccolo regno perduto, cresceva nella estimazione dell'Europa: l'Inghilterra l'invocava contro gl'Irlandesi e Leone XIII, ripetendo l'infamia di Gregorio XVI contro i polacchi, colpiva i ribelli cattolici che ricusavano di morire di fame sotto la tirannia degli inglesi protestanti; Bismark circuito in Parlamento dai dissidenti cattolici cessava la persecuzione del Culturkampf accettando il papa arbitro nella questione delle Caroline, e spaventato dalla nuova floridezza francese ricomprava da lui un voto del proprio Parlamento per la ricostituzione dell'esercito vincitore a Sedan: lo Czar, tremante sotto l'eroismo dei nichilisti morenti a migliaia come i primi cristiani, si rivolgeva a Roma come al più vecchio focolare di autorità: la Spagna, scaduta a una vedova di re, riconfermata regina da un Parlamento che non ha ancora acquistata la coscienza di sè medesimo, si rifugiava sotto la protezione del papa ancora arbitro delle coscienze cattoliche ovunque istintivamente ostili alla rivoluzione.
La monarchia italiana si volse quindi al Vaticano affettando l'orgoglio rivoluzionario, che in fondo non ebbe mai e fu spesso costretta a simulare. I suoi più ardenti partigiani accumularono proposte su proposte negli scritti per saggiare il terreno prima di presentarle in Parlamento; Ruggero Bonghi al solito fu il più forte campione del nuovo compromesso, ma il suo ingegno sempre più largo che vasto, e troppo spesso uso a scambiare la bassezza per la profondità, fallì anche questa volta. Il fondo delle sue, come di tutte le altre proposte, era di rendere al pontefice qualche cosa dell'antico papato, ricostituendolo parzialmente in modo da permettere alla Santa Sede di uscire dalla sua ostilità verso la monarchia.
La conciliazione fra Chiesa e Stato, cioè l'accordo della libertà politica colla autorità religiosa, la composizione dell'ideale storico coll'ideale divino potrà essere più o meno difficile o lontana, ma l'aspirarvi e il tentarla è sentimento di ogni alta coscienza; la conciliazione fra il papato e la monarchia, fra un morente ed un morto per combattere la vita, rappresenterebbe la più profonda negazione d'ogni coscienza civile. La monarchia deve attingere la legittimità del proprio tempo nei servigi continui resi alla nazione e che una forma repubblicana più alta e quindi corrispondente a uno stadio più avanzato di civiltà o non potrebbe rendere, o peggio ancora renderebbe impossibili. Alleandosi invece al suo eterno nemico nella speranza che le induca nel vecchio organismo quella immortalità del proprio principio religioso che egli stesso non potè assimilarsi, commetterebbe la maggiore e la più ignobile delle colpe.
Le monarchie plebiscitarie e rivoluzionarie come l'italiana debbono saper vivere e morire della propria rivoluzione; forme incomplete della repubblica, la loro gloria più vera e la possibilità di maggiore durata stanno nel rendere la repubblica meno necessaria col più generoso e regolare servizio di ogni libertà.
I cortigiani della monarchia savoiarda non hanno ancora ben compreso questa necessità, che re Umberto ha pur mostrato di sentire in parecchie circostanze della sua ancor giovane vita politica.
Ma se la monarchia si volse istintivamente al Vaticano, questi addolcendo i termini dell'antico linguaggio tentò con suprema abilità di adescarla; il suo disegno era semplice quanto tremendo. Se la monarchia consentiva ad un accordo, che restituisse al pontificato qualche forma politica del papato distrutto, e giovandosi della sua influenza sul Parlamento riusciva a farla passare in una legge dello Stato, la monarchia separandosi dall'anima nazionale si contrapponeva alla rivoluzione. In questo caso era subitamente, irreparabilmente perduta. Se il pontificato, come organo magno del cattolicismo proseguendo la conquista religiosa del mondo è più o meno in collisione con tutti i governi; il papato sopravvissuto nel suo spirito non ha più che un ideale, la distruzione della monarchia, che lo ha sostituito.
Ma intanto il pontificato, sicuro di non perire che colla propria religione, si dispone a riordinarla per prepararsi alla grande battaglia, che la democrazia gli darà nel giorno stesso del proprio trionfo. Allora il pensiero storico e il pensiero divino, urtandosi, creeranno la più bella epopea del pensiero umano.
Leone XIII forte della nuova unità monarchica cementata dall'ultimo dogma della infallibilità, che gli permette un più rapido e sicuro maneggio di tutte le forze, ha gettato il primo grido di guerra per riconquistare storia e filosofia: e gli bisogna riorganizzare le scuole rifondendone gli statuti, reintegrandone i programmi. Gli ordini monastici necessari a tutte le religioni non funzionano quasi più. Il monachismo ha due principii. L'uno passivo, e crea ospedali per tutti i vinti della vita che vogliono fuggirla senza perderla, per tutti i malati che inetti a vivere nella storia si rifugiano nell'astrazione divina e non comunicano più coll'umanità che mediante la preghiera; talvolta questi ammalati si mutano in infermieri e guariscono ritornando all'azione colla carità. L'altro principio è attivo e crea caserme, nelle quali vengono ad arruolarsi e ad armarsi le legioni necessarie alla conquista del mondo. Naturalmente, questi due tipi fondamentali del monachismo si sminuzzano in molte fisonomie, ma in ognuna di esse l'asceta e l'apostolo sono sempre riconoscibili. Oggi il cattolicismo ha un immenso esercito di preti e di frati diviso come i moderni in due grandi classi, la milizia stabile e la milizia mobile; i preti accantonati nelle parrocchie si battono troppo poco, i frati distaccati nei conventi si battono male, e perfino le armi dotte dei collegi e dei seminari smentiscono l'antica fama e si coprono di ridicolo sostenendo qualche attacco contro lo stato maggiore del laicato.
Leone XIII ha sentita ed espressa con vera eloquenza questa miseria intellettuale della sua milizia.
L'Italia, che rinnovandosi nella rivoluzione trovò i preti ostili ma impreparati, e quindi impotenti, deve attendersi a nuova e più difficile guerra, dalla quale se non uscirà più sana e più grande, sarà inevitabilmente fiaccata. Nella guerra del pensiero i vinti hanno sempre torto e pèrdono il diritto a lla vita.
Ma la guerra complicandosi appunto delle ultime rappresaglie monarchiche colle impazienti esplosioni rivoluzionarie non sarà forse senza molto sangue, e forse a questo pensava Don Giovanni moribondo riassumendo la propria nobile vita di patriota in un'ultima angoscia di carità italiana.
Ebbene, che importa? La guerra è una forma inevitabile della lotta per la vita, e il sangue sarà sempre la migliore delle rugiade per le grandi idee.
Alla guerra...! e guai al vinto, perchè la verità è invincibile.
L'avvenire dell'Italia è tutto in una guerra, che rendendole i confini naturali cementi all'interno colla tragedia di pericoli mortali l'unità del sentimento nazionale. Troppe sono ancora le differenze di storia e d'interessi che ci separano, e troppo profondamente radicate negli animi, perchè gli sforzi della vita ordinaria possano sperare di svellerle. Se gli adepti delle antiche piccole corti soppresse sono quasi scomparsi, quelli fra loro che per tradizione aristocratica di famiglia o pregiudizi di educazione ricusano ancora la libera unità della patria riparano fra le coorti del clero, che mutato capitano e riordinato con migliore disciplina, si prepara a ritentare la battaglia, appena una guerra dello straniero impegni tutte le forze d'Italia alla frontiera.
Bisogna vigilare nello studio e rinvigorirsi nella passione superba dell'avvenire.
Ai troppo prudenti cortigiani, che lusingano l'egoismo dinastico consigliandogli alleanze con imperi, i quali diversi da noi per indole di popoli e di periodi storici osteggiano ora tutte le libertà, bisogna ricordare che la monarchia italiana fuse l'antica gloria di Emanuele Filiberto colla maggiore odierna gloria di Giuseppe Garibaldi, e che il conte di Cavour profondamente pratico come Guicciardini, talvolta largo e generoso quanto Macchiavelli, si mescolò nell'opera a Mazzini; ai clericali invece, che ebbri della sfida temeraria lanciata da Leone XIII alla critica storica rivantano i beneficii del papato all'Italia, e simulando passione di patria mirano a mescersi nei pubblici negozi per rallentare il progresso, nel quale non possono consentire, basta opporre Don Giovanni Verità, salvatore di Garibaldi, rimasto prete dopo la sua negazione del papato, morto prete, e contro il quale non si osò inveire che morto. Don Giovanni più che tutte le altre grandi vittime del papato ne rivelò le debolezze e smascherò le ipocrisie.
La sincerità della sua vita resterà nella coscienza italiana. Già il municipio di Roma con solenne consiglio gli ha votato un busto sul Pincio, nuovo Panteon delle glorie italiane. Io non so fra quali grandi uomini sarà posto; forse egli vivo ignorava il nome de' suoi futuri vicini, come non sospettava la gloria che la riconoscenza della nazione gli ha tributato. Ma ai visitatori del colle fiorito, d'onde si scorge tutta Roma e dirimpetto al quale la massa enorme di San Pietro s'erge nella maestà del proprio orgoglio, e quando il sole tramonta pare illuminarsi per le vetriate di un incendio di gloria, parrà che la modesta e rustica figura del prete montanaro sia come erroneamente capitata fra le grandi fronti marmoree delle migliori teste italiane. Forse egli stesso, se nell'altra vita come piacque a tutte le religioni infantili supporre e come le nostre religioni decrepite affermano ancora, si conserva il carattere che fu l'essenza di questa, sarà stato sorpreso da un senso quasi di modestia trovandosi in così alta compagnia.
No, no, povero prete! Le grandezze del cuore valgono quelle dell'ingegno, perchè la vita e la storia hanno egualmente bisogno di tutti gli eroismi di sentimento e di pensiero. Se la tua fronte è più bassa di quelle che ti circondano, il cuore che palpitava sotto la tua tunica di prete era più largo di quello di tutti i tuoi vicini; se essi giovarono alle scienze, tu assicurasti la risurrezione d'Italia salvandone il redentore. Fra l'eroe di Nazaret e l'eroe di Nizza tu prete non sentisti differenza, e fosti solo a non sentirla. Sii tranquillo, la tua gloria è meritata; i grandi teco allineati sono superbi della tua grandezza, che colma forse l'unico vuoto nelle loro file. Ma verrà un giorno che l'Italia veramente una di mente e di cuore, comprendendo finalmente tutte le epoche della propria vita, riunirà nella propria riconoscenza a gruppi i figli migliori incoronandoli delle idee per le quali vissero e morirono; e allora un grande monumento verrà alzato, ben diverso dai troppi che gli si ergono oggi, a Giuseppe Garibaldi, come al grande iniziatore del terzo periodo italiano; e tu prete, che lo salvasti, gli sarai accanto, emblema entrambi dell'accordo già conseguito fra la poesia ideale della religione e la poesia reale della vita.